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Autore: MinatoWatanabe    15/10/2021    6 recensioni
NaruHina | GreekAU!
"Fui certo di sentire il mio cuore perdere un battito. Era lei. La ragazza del mio sogno. La somiglianza era tanto forte da essere inquietante. La sua pelle era pallida e rifulgeva alla luce delle torce e della luna, quasi il corpo emanasse luce propria. L'espressione era grave e triste, come dettato dalla tragedia, ma una cosa in particolare attirò la mia attenzione: gli occhi. Erano tanto chiari da sembrare traslucidi."
(dal capitolo 2)
Storia partecipante al contest "What time is it? It's SUMMERTIME" indetto dal gruppo Naruto Fanfiction Italia
Genere: Drammatico, Romantico, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Hinata Hyuuga, Jiraya, Naruto Uzumaki, Toneri Ōtsutsuki | Coppie: Hinata/Naruto
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun contesto
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2

Elettra

 

Delle torce disposte su piloni d'acciaio gettavano tremule luci all'interno del cerchio di pietra allestito per l'occasione. Pensai che quella a cui stavo assistendo era una rappresentazione vecchia più di duemila anni. Anche il greco, nonostante fosse molto diverso da quello di Sofocle, suggeriva qualcosa di atavico e feroce. La memoria di un passato in cui la terra arida di Micene si dissetava con il sangue dei soldati.
Il fuoco, la calura della sera estiva, i movimenti sensuali dei corpi, uniti alla violenza della vicenda narrata, calamitarono completamente la mia attenzione, tanto che non mi resi conto che Kakashi stava cercando di farmi una domanda finché non sentii le sue dita picchiettarmi sulla spalla.

«Sì?» chiesi, rendendomi conto solo successivamente di aver alzato troppo la voce.
«Ti stavo chiedendo se capisci qualcosa... ma visto quanto sei attento immagino di sì.»
«Oh, sì, Jiraya mi ha insegnato un po' di greco da bambino. Sono arrugginito ma almeno il contesto generale mi è chiaro.»
«Conosci la storia della stirpe degli Atridi?»
«Rinfrescami la memoria...» mi faceva strano dargli del tu, ma lui aveva detto di lasciar perdere le formalità.
«Secondo il mito, la casata degli Atridi è maledetta. Tutto cominciò da Tantalo che, per testare l'onniscenza degli dei, uccise il figlio Pelope, e preparò loro un banchetto servendone le carni come pasto. Gli dei, resisi immediatamente conto dell'inganno, lo condannarono al famoso supplizio. In vita Pelope ebbe due figli: Atreo e Tieste. I due assassinarono il fratellastro Crisippo, macchiando la famiglia di un’altra colpa.  Dopo il delitto i due fratelli iniziarono un'aspra disputa per il trono di Micene. Alla fine vinse Atreo, che bandì Tieste dalla città. Qualche tempo dopo il neo incoronato sovrano scoprì che la moglie Aerope l'aveva tradito con il fratello. Per questo motivo architettò un'ulteriore atrocità: invitò Tieste ad un banchetto con la scusa di riappacificare i rapporti, ed invece gli offrì in pasto la carne dei figli da lui avuti insieme ad una ninfa. Tutto questo conduce ad Agamennone, figlio di Atreo. Questi partito per la guerra di Troia, poiché il vento non era a favore delle navi greche, decise di offrire la sua figlia primogenita Ifigenia in sacrificio. Dopo questo atto il vento tornò a soffiare e le navi greche poterono ripartire. Tuttavia la moglie di Agamennone, Clitemnestra...»
«Va bene, va bene, basta! Ti avevo chiesto un riassunto, non una lectio magistralis, e poi... che schifo! Sembra una cosa a metà fra la Bibbia e un film dell'orrore. Davvero agli antichi greci piaceva questa roba?»
Kakashi scosse la testa, ma non aggiunse altro.

Quello che avevo capito essere Oreste lasciò la scena, e il coro si spostò nel centro esatto del cerchio. Le donne del coro si aprirono in una sorta di movimento coreografico e al centro rimase una sola attrice.

Elettra.

Fui certo di sentire il mio cuore perdere un battito. Era lei. La ragazza del mio sogno. La somiglianza era tanto forte da essere inquietante. La sua pelle era pallida e rifulgeva alla luce delle torce e della luna, come se il corpo emanasse luce propria. L'espressione era grave e triste, come ispirato dalla tragedia. Ma una cosa in particolare attirò la mia attenzione: gli occhi. Erano tanto chiari da sembrare traslucidi. Occhi pallidi come la luna.
Non fu difficile per me rendermi subito conto anche delle sue doti di attrice: in quel momento non stava interpretando Elettra, era Elettra.

Kakashi  mi diede una gomitata.
«Asciugati, hai la bava.»
Gli lanciai un'occhiata scocciata.
«Però hai ragione, è bellissima. Ed è anche un'attrice sublime.»
«La conosci?»
«Sì, è la figlia maggiore della famiglia Hyuga, una famiglia nobile della zona. Si chiama Hinata.»
«Hinata...» il suono del suo nome sulle mie labbra aveva lo stesso sapore dei ricordi. Lei era la ragazza del mio sogno, non c'era alcun dubbio. Decisi che, una volta finito lo spettacolo sarei andato a parlarle.

Nonostante ci avessi capito poco o niente la sensazione che la rappresentazione mi aveva lasciato era di grande impatto. Qualcosa di cui mi sarei ricordato. Ma la cosa che più mi interessava era riuscire a parlare con leiCercando tra la folla riuscii a trovare il ragazzo che aveva interpretato Oreste. Era alto circa quanto me, con i capelli castani e un pizzetto accennato sul mento.

«Συγγνώμη που ενοχλώ, ψάχνω για Hinata (Scusa il disturbo, sto cercando Hinata)» provai in un greco stentato. Lui sorrise e parlò molto lentamente. Si era certamente reso conto che ero straniero:
«Λυπάμαι, αλλά έχει ήδη φύγει (Mi dispiace, ma è già andata via).»
L'avevo mancata. Probabilmente non avrei più avuto possibilità di rivederla. Merda.
«Σας ευχαριστώ ούτως ή άλλως για τη διαθεσιμότητά σας και συγχαρητήρια για την παράσταση (Grazie comunque per la disponibilità, e complimenti per lo spettacolo).»

Tornai da Kakashi, che era stato nel frattempo raggiunto da Jiraya. Non avevo idea di dove fosse stato tutto il pomeriggio. Di certo non si era disturbato a comunicarmelo.
«Ciao, eh!» dissi puntando il dito contro di lui.
«Ciao!» rispose con un sorriso a trentadue denti.
«Piaciuto lo spettacolo?»
Molto, ma non potevo rispondere così. Dovevo mantenere un certo distacco davanti a lui.
«Aveva il suo perché suppongo.»
Jiraya scoppiò in una fragorosa risata.
«Mi ricorda qualcuno, il ragazzino.» disse facendo un cenno in direzione di Kakashi.
«Non dire stupidaggini, io mi sono sempre interessato alle opere tragiche.» soffiò quest'ultimo, distogliendo lo sguardo mentre Jiraya gli dava di gomito.
«Allora, Naruto, sei pronto per andare a casa?» disse riportando la sua attenzione su di me.

Ci pensai qualche secondo prima di rispondere: non volevo andare via. Come se Micene fosse l'unico collegamento che avevo con quella ragazza. Cercai un motivo plausibile per chiedere a Jiraya di temporeggiare. Allontanarmi avrebbe significato aumentare ancora di più la distanza tra me e lei.
Non ne trovai nessuno.

«Andiamo.»
Jiraya si incamminò ed io lo seguii, ma subito dopo ci ripensai e tornai sui miei passi.

«Ti ringrazio di tutto, Kakashi.»
Lui annuì, tendendomi una mano. Io la ignorai e lo strinsi in un abbraccio, che lo fece irrigidire, immagino non fosse una cosa a cui era abituato. Ma per me un abbraccio aveva molto più valore di una stretta di mano.
«È stato un piacere, Naruto. Abbi cura di te.»

Salimmo in macchina e ci avviammo verso la nostra destinazione finale: la cittadina portuale di Nauplia.
Il sonno, rimandato fino a quel momento, mi colse senza preavviso. Un sonno senza sogni.

***

Sentii una mano scompigliarmi i capelli.
«Naruto, siamo arrivati.»
Con grande fatica aprii gli occhi, per scorgere un Jiraya che ancora un po' sfocato mi sorrideva.
«Coraggio, prendi le tue cose. Alle valigie penso io.»

Scesi dall'abitacolo e mi presi qualche istante per inspirare l'aria salmastra. La luna era alta nel cielo, e fu inevitabile per me pensare a quanto ricordasse i suoi occhi.

Hinata.

Chissà chi era. Il pensiero era tornato a lei in maniera automatica. A lei e all'amarezza che provavo per il fatto di non saperne nulla.

Dai sedili posteriori trassi i miei materiali: tela, matite, pennelli, smalti, colori ad olio, acqua ragia e cavalletto. Pensai tra me e me che probabilmente sarebbe stato necessario più di un viaggio per portare tutto in camera. Con la tela sottobraccio (l'unica cosa che non potevo poggiare a terra) seguii Jiraya attraverso la porta d'ingresso, e per la prima volta guardai davvero la casa. Era un piccolo sogno: le pareti bianche di calce come quelle delle case vicine; l'ingresso posteriore dava direttamente sulla spiaggia, così come le finestre delle camere; le tende semitrasparenti ondeggiavano al vento.
La linea semplice infondeva un senso di pace che già potevo sentire insinuarsi dentro di me. Le finestre erano socchiuse e le piante – diversi vasi erano disposti vicino all'ingresso – erano state annaffiate di recente, segno che qualcuno era stato a prendersi cura delle faccende di casa prima che arrivassimo.

Jiraya aprì la porta e si lasciò sfuggire un lamento nostalgico:
«Sono tornato vecchia mia.»
«Allora cosa ne dici?» mi chiese.
«È bellissima.» gli assicurai.

L'interno rispecchiava perfettamente l'esterno. Semplice e arioso. Profumava di mare ed estate. Non trovavo affatto strano che a Jiraya mancasse vivere in Grecia, in fondo.
«Vieni.»
Mi guidò verso il fondo del corridoio, seconda porta a sinistra.
«Tu dormirai qui. Era la stanza di tuo padre.»
«Quanti anni aveva l'ultima volta che siete venuti in Grecia insieme?» chiesi entrando nella stanza e cominciando a guardarmi intorno.
«Credo che avesse proprio la tua età, se non mi sbaglio» disse «l'anno in cui conobbe tua madre.»
«Davvero?»
«Sì. Fu un incontro singolare. D'altro canto con lei tutto era singolare. Era energia pura, Kushina. Una delle donne più straordinarie che abbia conosciuto. Tu le somigli molto.» disse, e un'ombra di tristezza attraversò il suo volto.
«Si conobbero in una sera come questa» disse tornando in corridoio e avvicinandosi alla porta sul fondo del corridoio «proprio su questa spiaggia.» e aprì la porta su uno scenario più vicino ad un sogno che ad una spiaggia. Una sottile lingua di terra che divideva la casa dal mare, con sabbia finissima e chiara. La luna si rifletteva sulla superficie scura e piatta del mare tingendo l'acqua di riflessi argentati.

Jiraya mosse i primi passi sulla sabbia ancora con le scarpe addosso.

«Ti ho già raccontato era una pittrice, ma... beh, se devo essere sincero probabilmente non aveva neanche una briciola del tuo talento. Ciò che la rendeva unica era il fatto che ci mettesse sempre l'anima. Lo si poteva vedere molto chiaramente osservando i suoi dipinti.»

Sospirò.
Si voltò verso il mare e si prese un istante per respirare quell'aria che tanto doveva essergli mancata.
Mi feci accanto a lui in silenzio. Mi posò una carezza sulla testa. Nonostante fossi ormai quasi adulto Jiraya mi superava ancora di dieci centimetri buoni.

«Io vado a dormire. Quando hai finito di portare dentro le tue cose chiudi tutto a chiave. A domani!» disse dandomi una pacca sulla spalla. Dopodiché sparì all'interno della porta a destra.

Finii di trasferire tutto il materiale e disposi tutto nel modo più ordinato possibile (l'unica parte della mia vita in cui non dilagava il disordine era il mio lavoro artistico, perché se fossi stato disordinato anche in quello probabilmente non sarei mai venuto a capo di nulla). Mi spogliai a lasciai i vestiti a terra. Spensi la luce e mi buttai sul letto.

Quindici minuti passati a girarmi e rigirarmi furono sufficienti a farmi impazzire di frustrazione e, dal momento che di dormire non se ne parlava proprio, decisi di fare due passi in spiaggia. Mi rivestii e presi matita e blocco da disegno: la luce dei lampioni delle case vicine rischiarava la spiaggia abbastanza da permettermi di tentare di abbozzare qualcosa.

Lo sciabordio delle onde che si infrangevano sul bagnasciuga riempiva il silenzio della notte. Non si udiva altro rumore. Nell'aria c'era una leggera umidità, ma non era fastidiosa.
Mi sedetti, la sabbia era fresca e sottile. A gambe incrociate iniziai a schizzare quello che avevo davanti. La pittura paesaggistica mi aveva sempre rilassato molto. Era come mettere ordine: gesti semplici e automatici che mi garantivano quasi sempre un risultato gradevole. Quasi appunto. 

«Fanculo!» sbottai, strappando il foglio su cui avevo inziato ad accennare la linea di divisione tra il mare e la terra. Qualsiasi tratto tracciassi sul foglio bianco mi pareva sbagliato, antiestetico. E questa sensazione, per me, era come tornare all'inizio della mia esperienza con il disegno. Alla fatica che avevo fatto per il primo anno di studio per ottenere qualcosa di vagamente decente.

All'inizio non amavo l'arte. Ma volevo bene a Jiraya e secondo lui quello sarebbe stato un modo per canalizzare i miei sentimenti. Una “valvola di sfogo”. E mi avrebbe fatto bene, anche perché studiando a casa, non avevo mai avuto amici.

A volte penso che, se i miei genitori non fossero morti, mi sarei potuto evitare problemi come quello che fece decidere a Jiraya di farmi studiare a casa. In prima elementare un'insegnante mi definì “aggressivo e incline alla violenza”, nonostante non avessi mai fatto del male a nessuno. E si sa, quello che gli insegnanti dicono è inequivocabilmente vero, quindi i genitori chiesero che venissi separato dagli altri bambini. Era per la loro sicurezza e anche per la mia, s'intende. La voce che in una classe c'era un bambino tenuto separato dagli altri si sparse a macchia d'olio, e non passò molto tempo prima che se ne aggiungessero altre: “ha mandato un bambino all'ospedale, è pericoloso”; “ha colpito la maestra scagliando un banco”; “il prete dice che c'è un demone dentro di lui”.
Questa situazione mi ferì molto più di quanto fossi disposto ad ammettere e, quasi a voler confermare il ritratto che gli altri avevano dipinto per me, divenni intrattabile, esagitato. Un piantagrane. 
Jiraya, che si era reso conto della situazione, decise di parlare direttamente con il preside, che ovviamente, visto il mio comportamento successivo a quanto accadde, tenne la parte all'insegnate. Fu allora che decise che per me era meglio studiare a casa. Per un periodo fui davvero convinto che dentro di me ci fosse un demone. E, dal momento che non avevo alcun amico con cui giocare, decisi che sarebbe stato lui a diventare mio amico. Gli diedi anche un nome: Kurama. 

Rimasi a casa per diverso tempo dopo questo episodio e tuttavia zio Jiraya si rese presto conto che le quattro pareti di casa mi stavano strette. Proprio per questo motivo decise di iscrivermi ad un corso di disegno.

Dopo alcuni anni mi resi conto che l'arte avrebbe potuto essere un riscatto. Un modo per dimostrare che anche da uno come me poteva nascere qualcosa di bello. Mi impegnai e migliorai molto, e dopo alcuni anni passai il test d'ammissione all'accademia d'arte.

Provai nuovamente a tracciare quella linea, ma ciò si tradusse nuovamente in un foglio accartocciato. Non era aria. Decisi allora di fare due passi sulla spiaggia cercando di svuotare la testa. La sensazione della sabbia sotto i piedi nudi mi stava dando ai nervi. Ma credo che qualsiasi cosa mi avrebbe dato ai nervi, in quel momento. Sembrava che niente andasse per il verso giusto: non riuscivo a disegnare; non ero riuscito ad incontrare la ragazza del mio sogno... mancava solo che Kurama saltasse fuori dicendomi che in realtà lui era sempre esistito.

Dopo qualche minuto di passeggiata riuscii a calmarmi. Alzai lo sguardo che fino a quel momento avevo tenuto fisso a terra e mi decisi a guardare dove stavo andando. Scorsi una figura seduta con i piedi immersi nell'acqua. Una donna. Il volto era coperto dai capelli. In normali circostanze sarebbe stata mia intenzione procedere senza prestarle attenzione, ma avvicinandomi mi resi conto che stava piangendo.

«Όλα ειναι καλά? (va tutto bene?)» chiesi, pregando che capisse il mio pessimo greco.
«Ναί (sì)» rispose.

Alzò lo sguardo su di me e fu allora che la riconobbi. I suoi occhi non avrei potuto dimenticarli nemmeno se avessi voluto.

Hinata.

Rimasi a bocca aperta e prima che potessi rendermene conto sparai, direttamente in inglese:
«Ma tu sei Hinata! Ti stavo cercando prim... Whoops» dissi premendomi successivamente una mano sulla bocca.
Potei scorgere sul suo viso lo stesso sgomento che ero certo fosse dipinto sul mio. Ma fu solo per un istante. Si ricompose e, in un perfetto inglese, mi domandò:
«Sei americano, vero?»
Con gli occhi ancora umidi si sforzò di rivolgermi un sorriso.


 


L'angolo di Minato-kun:
Buongiorno,
in ritardo (come sempre) eccoci con il secondo capitolo in cui Hinata fa la sua entrata in scena. Ringrazio per le recensioni, in particolare i giudici puntualissimi e molto accurati nel loro lavoro. 
Spero che questo capitolo rispetti le aspettative. 

P.S. Non parlo il greco moderno (nemmeno quello antico a dire il vero), e mi sono affidato ad un amico per le traduzioni, spero siano accurate!

 

   
 
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