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Autore: JSGilmore    02/11/2021    2 recensioni
Melinda e Daniel sono due fratelli, nati e cresciuti a Mason Street, una via degradata di Brixton. A causa del lavoro a tempo pieno dei genitori hanno dovuto guardarsi le spalle a vicenda da quando sono piccoli e hanno stretto, da subito, un legame molto profondo. Tutto è sempre filato a meraviglia, fino al quattordicesimo compleanno di Melinda, in cui la ragazza scopre di provare un attaccamento morboso per suo fratello maggiore. Un attaccamento che presto si trasformerà in una dolcissima ossessione. Lei non avrebbe dovuto innamorarsi di lui, e lui non avrebbe dovuto amarla a sua volta, ma nonostante i tentativi di allontanarsi alla fine non potranno fare a meno che cedere... E le conseguenze del loro amore non tarderanno ad arrivare....
La storia racconta della vita di due persone, dall'adolescenza fino all'età adulta e di come un amore proibito è in grado di segnare indelebilmente intere esistenze. La storia racconta di un incesto tra fratello e sorella, quindi se siete sensibili al tema vi sconsiglio caldamente la lettura.
Genere: Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago, Scolastico
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Chapter 5: Prima volta


Era la sera di Halloween. Mamma e papà dicevano che ero troppo grande per fare dolcetto o scherzetto, e per obiezione mi ero travestita da dinosauro.

Daniel disse che dal suo punto di vista assomigliavo più a un alieno, e aggiunse: «Stavo giusto pensando a una teoria che spiegherebbe tutto, non sei mia sorella, sei un’extraterrestre venuta qui a studiare gli umani e le loro reazioni e consegnare i risultati al tuo Governo Verde.» Risi per incoraggiarlo a non fare più battute: i ragazzi non hanno molto senso dell’umorismo.

Le mie amiche si erano mascherate da streghe. Avevano lo stesso cappello nero a punta, ma erano a dieta, quindi niente chili di caramelle o ragni gommosi. Ci radunammo nel villino di Giselle. I suoi genitori erano più patetici dei miei: trascorsero l’intera serata davanti alla porta, a bisticciare su chi dovesse aprire e a lamentarsi sul fatto che non avessero abbastanza marshmallow e cioccolatini per tutto il vicinato fantasma. Ci seppellimmo nella cameretta. La nostra intenzione era fare una seduta spiritica e invece finimmo solo per parlare di sesso e a scambiarci fondotinta e correttori.

Giselle aveva già perso la verginità con il suo istruttore di nuoto, bello, palestrato, dai capelli color limone e un vero fischietto sul petto rasato: questo spinse me ed Elizabeth a chiederci se non fosse arrivato il momento di compiere il grande passo con qualcuno.

Ero fidanzata con Aaron da quasi un mese e non eravamo mai andati oltre il bacio. Inspiegabile per un tipo come Matis, a meno che non soffrisse di una qualche grave forma di psoriasi inguinale.

Giselle era cristiana e i suoi genitori non avrebbero dovuto sapere che aveva perso la verginità prima del matrimonio, motivo per il quale continuavamo a parlare come in un film muto. La torcia ci illuminava a turno le bocche pitturate da un rossetto nero.

«E com’è?», le domandò Elizabeth, con i suoi occhietti vicini più curiosi che mai; si mordicchiava le pellicine del labbro inferiore, in attesa.

Giselle rise di gusto. «Strano»

Mi ero persa. «Come strano?»

«È grosso e allungato, e pieno di peli spessi», spiegò Giselle e non ci misi molto a capire che si stessero riferendo al membro maschile, anche se non ne avevo mai visto uno. Tentai di immaginarmi qualcosa che potesse avere quelle caratteristiche ma non mi veniva in mente nient’altro che una carota.

«Non ne hai mai visto uno, Mel?» chiese sorpresa Giselle, come se mi avesse letto nel pensiero. Giselle aveva quasi quindici anni, era nata a febbraio, molti mesi prima di noi e questo si vedeva: aveva un vitino stretto da vespa e i fianchi rotondi; sotto la carne morbida delle guance, si cominciavano a delineare mascella e zigomi affilati, come se da lì a poco, senza preavviso, fosse diventata una donna a tutti gli effetti. Aveva trovato un lavoro come modella, in un negozio di abbigliamento vicino casa e questo lo aveva consentito di guadagnarsi punti con i ragazzi. La settimana precedente mi aveva anche chiesto di accompagnarla a uno shooting, ma amavo troppo i cheeseburger per fare la modella.

«Ehm no, non ne ho mai visto uno» chiarii, e le mie amiche rimasero tranquille, senza dare l’impressione che questo potesse rappresentare un problema per la nostra amicizia.

«Con Matis niente?», tentò Elizabeth. La sua vocina candida era densa di disappunto.

«Ma che dici, El!», la rimproverò Giselle con un’espressione sbigottita, «non può mica finire a letto con il più sexy della scuola senza neanche sapere com’è fatto un coso

Come sempre, aveva ragione. Perciò mi informai su come avrei potuto rimediare a quel grosso problema.

Giselle emise un sospiro giudizioso. «Guardiamoci un porno.» Tirò fuori il cellulare: un Blackberry nuova generazione, e iniziò a navigare nella temibile oscurità dell’internet. Stappai una lattina di soda. Giselle si morse l’unghia smaltata di viola. «I ragazzi vanno molto fieri del loro pene, Mel, più è ingombrante il loro attrezzo e più si credono chissà chi.»

Chissà se alla vista di questo pene, mi sarei finalmente tolta le idee malsane che avevo su Daniel. Dal nostro bacio non avevo più avuto il coraggio di guardarlo negli occhi, anche dopo che mi aveva ricomprato il DVD e regalato i biglietti per il concerto dei Keane: cercavo di rimanere fuori casa il più possibile, in compagnia di Aaron. Le mie amiche avrebbero venduto l’anima pur di passare il tempo con lui e io invece lo usavo semplicemente per evitare mio fratello.

Un atto estremo di delinquenza.

Se fosse esistito il girone delle sfigate ingrate, ci sarei finita immediatamente. Comunque, se si escludevano le volte in cui si specchiava nelle vetrine, anche quelle del negozio di ortopedia sotto casa, Aaron era un tipo dolce. Quindi, mi sentivo anche in colpa. Come se non avessi avuto già abbastanza per cui sentirmi in colpa.

Giselle cliccò sul primo titolo. “Stallone inglese molto dotato si dà da fare”. La ragazza nel video stava palesemente fingendo che le piacesse: avrei dovuto gemere così forte anch’io? Se non altro, quello era stato il filmino più orribile che avevo visto nelle storie di Halloween.

Ripensai all’espressione divertita di Daniel quando mi aveva vista uscire di casa da dinosauro e mi vennero in mente gli alieni. Una quattordicenne poteva fare domanda di arruolamento in qualche esercito marziano e scappare per sempre dal pianeta terra?

«Be’, Mel, che te ne pare?», chiese Giselle. «Una gran scopata, non trovi?»

«Se ti piacciono questi tipi di pratiche…»

Elizabeth si tolse un ricciolo dall’occhio. «A trovarlo, uno che ti ripassa in quel modo.»

Giselle fece schioccare la lingua al palato. «Mel, dammi retta, ci lavoreremo.»

Quando tornai a casa, mamma e papà erano svenuti e Daniel era in camera sua: gridolini acuti di piacere da perforare le tempie, di una ragazza, provenienti dal suo antro segreto. Dall’appendi abiti penzolava un camice bianco e immacolato; nella tasca uno stetoscopio di plastica dagli auricolari a forma di cuore. Daniel aveva festeggiato in un pub con amici dell’università e si era riportato a casa un souvenir: l’infermiera sexy. Quella notte avrei avuto di sicuro gli incubi.

Nei giorni che seguirono, decisi che era arrivato il momento di farlo con Aaron.

Lui e la sua sigaretta, la cui brace era rossa e tondeggiante come una ciliegia, rimasero immobili sul divano in vinilpelle in salotto. Eravamo da soli. Completamente soli.

Mi fissò, e in una sola occhiata annotò tutte le curve dei miei acerbi e irripetibili quattordici anni. Una prima scarsa di seno era il massimo che avrei potuto offrirgli, non facevo fatica a capire il perché di tutta quella ritrosia. «Dici sul serio?» domandò, e dopo qualche secondo riprese a fumare la sua sigaretta, come a volerne risucchiare più veleno possibile.

Se avessi saputo che mi avrebbe riservato attenzioni così povere, non avrei di certo perso tempo a mettermi il gloss, a pettinarmi i capelli e a passare in rassegna tutti i jeans nell’armadio, alla ricerca di quello con la tonalità giusta. «Sì, Aaron» annuii vigorosamente, «mi sento pronta per il grande passo. E tu?»

«Io già l’ho fatto» disse svogliato. Ah, già, lui era il donnaiolo più sexy della scuola. «Spogliati, allora, dai.»

La verginità per me era diventata un peso, e volevo sbarazzarmene il prima possibile ma adesso mi erano appena venute in mente un paio di ragioni per cui sarebbe stato saggio aspettare prima un po’. 1) I miei genitori e mio fratello sarebbero ritornati a casa a breve, 2) non avrebbero gradito il fatto che facessi sesso sul divano su cui guardavamo tutti insieme le partite di calcio, e anche se fossero tornati dopo che Aaron e io ci avevamo dato dentro, 3) non avrei gradito il fatto che le partite di calcio guardate in salotto mi avrebbero per sempre ricordato la mia prima volta, la quale 4) sarebbe stata di sicuro deludente, perché, nonostante il porno che avevo visto, 5) nella mia mente, il pene aveva ancora le sembianze di una carota.

Ma forse era solo l’ansia da prestazione.

Gli dissi che non ero ancora pronta. Cacciai fuori delle scuse: compiti, genitori severi, lezione di zumba, dar da mangiare ai piccioni, appuntamento dal dottore a causa di un’improvvisa e acuta broncopolmonite sessualmente trasmissibile, e lui non ci rimase granché male. Scrollò le spalle. «Fa’ come ti pare», e se ne andò.

Quel pomeriggio avrei dovuto vivere la vita fino al midollo, e invece mi ero rivelata troppo coscienziosa al punto da fare due lavatrici. Una per i capi bianchi e l’altra per i colorati.

I ragazzi non erano degli assi in materia sentimentale.

Passai tutta la sera in cameretta. Non salutai né i miei né mio fratello. Telefonai a Giselle e ci confrontammo su un paio di questioni, come ad esempio che ero stata un’idiota.

«Nessuno dice di no ad Aaron Matis» disse Giselle, «sei pazza, Mel». Chiamai Elizabeth e convenne anche lei che fossi pazza: «Santo cielo, Mel!» tuonò in un’imitazione molto discutibile di Giselle, «tu e Aaron state insieme praticamente per grazia divina che ti è stata concessa, chiamalo e digli subito che ti sei sbagliata»

Feci come mi aveva detto, più per rassegnazione che per reale interesse. Il telefono squillò. «Sì, Melinda?»

«Ciao, Aaron, sì scusami se ti chiamo a quest’ora. Stai cenando?» Ma che domanda era? Se fosse a tavola non mi avrebbe risposto di certo.

«No, no. Dimmi pure» Dimmi pure? Odiavo quei suoi toni formali, ma non mi feci scoraggiare dalla sua misteriosa cerimonialità. «Stavo riflettendo su quella faccenda della prima volta, e mi sono convinta. Ti andrebbe di…»; mi bloccai. Come avrei dovuto chiamare l’atto in sé? Fare l’amore lo avrebbe messo davanti all’incombenza – pretestuosa e spaventosamente irrealistica- che tra di noi ci fosse qualcosa che andasse oltre la mera frequentazione, appena supportata da un’attrazione fisica. Scopare e simili, avrebbe richiesto una confidenza e una scioltezza che non sentivo di avere. Avrei potuto usare un’immagine potente, quasi bellica, che però non avrebbe dovuto suggerire lo sbocciare di un amore inaspettato come: deflorazione della Patagonia, ma era passato troppo tempo e Aaron mi stava già rispondendo. «Domani in garage da me?», rimasi con il fiato sospeso finché non aggiunse: «Compro un materassino, se non vuoi farlo in macchina»

«Vada per il materassino.» E riagganciammo.

Il giorno dopo, avevo lo stomaco chiuso: avrei perso la mia verginità con Aaron e la cosa sorprendente era che nessuno lo stesse minimamente sospettando. O forse sì.

«Dove hai detto che vai?», chiese distratta mia madre, indugiando sulla mia maglietta aderente grigio tubercolosi; quel giorno i miei genitori non erano al lavoro come al solito, e anche mio fratello non aveva esami che lo costringevano a tapparsi in camera sua. La casa era infestata di curiosi che stavano intaccando gli ultimi momenti da Vergine Brava Ragazza che mi erano rimasti.

«Da Aaron… stiamo un po’ da lui, oggi», cercai di mantenere un profilo basso.

«Non è un po’ grande per te?» chiese mia madre, con il tono di voce di chi aveva intenzione di farmi quel discorso. Papà abbassò il volume della televisione dal salotto, probabilmente aveva drizzato le antenne anche lui. C’era un’atmosfera strana.

«Ha la stessa età che aveva il mese scorso» replicai con una logica inattaccabile.

«Di questo ne sono certa», disse mamma impaziente, «ma il mese scorso aveva “pressoché la tua età”, invece ho recentemente scoperto che ha tre anni più di te! Sono tanti, Melinda!» Non osai indagare su come lo avesse scoperto. Ciò che raccontava esserle caduto dal cielo, in realtà, erano conoscenze apprese con faticose ricerche e documentazioni che rasentavano lo stalking.

Daniel entrò in cucina. «Penso che la mamma abbia ragione» Era torvo e un’ombra scura gli incupiva il volto. Prese dei biscotti integrali dalla dispensa.

«Fatti gli affari tuoi, Daniel! Tu non c’entri un fico secco!» Oh, eccome, se c’entrava. L’ultima volta che avevamo parlato di Aaron gli avevo confessato di avere il sospetto che fossi asessuale e poi, come se non bastasse, lo avevo pure baciato e cominciato a trattarlo con sgarbo e sufficienza. Bipolare, depravata e scorbutica in un colpo solo. Aveva fatto un grave errore a portarsi a casa quell’infermiera…

«Melinda!» esclamò turbato papà dal salotto, «non fare la maleducata, non ti abbiamo cresciuta così! Daniel ti ha persino regalato quei maledetti biglietti! Sei davvero molto poco riconoscente nei suoi confronti!»

Rimasi in silenzio. Mio padre prediligeva mio fratello perché con lui poteva intavolare una discussione colorita sui dirigenti calcistici ogni volta che voleva, e con me, invece, una quattordicenne in preda a crisi ormonali, bisognava stare attenti a utilizzare del tatto.

Con enormi probabilità, prima di quella conversazione, tutta la mia famiglia si era riunita per complottare alle mie spalle. Inaccettabile e vergognoso.

«È stato bocciato?» mi domandò mio padre. Per lui, ancor peggio dei drogati o degli stupratori, erano i bocciati a scuola. Scossi la testa e si rasserenò. «Puoi stare un po’ da Aaron, oggi» disse infine la mamma, «a patto che torni per cena. Chiaro?»

Lanciai un’occhiata a Daniel, che stava ascoltando attentamente la conversazione tra me e la mamma fingendo di mangiare biscotti, e mormorai: «Cristallino.»


Note.
Sono tornata con un nuovo capitolo! Dite la verità: vi ero mancata? :')
Ringrazio tutti quelli che stanno mettendo la storia tra le seguite/preferite! Non pensavo sareste stati così tanti... E perciò fatemi sapere cosa ne pensate di questo nuovo capitolo con una piccola recensione.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore.
   
 
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