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Autore: holls    11/11/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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9. Innocenti Evasioni

 

Voglio morire.

Spalancai gli occhi, mentre una goccia di sudore mi scivolò sulla tempia.

Davanti a me c’era solo oscurità, che assunse contorni visibili alla stessa velocità con cui quelle parole diventavano un’eco in lontananza.

Sopra la mia testa c’era la sagoma di un quadro e poco più avanti una credenza, che ero abbastanza convinto di non aver acquistato negli ultimi giorni.

Gli occhi si abituavano al buio, il torpore del sonno abbandonava il mio corpo e intanto scorgevo una televisione, con un mobiletto pieno di DVD alla sua sinistra, una poltroncina e, dietro questa, una luce accesa.

C’era una stanza, lì davanti a me, ma impiegai qualche secondo a capire che la porta aveva il vetro smerigliato ed era chiusa.

Mi resi conto subito dopo che quella non era casa mia: ero a casa di Alan, sul suo divano. Come ero arrivato là?

Raccolsi i frammenti dei ricordi della sera prima e provai a fare un po’ di ordine. C’era stata la festa, c’era stato Harvey – mi uscì un sospiro -  e c’era stato anche un Alan un po’ troppo alticcio per poter guidare fino a casa. Non ero ancora un ladro di automobili, quindi mi ero fermato a dormire a casa sua e avevo parcheggiato la macchina… dove?

In quel momento non era importante.

La cosa importante era che, davanti a me, c’era una luce accesa. Mi rigirai per uscire dal divano, ma non pensavo che fosse tanto stretto e così – ahi! –  mi ritrovai col muso a terra. Non avevo fatto in tempo a coprirmi con le braccia, ma era comprensibile, visto lo stato catatonico in cui mi trovavo.

Qualcuno fece scorrere la porta smerigliata e sospirai ancora: Alan era appoggiato allo stipite, vestito esattamente come l’avevo lasciato, con qualche ciocca di capelli sparata in modo disordinato e una tazza in mano.

«Che combini?»

Tasto la durezza del pavimento, avrei voluto dirgli, ma mi venne in mente un attimo dopo la mia risposta.

«Volevo alzarmi, ma sono caduto.»

Sbuffò divertito, poi venne verso di me e poggiò la tazza sul tavolino contro cui non avevo battuto la testa per miracolo.

Caffè. Non c’era odore di zucchero.

Mi tese una mano e mi aiutò a rialzarmi, poi si portò l’altra alla testa e riafferrò la tazza.

«Ti fa parecchio male?» bisbigliai, indicando la sua fronte.

«Diciamo che ho avuto momenti migliori.»

Dalle finestre entravano giusto una manciata di tenui raggi dal lampione più vicino, che schiarivano la stanza quel poco che bastava per non battere gli stinchi sugli spigoli insidiosi e per vedere la sagoma del viso di Alan che mi faceva cenno di seguirlo in cucina.

Tutta quella luce fu un tremendo shock. Gli occhi mi dolsero per qualche istante e li stropicciai, poi vidi Alan accendere una luce meno intensa e spegnere quella principale. Sembrava quasi che anche la luce dovesse adattarsi a quel silenzio.

Si sedette a tavola, sul lato più lungo, e io presi posto al capotavola accanto a lui.

Bevve un altro sorso di caffè, ma notai che ne aveva buttato giù pochissimo.

«È amaro da morire. Quasi quasi mi tengo il mal di testa.»

Quel tono sommesso conferiva a quel momento l’intimità di due amici di vecchia data, di due ragazzi svegli, nel cuore della notte, a parlare del più e del meno. Sembravamo lontani da tutti i problemi che avrebbe portato il giorno, sospesi in una sorta di limbo privo di preoccupazioni.

Mi guardai intorno per cercare un orologio che non trovai.

«Che ore sono?», chiesi.

«Quasi le quattro. Ti ha svegliato la luce?»

Scossi il capo.

«No, tranquillo. Stavo sognando, ma a un certo punto…»

Tu mi dicevi ‘Voglio morire’.

Aggrappato al mio corpo, i pugni serrati sulla mia maglietta, Alan mi aveva detto poche cose, ma chiare.

«…Sì?»

Non mi venne in mente niente, ma non potevo pretendere molto con due soli neuroni attivi.

«Lascia stare, era un brutto sogno.»

Annuì appena e non mi chiese altro. Sapevo che aveva capito qualcosa, anche se più probabilmente pensava che riguardasse me; tuttavia aveva il garbo di non insistere e di capire sempre il sotto-testo di certe situazioni.

Rispettava i miei silenzi e lasciava che fossero loro a parlare per me. Forse era quello che avrebbe voluto lui, con tutte quelle persone che sicuramente gli avevano fatto domande su Oliver e sulla sua vita sentimentale.

Restammo in silenzio, ma sembrò quasi che ci coccolasse, mentre l’unico sottofondo che si udiva era il deglutire di Alan e il suo posare la tazza di caffè sul tavolo per riprendere coraggio.

Quando ebbe finito fece una piccola smorfia contrariata, poi si alzò per lavare la tazzina, anche se aveva lasciato un po’ di fondo.

Il rubinetto dell’acquaio ruotò verso l’acqua fredda e uno scroscio continuo si schiantò contro l’acciaio. La spugnetta strusciò su tutta la circonferenza della tazzina, che Alan tuffò sotto l’acqua e finì di lavare. Quando chiuse il rubinetto, mi accorsi che la lampada ai fornelli, quella che Alan aveva acceso, emetteva un piccolo e monotono ronzio di sottofondo.

Sentii calare le palpebre, ma le riaprii subito, quando Alan tornò al suo posto, accanto a me.

«Se hai sonno, puoi tornare a dormire.»

«No, ormai non mi riaddormento più.»

Alan adagiò la testa sul palmo della mano destra.

«Sonno leggero?»

«Non proprio. È che quando mi metto a letto, poi comincio a pensare e non mi addormento più.»

Lui sorrise.

«Ti capisco, succede anche a me.»

Lui sicuramente pensava a Oliver. Tuttavia mi piacque immaginare che i suoi pensieri fossero altri, meno scontati, più sfaccettati. Non ebbi il coraggio di chiederglielo, però.

Il ronzio della lampada mi sembrò più consistente. Sembrava una zanzara di cui non riesci a sbarazzarti, con la sola differenza che non pinzava. Se prima mi era sembrata quasi ipnotica, ora era decisamente fastidiosa e mi stava facendo risvegliare troppo presto.

Alan aveva lo sguardo perso nel vuoto della tavola. Teneva ancora il capo accoccolato sul palmo, forse per far sì che il mal di testa non aumentasse. Sbatté le palpebre e tornò a muovere quegli occhi non troppo vispi, poi posò lo sguardo su di me.

«Ma tu che ci fai qui?»

Ci aveva pensato solo in quel momento, wow. O forse anche prima, visto che non si era spaventato quando ero caduto dal divano. Non lo sapevo ed era un ragionamento troppo complesso per il momento.

«Qualcuno qui non regge bene l’alcool e l’ho dovuto riaccompagnare a casa. Ho pensato di fermarmi qui, non mi andava di prendere la metro.»

Alan soffiò via qualche residuo di sonno e annuì senza troppa convinzione. Si massaggiò nuovamente la tempia e vidi sul suo volto una piccola smorfia di dolore.

«Dov’è la macchina?»

Allarme rosso, allarme rosso. Dov’era la macchina? Che bella domanda.

«Nei paraggi.»

Sbuffò ancora.

«Ma non mi dire. Non ti ricordi il nome della via? Un riferimento?»

Mi grattai il mento, come per riflettere, ma era tutto inutile.

«La cerchiamo dopo insieme. Non dovrebbe essere difficile, no?»

Alan scosse il capo e ne approfittò per far scorrere la tempia sotto i suoi polpastrelli. Poi abbozzò un sorriso.

«Sei impossibile, davvero.»

Non insistette oltre. Tirai un sospiro di sollievo: non se l’era davvero presa e poi la macchina era realmente nei paraggi. Sarebbe bastato andare in giro con le chiavi in mano a premere il pulsante di apertura, a mo’ di bastone per l’acqua. Che poi, non ci avevo mai creduto a quei bastoni.

Allungai una gamba per stiracchiarla e urtai la sua. La ritrassi immediatamente e udii lui fare lo stesso.

«Scusa.»

Cadde il silenzio, ma mi sentivo confortato.

Io e Alan eravamo alla pari di due sconosciuti, ma mi piaceva quel modo canzonatorio con cui mi prendeva in giro. Aveva un che di affettuoso e mi domandai da quando le cose fossero diventate così. Forse scoprire di Oliver aveva creato tra noi un legame speciale, un filo rosso che aveva il potere di tenerci legati, pur non condividendo niente.

Ma cosa sarebbe successo se quel filo si fosse spezzato? Se avesse superato Oliver, cos’è che avrebbe potuto tenerci legati?

«In casa non posso fumare, vero?»

«Non te la prendere, ma non voglio che si attacchi ai mobili o al divano.»

Fu una risposta gentile, diversa da quel suo ‘Scordatelo’ della sera prima. Sembrava quasi che avessimo smesso di giocare al gatto e al topo e ci stessimo comportando come due persone normali.

«Posso andare in terrazza?»

Lui si voltò indietro, come per prendere le misure di fronte a quella richiesta.

«Penso che non ci siano problemi.»

Mi alzai e sfilai pacchetto e accendino dalla tasca posteriore dei pantaloni. Ruotai la maniglia cigolante della finestra e la brezza notturna mi accarezzò il viso. Si sentiva solo il frinire delle cicale e, in lontananza, uno stormo di luci mi riempiva gli occhi; ma tutto intorno a noi, nel giardinetto sottostante e nelle strade laterali, non volava una mosca. Alzando gli occhi, si riusciva pure a vedere qualche stella. Riabbassai lo sguardo e infilai la testa verso l’interno.

«Non mi fai compagnia?»

Alan si voltò e fece di sì col capo, ma sembrava spento. Forse la sbronza della sera prima gli aveva dato il colpo di grazia.

Gli feci spazio accanto a me e mi accesi la sigaretta. Sfortunatamente, il vento soffiò proprio in quel momento e il fumo gli finì tutto in faccia. Lui si limitò alla smorfia che si fa quando una mosca ti vola vicino al viso, ma non disse altro.

«Scusa. Non l’ho fatto apposta.»

«Ormai mi ci sto abituando.»

Quel pensiero mi fece sorridere. Qualcuno si stava abituando a qualcosa di mio. Nessuna delle mie avventure-durate-meno-di-un-anno mi aveva mai detto una cosa simile; ne fui quasi lusingato.

«Ah, scusa per ieri sera. Se sono stato un po’ di tempo con Harvey, intendo.»

«Fa niente. Eravamo lì per un altro motivo.»

Lo vidi massaggiarsi ancora la fronte, poi strusciò il palmo sugli occhi. Doveva essere proprio a pezzi. Ascoltai ancora il canto incessante delle cicale, poi feci un tiro. Mi sentii risvegliare tutto insieme.

«È un tuo ex?»

Andava sempre dritto al punto, con le sue domande. Non c’era mai incertezza in quello che diceva, merito forse della sua professione. Barcollare con le richieste non gli era permesso.

«Harvey? Sì. Siamo stati insieme quando avevo diciassette anni. Poi dopo un anno mi ha mollato.»

Mi aveva mollato perché ero un immaturo o forse perché voleva sbarazzarsi di me. L’Harvey che avevo visto la sera prima, però, era diverso: aveva più l’aspetto di un uomo, e la mente, perché parlava del suo lavoro come uomo d’affari, dell’appartamento che voleva comprarsi, dei suoi risparmi. E poi aveva anche allungato un po’ le mani, ma non mi era dispiaciuto del tutto. Sapevo che tipo era Harvey e sapevo cosa voleva, tra le tante cose. Non escludevo che tra i suoi desideri ci fosse anche una storia con me. Di fatto, eravamo due individui completamente diversi rispetto a quelli che avevamo lasciato. E tra le parole di Harvey, tra i suoi sguardi e i suoi sorrisi affettuosi, avevo capito che stavolta non era solo sesso.

«Ci sei molto affezionato, però.»

Mi tornò in mente Alan e il mio, a suo dire, fare le fusa ad Harvey. Era ciò che mi aveva lasciato più di stucco, anche più del modo in cui era venuto a riprendermi. Perché, anche se era improbabile, mi era sembrato quasi stizzito.

«Harvey è stato il mio primo ragazzo serio. Il mio primo amore, insomma. E il primo per molte altre cose.»

Feci un altro tiro e buttai fuori qualche ricordo spiacevole. Alcune ‘prime’ cose con Harvey non erano state questo granché, nemmeno col passare del tempo. Non le avevo rimpiante, nel momento in cui le avevo perse.

Alan annuì appena. Fissava il vuoto e ogni tanto si massaggiava la fronte.

«Il tuo primo è stato Oliver?»

Rimasi in attesa, con la certezza di aver fatto una cavolata, di aver oltrepassato il limite dell’intimità tra due semplici conoscenti, nonostante il buio, la luce soffusa e tutto il resto.

Invece mi sorprese.

«Sì», rispose quasi con un soffio.

Il primo e l’unico, pensai. Ma era comunque un’immagine molto tenera. Adesso fissava il pavimento di terracotta e fui abbastanza sicuro di avergli visto un mezzo sorriso, ma non era facile dirlo con quella penombra. Meglio così, forse: il buio aveva custodito l’intimità del suo ricordo.

«E hai mai pensato, ultimamente… Scusa, te l’avranno chiesto tutti.»

Sorrise e mi guardò per un attimo, mentre io ero impegnato a nascondermi dietro una sigaretta che non riuscivo a fumare.

«Sì, me l’hanno chiesto tutti, e sì, ci ho pensato. Ma non è così semplice, Nathan, e non solo per Oliver.»

Si fermò un attimo. Cercava le parole, o forse reprimeva solo un’emozione di troppo.

«Oliver mi manca. Volevo sposarlo, forse lo avevi capito.» Feci un piccolo cenno col capo. «Io non riesco a pensare all’idea di avere un’altra persona accanto, di condividere con qualcun altro emozioni che volevo che fossero nostre e di nessun altro. Però so che succederà. Prima o poi, qualcuno entrerà silenziosamente dentro di me e prenderà il suo posto, e a me andrà bene così. Forse non sentirò parlare del veleno di vipera o chissà quale altra malattia e mi emozionerò lo stesso. Succederà, quando sarà il tempo.»

Fece un’altra pausa. «Ci sono una serie di cose con cui non so come relazionarmi, e il problema è questo, Nathan. Ogni tanto mi chiama la madre di Oliver e vuole che io condivida il suo dolore. Adesso mi viene spontaneo, ma sarà lo stesso quando avrò un’altra persona accanto? Forse sarò felice, e io come dovrò comportarmi con lei? Dovrò dirle che qualcuno ha preso il posto di suo figlio? Non ci riesco. E con mia madre è lo stesso: mi chiama o mi manda messaggi per chiedermi come sto, ma vuole sapere se ho incontrato qualcuno, perché vuole il meglio per me. Ma sai una cosa? Quando troverò qualcun altro, perché so che accadrà, non sarà normale per nessuno. Ci saranno solo una sfilza di domande, un sacco di raccomandazioni perché penseranno che sarà un tappabuchi per Oliver. Una faccenda normale come una relazione diventerà un affare di Stato e a me non va. Non mi sento pronto ad avere i riflettori addosso per un evento così normale. Quando ho detto ai miei che ero gay, mi sono sentito nello stesso modo: non potevo portare a casa un ragazzo e dire semplicemente che era il mio compagno? No, dovevo stamparmi in fronte che mi piacevano i ragazzi e trasformare in qualcosa di eccezionale quello che per me era un evento normalissimo

Mi si seccò la gola. Perché le uniche risposte che mi venivano in mente avevano al massimo cinque parole. O forse perché quello che volevo realmente dirgli era di mandare a quel paese chiunque avesse fatto commenti di quel genere, ma non potevo dargli davvero una risposta come quella. Almeno, non in quella forma. Avrei potuto provare a dire qualche frase di circostanza, ma sarebbe stato stupido. Mi sentivo come quelli che, di fronte a un papiro di messaggio, rispondono solo con ‘Ok’. Che imbarazzo.

«Scusa, ho parlato troppo.»

Non potevo davvero farci quella figura misera. Era un atteggiamento che avevo sempre detestato e non potevo cascarci a mia volta.

«Io credo che…», mi leccai le labbra, «che non dovresti dargli tutto questo peso. Cioè, capisco che sia tua madre e non puoi…», meditai un attimo per trovare le parole, «…essere sgarbato con lei, ma secondo me è anche un po’ colpa tua. Nel senso, se un giorno ti telefona, tu dille che devi andare perché esci con Tizio. Non dire chi è o chi rappresenta per te, sarà abbastanza ovvio; non dovrai stamparti niente sulla fronte, sarà naturale. Se poi ti seccano quelle persone che fanno domande anche sull’ovvio, be’, puoi solo sperare di sbarazzartene il prima possibile.»

Alan sorrise, poi ci pensò un attimo.

«Temo che mia madre sia una di quelle persone di cui non potrò sbarazzarmi. Farà un sacco di domande. Invece alla madre di Oliver cosa diresti?»

«Credo che sua madre sia un po’ nella tua stessa situazione, in un certo senso. Però il tempo passa per tutti e anche lei, prima o poi, riuscirà a superare questo momento. Magari a ogni telefonata sarà sempre un po’ meno affranta e forse riuscirete anche a parlare di cosa comprare al supermercato.»

Ridemmo entrambi. Sul suo volto rimase un sorriso dolceamaro, meno vacuo di prima.

«Fosse tutto così semplice. Io mi sento in colpa, Nathan, verso troppe persone e di certo mia madre non aiuta. Sai, mi è arrivato un suo messaggio, stanotte, ed è per questo che mi sono svegliato. In quell’istante ho pensato che ci sono dei momenti in cui vorrei sparire. Andare in una terra lontana, dove non conosco nessuno, dove non ho responsabilità verso nessuno. Evadere da questa realtà.»

Feci ancora un tiro e osservai il fumo volare via, lontano da tutto e da tutti, pronto a disperdersi nell’infinito dell’universo. Invece di riportarla alla bocca, gliela porsi, con fare giocoso.

«Ancora ci provi?»

«È la mia Innocente Evasione. E, in via del tutto speciale per te, è pure gratis. Non era questo che volevi?»

Alan rise e scacciò via la mia mano, ma poi tornò a guardarmi, come se avesse avuto un ripensamento – alquanto improbabile.

«Tieniti pure quella roba puzzolente.»

«Come sei noioso. Un tiro non ha mai ucciso nessuno.»

Accostai il mio corpo al suo, il mio petto alla sua spalla, mentre lui seguiva con lo sguardo ogni mio movimento, senza opporsi.

Alan non mi staccava gli occhi di dosso. Più la distanza tra la sigaretta e la sua bocca si riduceva, più pensavo che mi avrebbe scacciato, dicendomi che ero un cretino e che dovevo smetterla.

Ma lui continuava a puntare i suoi occhi nei miei, mentre non opponeva alcuna resistenza e lasciava che quasi appoggiassi il filtro sulle sue labbra.

Per un attimo pensai che sarebbe successo. Che ad accorciare le distanze non sarebbero stati lui e la sigaretta, ma io e lui. Per un momento indugiai ancora, proprio come si tentenna nel dare un bacio dall’esito incerto, ma non aveva senso, non dopo quello che mi aveva detto. Eppure la vicinanza tra noi era così palpabile che sentivo il soffio del suo respiro sul mio collo, il fumo controvento che oscurava la visione del suo volto, che ancora aveva gli occhi piantati su di me.

Sarebbe stato stupido. Lui lo capì prima di me, se mai aveva avuto i miei stessi pensieri. Sarebbe stata solo una cavolata colossale.

Mano a mano che la distanza si accorciava, lui alternava lo sguardo tra me e la sigaretta; ma proprio nel momento in cui ero quasi certo che l’avrebbe accolta tra le sue labbra, lui spintonò via la mia mano e ridacchiò.

«Scherzetto.»

Mi osservò per studiare la mia reazione, ma io ero imbambolato: per un attimo mi ero illuso che l’avrebbe fatto, che avremmo potuto condividere qualcosa, un piccolo segreto, uno sgarro; invece mi aveva solo preso in giro. Gli tirai una manata sul braccio e lui trattenne una smorfia di dolore.

«Te lo meriti.»

Ridacchiò, ma rincarai la dose: aspirai il più possibile e gli buttai tutto il fumo in faccia, gesto che non si aspettava. Si portò le mani al viso e poi le sventolò.

«Ma non senti la puzza?»

«Sento solo odore di stronzetto.»

Si lasciò andare a una risatina fin troppo forte per quell’ora, ma, non appena tacque, tornammo a essere avvolti dal canto incessante delle cicale.

Non riuscivo a pensare che un attimo prima mi era balenata, rapida, l’idea di entrare in intimità con lui.

Aprii le labbra a cerchio e lasciai che piccoli anelli di fumo abbandonassero le mie labbra, trascinati via da quella leggera brezza che li fece confondere con tutto il resto.

«Chi è stato a farti cominciare?»

«Harvey.»

Un suo gemito non troppo stupito mi impedì di terminare la frase.

«Ah, Harvey. Tua croce e delizia.»

In quel momento pensai che avrei potuto dirgli la stessa cosa. Detestava Harvey, forse era infastidito perfino dal nome stesso, ma non capivo perché si fosse accanito così tanto contro di lui.

Era cominciato tutto con Harvey: all’inizio volevo essere un suo riflesso, seguire le sue orme, rendermi uguale a lui nella speranza che non mi abbandonasse mai. Poi lo aveva fatto lo stesso, io avevo preso la mia strada e lui pure, ma era stato lui ad insegnarmi come reggermi sulle mie gambe.

E poi c’era stato mio padre

Forse non era stata una grande idea quella di voler somigliare ad Harvey.

«Non ti piace, vero?»

Mio padre mi aveva lasciato cinque dita sul viso e la promessa che sarei stato un fallito, insieme a un borsone con tutte le mie cose.

Dove avevo dormito, dove avevo vagato… non lo ricordavo neanche più.

«Tu, come tutti, hai bisogno di qualcuno che ti ami. Non di qualcuno che ti illuda di essere importante per lui ficcandoti una sigaretta in bocca. È una cosa meschina.»

«È stato tanti anni fa. Ormai è acqua passata.»

Si voltò verso di me, poi posò lo sguardo verso l’orizzonte, verso le prime luci dell’alba che facevano capolino dietro i grattacieli. La città si stava preparando al suo risveglio, con quel gioco di luci e ombre, di veglia e sonno.

«Ci sono anche altri modi per legarsi alle persone, Nathan.»

Non ero sicuro di aver capito il significato di quella frase. Sapevo come legarmi a qualcuno, non ero mica un tredicenne. Eppure mi resi conto che dietro quelle parole c’era una verità che non riuscivo a cogliere, ma non volevo spiegazioni.

Parlare di legami mi fece tornare alla mente Ryan e il suo atteggiamento così distante e freddo nei miei confronti. Avevamo deciso insieme di partecipare a quel corso estivo sulle materie plastiche, prima che lui partisse per le vacanze; ma, quando era tornato, avevo trovato una persona completamente diversa. Aveva iniziato a essere sfuggente, a ignorarmi e a sbuffare ogni tre per due in mia compagnia.

«A cosa pensi?»

Inutile dire quanto mi avesse ferito. Cos’era successo durante quella vacanza? E quanto c’entrava con quello che gli avevo visto fare su quel muretto, che no, non era piangere?

«Sto pensando…», e la mia mente tornò ancora a quelle sniffate sul muretto, a Ryan che si strusciava il naso, «… a un amico.»

«Un amico importante?»

I fari di una macchina di passaggio illuminarono fugacemente il villino di fronte a noi, per poi lasciarci di nuovo immersi nell’oscurità. Ormai il rumore del motore era lontano.

Non avevo voglia di rivelare ad Alan di chi stessi parlando, forse proprio perché lo aveva conosciuto e, con ogni probabilità, si era accorto anche da solo che Ryan aveva qualcosa di strano.

«Mi aiutava spesso a studiare. Da un po’ di tempo, però, è cambiato tutto. Tutta colpa di quelle maledette vacanze.»

Sentii la rabbia montarmi in petto, ma fu subito smontata da un moto di tristezza, forse perché avevo la consapevolezza che niente sarebbe più tornato come prima. Ryan aveva ormai una presenza costante nella sua vita di cui non si sarebbe sbarazzato facilmente, e che lo stava divorando a piccoli morsi, rendendolo sempre più dissimile dal ragazzo che avevo conosciuto.

«Mi dispiace, davvero.»

Il suo tono era di sincera apprensione, ma non riuscivo a guardarlo in faccia. La sua presenza mi confortava, ma, al contempo, avrei preferito indugiare su quei pensieri in solitudine.

«Vorrei tanto sapere chi è stato a fargli tutto questo. Non lo scoprirò mai, immagino.»

«Anche se tu lo scoprissi, non penso che potresti farci molto.»

Quella dichiarazione fu una freccia in pieno petto. Non solo perché ebbi l’impressione che avesse capito fin troppo bene ciò che si celava dietro le mie parole, ma anche perché sbriciolò la mia speranza che la polizia potesse in qualche modo aiutare Ryan.

Sprofondai nei miei pensieri più profondi, alla ricerca di un modo per affrontare Ryan e aiutarlo. Ripensai a quello che avevo visto, al suo sguardo, ai suoi occhi.

E lì il mio cuore si fermò.

I suoi occhi.

Verdi come i miei, ma più chiari e glaciali, avevo detto.

Quello sguardo, quell’esitazione.

Il cuore cominciò a scoppiare.

Mi tornarono alla mente le parole di Clara, sul fatto che Ryan era così strano, così assente… E poi, la spalla slogata: possibile che fosse accaduto qualcosa durante la rapina?

Accanto a me c’era un poliziotto e io avevo pure rilasciato una dichiarazione. Avrei sempre potuto dire che mi ero sbagliato, ma come potevo sapere a che punto erano le indagini? Ritrattare la mia dichiarazione avrebbe potuto avere degli effetti collaterali troppo imprevedibili e pericolosi.

E poi, c’era anche Alan alla festa. Era buio, sì, ma poteva sempre aver visto il colore dei suoi occhi.

Cazzo, Ryan.

Aveva degli occhi così particolari, troppo particolari perché non fossero i suoi.

Mi ritrovai nel panico, così provai a pensare.

Capii subito che io non c’entravo niente. Avevo solo avuto la sfortuna di imbattermi in lui, quel pomeriggio, ma niente di più. Io lo avevo urtato e ci eravamo guardati negli occhi.

Niente di più, niente di meno.

Però…

«Che aiuto ti serve con lo studio?»

Dopo una manciata di minuti tornai a guardarlo. Fissava l’orizzonte buio davanti a sé, lanciandomi occhiate trasversali, mentre io lo fissavo. Forse aveva pensato che il mio silenzio derivasse dalla mia preoccupazione per lo studio. Mangiai la foglia.

«Ho bisogno di qualcuno che mi faccia entrare in testa le materie plastiche.»

Lui emise un gemito pensieroso.

«È importante questa materia?»

Risposi, non senza un po’ di imbarazzo.

«Mi serve per la borsa di studio. Se ottengo un buon punteggio, ho più possibilità di farmela assegnare.»

Alan mugolò ancora. Mi domandai che cosa gli stesse passando per la testa in quel momento.

«La tua famiglia non ha messo da parte i soldi per il college?»

«No, sono per mio fratello.»

La verità era che sì, li avevano messi da parte per me, come tutte le famiglie. Poi, un bel giorno, mio padre aveva deciso che non ero degno di farmi finanziare gli studi con quei risparmi e che sarebbero stati riservati a Jimmy.

«Giusto, hai un fratellino.»

«E quando te lo avrei detto?»

Lui ridacchiò.

«Non lo hai fatto. Ma, in quanto testimone, abbiamo raccolto qualche informazione su di te.»

Quella frase mi inquietò non poco. Esattamente, quante e quali informazioni erano in loro possesso? Non avevo chissà quale segreto, ma mi sentii nudo. Alan si sentì in dovere di rassicurarmi.

«Si tratta solo di generalità. Famiglia, lavoro, studi… Queste cose qui.»

Tirai un sospiro di sollievo e ridacchiammo entrambi.

A quanto pareva, ero solo un semplice testimone. Alan non mi avrebbe mai rivelato tanto di più, ma ero certo che non fosse propenso a mentire.

Il mio sorriso si spense per primo. La mia famiglia era un disastro, il lavoro era pessimo e gli studi non potevano andare peggio di così. Ci sarebbe mai stata almeno una cosa positiva nella mia vita?

«Tutto bene?»

Avrei mai fatto pace con mio padre? Sarei mai riuscito a trovare un lavoro degno di questo nome? E lo studio… Avevo davvero la possibilità di laurearmi?

Quante cose mi apparivano incerte, in quel momento.

«Ti vorrei fare una domanda.»

«Dimmi.»

Mi voltai a guardarlo e lui mi fissò di rimando.

«Secondo te, arriva sempre la calma dopo la tempesta?»

Il suo sguardo si piantò su di me, stupito. Poi spostò gli occhi verso la strada e il villino di fronte a noi, dopodiché tornò a guardarmi con un sorriso.

«Sì. Secondo me arriva sempre», rispose, con uno sguardo carezzevole che sembrò sfiorarmi il viso. «A volte, quando meno te lo aspetti. Però arriva.»

Il suo sorriso scomparve e si guardò un attimo i piedi.

Mi sentii coccolato da una rinnovata speranza: se lo diceva lui, doveva sicuramente essere vero.

 

Guardammo insieme l’alba e lasciammo che i primi raggi del sole accarezzassero i nostri volti, mentre la brezza diventava più calda e l’aria afosa a poco a poco.

Non appena il Sole si mostrò in tutta la sua interezza, rientrammo in casa.

Avevo ancora il mozzicone spento tra le dita.

 

Non appena varcai la soglia, sentivo che quel momento volava via sempre più lontano, e quando chiusi la finestra ne ebbi la conferma. La cucina non nascondeva più alcun segreto e la nostra chiacchierata aveva l’eco di un sogno ormai svanito.

Capii che era il tempo di fare una doccia. Chiesi ad Alan una maglietta di ricambio, con la promessa di riportargliela lavata e stirata il prima possibile – compito ingrato che avrei mollato a una lavanderia, ma non era necessario che lo sapesse.

Osservai la sua sagoma sparire dentro la camera e non riuscivo a credere che fosse la stessa persona che, la sera prima, si era aggrappata a me continuando a ripetere “Voglio morire”. Non avevo mai visto nessuno piangere così tante lacrime, con così tanta disperazione. Sembrava inconsolabile, mentre biascicava il nome di Oliver, intervallato dal naso che tirava su e dalle lacrime che scorrevano fino al mento, per poi confondersi coi chicchi di asfalto.

Solo dopo molte mie rassicurazioni aveva accennato a fermarsi. Non voleva nemmeno che lo riportassi a casa.

Alan razzolò un poco all’interno dell’armadio, poi estrasse una maglina bianca, semplice. Si rizzò sulle gambe e me la mostrò per sapere se mi andava bene. Io annuii: mi serviva giusto per andare a casa.

Non ebbi il coraggio di entrare in quella che era stata camera sua e di Oliver: mi sembrava di violare un intimo ricordo, quindi aspettai che me la portasse lui.

Mi infilai in doccia poco dopo e lavai quanto possibile. Avrei sopperito allo spazzolino con una mentina; quanto al resto, avrei rimediato una volta a casa.

Quando fu il momento di infilarmi la maglietta, sentii lo stomaco tirare. La presi tra le mani e la osservai: il colletto era bianco latte e non sfilacciato, segno che sì, era una maglietta da casa, ma tenuta con una certa cura – non come le mie che erano vere e proprie magliette da battaglia. Tutte le cuciture erano al loro posto e la stampa davanti era solo appena screpolata.

Nel momento in cui la indossai, una scia di profumatore d’armadio alla lavanda si posò su di me e lasciai che mi entrasse nelle narici, come se una parte di lui si fosse fusa con me.

A ogni respiro, la lavanda smetteva di essere un profumo e diventava un odore; mi penetrò dentro finché non ne fui assuefatto, finché non diventò l’aria che respiravo.

Quando mi guardai allo specchio, mi sentivo leggermente diverso rispetto a prima: in quel momento, dentro di me, c’era anche una parte di Alan.

 

Nell’istante in cui uscii dal bagno, mi resi conto che quasi mi imbarazzava farmi vedere con la sua maglietta addosso. Forse era una parte di lui che fino a quel momento era stata solo dentro Oliver, e il peso di quell’intimità era considerevole. Mi sentivo come un guardone che sbircia due amanti dal buco della serratura.

Mi fiondai in soggiorno e recuperai il telefono, nella speranza di passare inosservato, e ci riuscii il tempo necessario per sbirciare il messaggio che mi era arrivato.

Avevo visto quel numero solo un’altra volta, ma avevo già capito di chi era.

 

Ciao, impegni per mercoledì?

Se vuoi porto due pizze e

le mangiamo insieme.

Fammi sapere

xxx Harvey

 

Rimasi a bocca aperta. Harvey aveva flirtato con me tutta la sera e mi aveva fatto capire che non vedeva l’ora di stare un po’ da soli. Continuavo a trovare incredibile che dopo tre anni di silenzio sembrava quasi che non ci fossimo mai allontanati, ma - non sapevo come - avevamo ritrovato la stessa intesa di un tempo e anche lo stesso desiderio di intimità.

Avevo la sensazione che le cose stessero andando un pochino al loro posto. Perché lo sapevo, lo sapevo che da qualche parte, in qualche modo, non era solo lui che aveva continuato a vivere dentro di me, ma anche io dentro di lui. E stava scegliendo me, di nuovo, in mezzo a una miriade di altri ragazzi che avrebbe potuto avere, proprio come mi aveva scelto tre anni prima.

Quanto tempo mancava a mercoledì?

 

«Tutto bene?»

Mi voltai all’improvviso e mi accorsi che, in realtà, quel messaggio mi aveva suscitato un entusiasmo che non riuscivo a contenere.

«Tutto benissimo. Ah, grazie per la maglietta. Te la riporto appena posso.»

«Fai pure con calma, non ho fretta.»

Tornai a guardare quel messaggio e sentii il cuore battermi a mille. Ripensai a quegli anni spesi a cercare avventure nella speranza che si trasformassero in qualcosa di più, ma non era mai successo e solo in quel momento capivo perché. Semplicemente la vita si stava divertendo a percorrere lunghi giri prima di farmi trovare la storia d’amore che meritavo; e Harvey era sempre stato lì, sotto ai miei occhi, ma serviva il momento giusto prima che potessi goderne davvero. E quel momento era arrivato.

«È successo qualcosa di bello?»

Alan era in piedi a braccia conserte, in attesa di una risposta. Mi avvicinai a lui e gli sventolai il telefono davanti agli occhi.

«Mi ha scritto Harvey. È la volta buona, me lo sento.»

«Per…?»

«Vuole una storia con me. Me l’ha fatto capire piuttosto bene ieri sera e questo messaggio mi sembra la conferma che cercavo

Le labbra tirate di Alan non divennero mai un sorriso.

«Auguri, allora. Fammi sapere quando vi sposate.»

Lo spintonai con fare scherzoso, ma lui indietreggiò solo di un paio di passi.

«Spiritoso. E sappi che ti terrò informato, come desideri», gli risposi con una linguaccia, poi lo superai per raccogliere le mie cose.

Lui non disse niente, ma non ebbi nemmeno il tempo di accorgermene.

 

Uscimmo poco dopo. Mi disse che aveva da fare delle commissioni e decisi di fare un pezzo di strada insieme a lui. Era una bella domenica mattina di un agosto non troppo torrido e la brezza notturna che aveva allietato quel sogno si ripresentò in veste diurna, più calda.

Ne approfittammo per cercare la macchina, che per fortuna era veramente nei paraggi come avevo detto. Era bastato fare un giro di ricognizione delle vie intorno a casa sua, considerando anche la distanza a piedi che avevo percorso, per trovarla in meno di cinque minuti, davanti al chiosco di un’edicola.

La cappa non aveva ancora circondato Manhattan, ma ci spostammo comunque sul marciapiede all’ombra, dato che la maglietta di Alan stava già creando l’effetto serra sul mio corpo, a causa anche dell’agitazione che avevo provato per la paura di aver perso la sua auto chissà dove.

«Grazie, Alan. Per essere venuto alla festa e per la maglietta.»

«Figurati, puoi tenerla se vuoi. Non serve che me la riporti.»

Per strada non c’era praticamente nessuno. I tendoni dei negozi cominciavano ad alzarsi, ma le persone erano ancora rifugiate nelle loro case, a gustare la colazione. Alan era voluto uscire presto per godere della brezza mattutina e io ne avrei approfittato per tornare a casa a riordinare un po’, in vista dell’appuntamento.

Una macchina solitaria ci sfrecciò accanto, facendo un casino incredibile e beccandosi le infamate del giornalaio di fronte a noi. Chissà che stress vivere la strada in ogni momento della giornata… Almeno il chiosco gli faceva ombra.

Anche Alan guardava il chiosco. Per la verità, il suo sguardo era stato rapito da un giornaletto scandalistico - Rumors - che aveva in copertina una foto formato gigante con scritto: “Il leader dei Wit Matrix frequenta qualcuno?”. Quel nome mi era familiare e non mi ci volle molto a ricordare che era la cover band che dovevamo andare a sentire al nostro primo incontro.

Nella foto non si vedeva quasi niente (e mi domandai come diavolo potessero costruire un gossip su un’immagine così insignificante): il tizio della band era di spalle e dell’altro tipo si vedeva giusto una mano, tatuata; non era visibile neanche il viso.

Che scoop, davvero.

In una frazione di secondo, però, Alan fu subito davanti al giornale. Lo tirò via dalla sua postazione e avvicinò il naso alla foto in copertina.

«Non credevo ti interessasse questa roba.»

Lui scrutava ancora la foto e ogni tanto alzava gli occhi al cielo da destra a sinistra, come per cercare un ricordo.

«Sorpresa.»

Se lo mise sottobraccio, sganciò il dollaro per pagare e tornò a scrutarlo.

Avevo improvvisamente smesso di esistere. Sembrava parecchio preso dalla foto e feci capolino dalla sua spalla per vedere cosa ci fosse di così interessante.

«Cosa c’è di strano in questa foto?»

Mi rispose senza staccare gli occhi dal giornale.

«Segreto professionale.»

«Non mi sembra molto professionale far capire a un non addetto ai lavori che in questa foto c’è un dettaglio utile a un’indagine.»

Finalmente mollò quel giornale e mi guardò con uno sbuffo. Forse avevo disturbato la neonata coppia Alan-giornale. Feci spallucce.

«Vabbè, ti lascio alle tue indagini. Grazie di tutto, ci sentiamo presto.»

Lui sorrise appena. All’improvviso sembrò risvegliarsi dalla trance in cui era sprofondato da quando aveva visto quella foto.

«Ciao, Nathan. Tanti auguri per tutto.»

Sventolai la mano e lo salutai camminando all’indietro. Pensavo che sarebbe salito in auto, invece se ne restò lì impalato a salutarmi a sua volta.

Io mi voltai verso la mia strada e, dopo qualche centinaio di metri, mi lasciai inghiottire dalle scale della metro, ascoltando il ticchettio sopra la mia testa che mi separava sempre meno da Harvey.

Forse anche io avrei cominciato a trovare la mia felicità, alla faccia di chi diceva che ero un fallito.

 

 

Angolo autrice

               Salve a tutti!

            A quanto pare Nathan sta facendo qualche scoperta interessante. Come deciderà di gestire la cosa con la polizia?

            E intanto con Alan le cose proseguono ^__^ Trovo che anche qui, come nel capitolo 6, ci sia un bel momento intimo tra loro, reso più magico sicuramente dal buio della notte. Si incontreranno ancora? Oppure sarà il turno di Harvey di prendersi la scena? Scoprirete tutto nei prossimi capitoli :P

            Al solito ringrazio tantissimo chi legge, ho tenuto questa storia nel cassetto per così tanto tempo che mi emoziona sempre un po’ condividerla con voi. E come sempre vi faccio i complimenti per la tenacia con cui vi sciroppate questi capitoli lunghissimi <3

 

            A presto,

            holls

 

   
 
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