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Autore: settembre17    17/11/2021    14 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Una scatola color carta da zucchero

Questi personaggi non mi appartengono e sono di Ryoko Ikeda.

“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)

Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.

Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura. Buona lettura e sempre grazie!
 
CAP 1. La mattina dopo. Oscar.
 
- Una bellissima parata. Siete stati splendidi.
Si tolse i guanti tenendo gli occhi socchiusi.
Non voleva guardare di nuovo le sue mani.
 
La parata, comunque, era stata davvero splendida, Girodelle si era superato: da quando era arrivata nel suo ufficio per l’ultima mattina in servizio, era stata investita da una generale atmosfera carica di emozione, aveva ammirato la perfezione dei gesti dei soldati, aveva ascoltato commossa i discorsi ufficiali nei quali, al di sotto delle parole di rito, sentiva fremere vera riconoscenza, aveva compreso che nella cura esasperata per ogni dettaglio della cerimonia si manifestava un addio commosso. Doveva ammetterlo, nell’organizzare cerimonie di classe Girodelle non aveva rivali: il suo sguardo severo aveva passato in rassegna tutto, dal cortile perfettamente spazzato e quasi luccicante ai bottoni lucidati delle divise ai cavalli ben strigliati e tutti con la criniera pettinata e spostata dallo stesso lato, agli ordini che aveva impartito con il suo timbro di voce, nasale ma profondo e secco, e infine al rinfresco, poco sfarzoso ma ricercato, specialmente nella scelta dei vini.
E lei era davvero grata per quel festeggiamento, se ne era lasciata assorbire completamente: quella mattina si era svegliata molto presto, o forse non aveva mai dormito?, si era vestita ancora al buio, poi era uscita senza vedere nessuno e, arrivata molto presto alla reggia, aveva dedicato le prime luci del giorno a percorrere per l’ultima volta i viali dell’immenso giardino imponendosi di evitare qualunque tipo di commozione.
 
E ci era riuscita. Da quando nella sua stanza aveva indossato la solita divisa rossa, si era riappropriata di sé stessa: le lacrime, il dolore, tutto svanito. I gesti, le parole della sera prima: riguardavano un’altra lei.
Poi, mentre cavalcava piano lungo il Grand Canal, appena aveva avvertito nell’anticamera della sua memoria il pensiero di lui, aveva dato un colpo ai fianchi del cavallo e si era diretta al galoppo verso la caserma.
 
E lì era stata inghiottita dalle attenzioni di tutti con un sollievo mai provato negli ultimi mesi; aveva vissuto quella mattinata di saluti con una ostinata concentrazione, con la determinazione di chi vuol essere solo “qui e ora”, di chi non vuole ricordare di avere un passato, né remoto né, men che meno, recente. E ancora il sollievo, il sollievo nell’osservare quelli che la circondavano: tutti soldati, tutti ufficiali.
Nessun attendente.
E lei si godeva quella fresca e soleggiata mattinata di fine febbraio con la presunzione che non fosse poi così difficile accantonare quello che era successo solo una manciata di ore prima.
Dunque si era lasciata trascinare dall’entusiasmo di tutti mostrando un trasporto che Girodelle aveva trovato sorprendente: si sentiva lusingato ed emozionato come un ragazzino.
Il momento più toccante era stato quando, durante il rinfresco, lei, che era impegnata in una conversazione con altri ufficiali, gli aveva lanciato uno sguardo attraverso la sala, uno sguardo insistente, avrebbe giurato Girodelle, e poi aveva tirato le labbra in un sorriso di approvazione e di muto ringraziamento. Lui aveva risposto da lontano con un contenuto inchino e con un sorriso deferente, ma dentro… dentro si era sentito divino, un prescelto, un eletto!
Molti anni prima, quando aveva incominciato a nutrire una sorta di attrazione per l’allora capitano Oscar, Girodelle si era inizialmente spaventato e poi onestamente interrogato sulle sue inclinazioni e sulle sue preferenze: perché quella predilezione per una donna che chiunque avrebbe scambiato per un uomo? Perché in effetti, a vederla, aveva ben poco di femminile: l’andatura marziale, il tono della voce severo, l’uniforme sempre perfettamente abbottonata, nessuna curva su cui fantasticare, mani grandi, abituate a reggere le redini e a impugnare armi. Insomma, non è che in fondo in fondo quell’interesse rivelasse come a lui piacessero di più… gli uomini? Ma poi erano venute in suo soccorso avvenenti signorine, dame, ballerine, che l’avevano rassicurato sui suoi gusti. E così era tornato a guardare lei, nella sazietà dei sensi, e si era scoperto innamorato. Da allora non aveva più fatto caso alla stranezza di lei, al suo essere donna che cerca di essere uomo, ma aveva collezionato dettagli, particolari che gli rivelavano la femminilità nascosta di lei: il profilo aristocratico, più vicino alle bellezze di Botticelli che a quelle di Tiziano, la linea del collo, bianco e liscio come la porcellana più fine, che spariva sotto il colletto dell’uniforme, il lobo dell’orecchio, una mandorla perfetta, che fuoriusciva da una massa di capelli, invero poco disciplinati, ma simili a una cascata di oro zecchino, la coscia lunga e tornita da Venere capitolina e, soprattutto, gli occhi, occhi di un blu che gli ricordava lo zaffiro che aveva sempre ammirato al dito di sua madre. Era una creatura straordinaria, una bellezza per pochi, si era detto Girodelle; una creatura per me, aveva concluso.
Quando il rinfresco ormai volgeva alla fine e molti stavano già salutando e andando via, lui con sgomento aveva realizzato l’ovvio, cioè che da quel giorno non l’avrebbe vista più. E così l’aveva guardata, come per fissare ancora una volta quei lineamenti tanto amati, e si era accorto, possibile?, che anche lei era smarrita e che si era passata la mano sulla fronte, come a voler scacciare un brutto pensiero e allora, lì, in quella sala affollata ma che per lui conteneva solo due persone, Girodelle pensò che sì, sicuramente anche lei doveva aver realizzato… che non si sarebbero visti più! Che quello, tra loro, era un addio!
Fu in quel momento, un momento che si impresse nella sua memoria e che amò rivivere a lungo nelle settimane seguenti, che prese la decisione più importante della sua vita: avrebbe chiesto la mano di quella donna fuori dal comune, sì, era lei la moglie con cui voleva trascorrere il resto dei suoi anni!
 
Il povero Girodelle non sbagliava: lei davvero si era sentita improvvisamente smarrita. Ma allo stesso tempo il povero Girodelle si sbagliava di grosso: non era lui l’uomo che stava occupando i pensieri di madamigella Oscar.
Era successo infatti che madamigella Oscar si stesse intrattenendo in una conversazione con il sottotenente de la Fère, giovane promettente di un casato con una gran storia alle spalle, nei pressi della finestra che dava sulla piazza d’armi. Lei, rispondendo a una domanda posta dal giovane al suo fianco, al quale non sembrava vero di avere per sé tutta l’attenzione del colonnello in persona, con pazienza illustrava quale fosse l’ordine di spiegamento delle truppe più adatto in un’area di combattimento di quelle dimensioni, ipotizzando un attacco frontale portato da nemici a cavallo. Il sottotenente, che aveva già la stazza di un uomo fatto ma lo sguardo inebriato di chi conosce la guerra solo dai libri, dotato di un incontenibile impeto giovanile, le poneva domande e a sua volta ipotizzava altri scenari gesticolando con entusiastico vigore:
- Ma se i nostri fossero schierati con una leggera inclinazione nord-sud, - e aveva mimato con la mano l’inclinazione - colonnello, non potrebbero anticipare l’attacco e tentare così di sbaragliare il nemico incuneandosi nelle sue fila?
Allora lei, senza pensare, aveva avvicinato la sua mano alla mano del ragazzo a disegnare nell’aria uno schieramento lievemente obliquo sul lato nord della piazza d’armi:
- Vedete, questa è una decisione che si potrebbe prendere solo all’ultimo momento, considerata la velocità dei cavalli lanciati al galoppo, dal momento che se anche il nemico dovesse presentarsi schierato così…
 
E poi, mentre accompagnava le parole con quel gesto si era bloccata.
 
- Così come, colonnello? Chiese lui che pendeva letteralmente dalle sue labbra e ancora non si capacitava di avere il privilegio di quella sorta di lezione privata.
Ma lei non lo sentiva più.
Nel vedere le mani vicine, la sua e quella del giovane conte de la Fère, si era sentita morire: erano piccole! dannatamente piccole le sue mani! Da quando? Da quando le parevano così piccole?
Che domanda idiota, pensò, sai benissimo da quando.
 
Da quando lui le aveva bloccato i polsi.
Da quando le aveva stretto i polsi.
Da quando lei aveva visto sparire le sue mani nella presa di lui.
 
Mani da donna, maledizione.
Eppure non le erano sembrate piccole le sue mani quando avevano coperto e chiuso con affetto le mani della regina, le mani di Rosalie, le mani di sua madre: si era sentita un ufficiale, un fratello maggiore, un figlio, in quei momenti.
Ma ora.
Si era passata la mano sulla fronte e aveva fissato, per un attimo, il vuoto davanti a sé.
Era riuscita a congedare non troppo bruscamente il giovane conte e poi si era voltata verso Girodelle che la stava fissando dall’altro lato della sala. Gli aveva rivolto un cenno d’intesa: era giunto il momento del saluto.
Si era infilata nervosamente i guanti e si era avviata verso il suo ufficio. Girodelle l’aveva seguita con alcuni soldati scelti come rappresentati delle truppe per il congedo dal colonnello uscente.
E così erano entrati nell’ufficio e lei aveva detto, togliendosi i guanti ad occhi socchiusi:
- Una bellissima parata. Siete stati splendidi.
 
Allora prese la sua spada e, con un movimento deciso e perentorio, la stese di fronte a Girodelle e gli affidò il comando al suo posto.
Poi uscì dalla stanza, con il suo passo elegante, con le spalle dritte, con i capelli che ondeggiavano e coprivano il mistero dei pensieri di quella creatura che fino a quel giorno tutti lì avevano chiamato “Colonnello Oscar François de Jarjayes”.
 
Ora che era fuori da quell’ufficio, sapeva che cosa l’attendeva.
Chi l’attendeva.
Sapeva che lui era fuori ad aspettarla. A reggere le briglie del suo cavallo. L’aveva fatto ogni giorno, per quasi vent’anni: non sarebbe certo mancato l’ultimo. Nemmeno dopo quello che era successo. Lo conosceva bene, lei. Avrebbe potuto scrivere un trattato sull’ostinazione di André Grandier.
Sentì la rabbia crescere, avrebbe voluto avere davanti a sé un vaso di lillà e fracassarlo per terra. E in quel momento, di nuovo, sentì il materasso cedere sotto il loro peso. E poi, di nuovo, si sentì nuda.
Le sembrò all’improvviso di non aver vissuto niente di quella mattina e di essere precipitata un’altra volta lì, in camera sua, al buio, con addosso una camicia strappata e la sensazione, definitiva, irrimediabile, di aver perduto per sempre un amico.
 
Lei e lui, lei e lui, lui e lei, lui e lei. Da sempre insieme, da sempre vicini. E ora troppo, troppo!, vicini; così vicini che lo sentiva lontanissimo.
No, non era ancora pronta ad affrontare la sua vista, aveva bisogno di solitudine: solo qualche minuto di solitudine.
 
Si avviò verso un vestibolo nascosto sulla destra del lungo corridoio dove aveva intravisto una poltrona e un tavolino seminascosti nella penombra ai piedi di una scala che portava al piano superiore. Si sedette con la schiena ben dritta e le gambe accostate. Poi appoggiò le sue mani sulle ginocchia e iniziò ad osservarle. Ripensò alle sue mani vicine a quelle del giovane conte de la Fère e ancora si sentì in preda a un disagio mai provato. Eppure erano sempre le sue mani, quelle che avevano definito “mani da pianista”, sua madre, “mani da ladra”, un complimento del cavaliere nero quando era stato suo forzato ospite, “mani da spadaccino” e “mani da generale”, suo padre, mani che lei aveva sempre usato e mai osservato. Erano anche capaci di far male quelle mani… come la definiva, lui, quando erano piccoli? Manesca. E anche la sera prima ne aveva dato prova, a dire il vero: la sua mano era stata capace di uno schiaffo poderoso sulla guancia di quello sputasentenze.
Ah, con che rabbia l’aveva colpito! Era stata tutta istinto in quel momento: pura violenza, forza in movimento.
Ma lui… ma lui.
Lui era stato forza immobile, rovere ben piantato a terra. Solo uno spostamento di lato del volto, ma i piedi fermi a terra.
 
E poi quel silenzio.
E poi le sue mani che le chiudevano i polsi.
Che stringevano i polsi.
E le sue mani che sparivano nella morsa delle mani di lui.
La dimostrazione della sua forza.
La dimostrazione della sua debolezza.
E mentre di nuovo il rancore saliva dalle viscere, scattò in piedi, pronta a uscire, gli occhi fiammeggianti.
 
E poi.
E poi all’improvviso dovette ripararsi gli occhi con una mano perché un raggio di luce che proveniva dalle ampie finestre del corridoio vicino aveva colpito la specchiera davanti a lei e per un istante l’aveva accecata. Serrò le palpebre per tornare a vedere distintamente intorno a sé e quando aprì gli occhi si vide sorridere nello specchio.
Era bastato quel raggio per tornare indietro di più di vent’anni.
Inverno.
Il salotto dei ragazzi.
Sua sorella: un’adolescente alle prese con la vanità.
Lei: una bambina che gioca a fare il maschio di casa.
Lui: un bambino concentrato sulla sua mossa alla scacchiera.
Sua sorella, facendo smorfie con la bocca di fronte a uno specchietto: “Lo metto a destra o a sinistra questo neo di velluto?”
Lei e lui non rispondono.
“Ehi, ho detto a voi due! A destra o a sinistra della bocca?”
“… Sinistra…”, “… Destra….”
“Non mi avete neanche guardata, siete insopportabili! Lo dico a Nanny!”
“No, ti prego, ora ti guardo”, dice lui. “Per me sta meglio a destra”.
“Grazie, André, se aspetto Oscar…”
“Hai mai badato al tempo che passi davanti allo specchio? Intanto che tu ti guardi, la gente vive, cara sorella! E fa cose decisamente più interessanti che mettersi nei finti sulla faccia!”
“Sei solo invidiosa perché maman mi ha regalato questo bellissimo specchio grande come il mio viso e con il manico di madreperla!”. Stringe le dita sul manico, non sopporta più quella specie di sorella.
“Ah ah, certo, certo.” Poi, guardandola di traverso, gli occhi ridotti a una fessura di gelido blu, non si trattiene e aggiunge: “A me maman ha regalato il tricorno più bello di Parigi, era nella scatola tonda color carta da zucchero che ho trovato nel salone ieri sera! Sai che cosa me ne faccio di uno stupido specchio! Io non passo il tempo a scrutarmi la faccia!”
“…………… altre cose…..” borbotta lui.
“Che hai detto?” lo chiedono entrambe e lo guardano attente.
“Ho detto che uno specchio fa anche altre cose”.
“Ah sì? Sentiamo, per esempio?”
Lui le guarda e poi gentilmente prende lo specchio, lo rigira tra le mani e poi si infervora:
“Si può catturare il sole!”
“Oh, sì, catturami il sole, André!” dice una con le mani giunte vicino alla guancia e lo sguardo sognante.
L’altra alza gli occhi al cielo con aria di sopportazione:
“Dai, usciamo sul terrazzo e andiamo a caccia del sole! Muoviti, André” e poi esce dalla porta finestra con lo specchio in mano e si mette ad armeggiare inclinando lo specchio verso il sole.
È talmente concentrata che quasi non si accorge che lui le ha appoggiato sulle spalle la giacca di velluto perché non prenda freddo.
“Proviamo insieme?” lui domanda gentile.
“Sì, tu reggi lo specchio da quel lato, io lo tengo qui”.
Uno specchio, quattro mani. Vicine. Simili.
“Ce l’abbiamo fatta, André!”
“Non guardare nello specchio, ti accechi, Oscar!”
 
Ti accechi.
Ti accechi.
Ti accechi.
 
Controllò con un movimento automatico che la spada fosse ben agganciata; il sorriso era svanito e una tristezza senza fine la invadeva: la sentiva arrivare da lontano e poi sommergerla come un’onda, sempre più alta, sempre più alta.
Come si possono proteggere i bambini dallo scorrere del tempo?
 
Sentì dei passi nel corridoio e, prima di essere sorpresa lì, si decise ad uscire.
Aprì la porta e vide il sole di febbraio luccicare sulle poche lastre di ghiaccio che ancora non si erano sciolte.
Ora doveva attraversare il portico, scendere le scale, raggiungere il suo cavallo.
Vedere lui.
   
 
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