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Autore: Cress Morlet    19/11/2021    6 recensioni
[Ben/Rey] AU Modern
Gli parve di vedere Rey avvicinarsi e un gorgoglio caldo si diffuse nella sua pancia. Ancora non coordinava i suoi movimenti. Le sue domande si formavano stiracchiandosi nella sua mente obnubilata da un dolore acuto mischiato a desideri contrastanti. Una sensazione di nausea e di eccitazione che incendiava le sue arterie e gli sconquassava ogni muscolo senza permettergli di compiere un respiro completo. Panico tra i suoi pensieri attorcigliati e delusione nascosta tra le pieghe degli angoli bui della sua coscienza. Riusciva a rendersi conto di poche cose. Come che lei era bella.
Bella. Sei sempre tanto bella.
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Ben Solo/Kylo Ren, Kylo Ren, Rey
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Prima della lettura!
Per aiutare la lettura, i paragrafi completamente in corsivo sono dei flashback. Siamo passati al punto di vista di Rey, doveva spiegare anche lei la sua storia. Spero vi piaccia.





C’era un silenzio assordante nella sua testa. 
L’assenza si insinuava sotto la sua cute mentre un senso roboante di solitudine scivolava nelle sue ossa. Un’emozione non nuova - essere legata con dei fili di fuoco ai suoi incubi di bambina abbandonata, simile a della spazzatura.
Non sono come mia madre. Non posso.
Il marciapiede su cui sostava era distante dallo scorrere del traffico cittadino. L’ambiente circostante era in grado di richiamare alla mente gli spazi spogli di ogni cosa brutta.
L’orfanotrofio. L’aeroporto. Gli accampamenti di fortuna.
Con le ossa della schiena adagiate sul portone dell’edificio osservava con poca cura gli alberi senza foglie e colori. Rachitici nello stesso modo in cui lo sono gli scheletri.
Un po’ simili a me.
Le poche persone che avevano scelto di affrontare il gelo erano troppe immerse nei loro pensieri e non degnavano di uno sguardo la sua figura: una ventunenne incinta e circondata soltanto da chicchi di neve mescolata a gocce di pioggia.
Era poco cosciente del fatto che tutte le ciocche dei suoi capelli erano bagnate e attaccate alla sua nuca e al suo viso. Il cappuccio del giubbotto era scivolato e non se ne era accorta. Sbadata e goffa.
Perché continuava a piangere. Dalla notte della vigilia di Natale le sue guance si erano trasformate in una ragnatela di illusioni e cruda realtà.
Ogni cosa è colpa mia. Sono sola a causa mia. Ho una voragine dentro al cuore e l’ho creata io. Sono senza respiro e senza pace e ogni errore è mio. Ho sbagliato tutto io.
Nessuno era in grado di consolarla. L’unico che avrebbe potuto aiutarla non doveva sapere nulla. Era la sua condanna da espiare. Simile ad una penitente nel deserto - abbandonata con un’unica fede da stringere negli attimi di disperazione.
Abbiamo scelto questo. Lui sta meglio così. Io devo aspettare. Sono brava ad aspettare. Io so tutto riguardo all’aspettare. Posso aspettare. Attendo qui.
Strinse le mani sul suo ventre e si rese conto che continuava ad essere una delusione come madre e che forse sua figlia la odiava. La sentiva costantemente irrequieta, anche quando non avrebbe potuto sentirla. Eppure l’aveva percepita subito e aveva cercato in ogni modo di difenderla. E c’era stato poco da tentare. Di fatto sembrava che entrambe stessero bene soltanto vicino a Ben.
Non deve sapere che piango e che sto male e che vorrei strapparmi il dolore dalle costole e strozzarlo e gettarlo lontano. Deve scegliere liberamente. Gli devo questo e tanto altro. Posso essere migliore. E non voglio continuare a rovinargli l’esistenza.
Il suo sterno fu scosso da un altro singhiozzo che cercava di trattenere con le labbra strette e i denti serrati.
Basta basta basta. Lui presto sarà qui.
La sua mezzacoda era un disastro. Si strofinò le guance con i polsi e poi con i palmi segnati dalle sue unghie.
Difficile trattenersi nei momenti in cui era insieme a Ben. Era un obbligo morale bloccare ogni suo gesto poco ragionato.
Come baciarlo e chiedergli di non lasciarla e di essere costantemente nella sua vita e di ricominciare insieme. Sentire sempre le sue mani sulla pancia e i dolci bisbigli con cui coccola la bambina. Il naso contro il suo ombelico e le risate serene sui suoi fianchi.
Trattenne a stento altre lacrime ed il cappuccio abbandonò ancora il suo capo, liberandole la visuale. Lui correva a grandi passi nella sua direzione ed il suo stomaco si contorse con morsi caldi di denti avvelenati.
Come il primo giorno in cui ti ho visto camminare a testa bassa sotto un acquazzone.
“Rey, perché sei ancora qui? La clinica non ha già aperto? Rischi di ammalarti e di far star male entrambe.”
Le sue dita accarezzarono la sua guancia e poi la strinse contro il suo petto e circondò i loro corpi con il suo enorme cappotto. Si rese conto che era un misero momento che sarebbe durato un istante soltanto. Eppure non era importante.
Si illuse che sarebbe stato così per sempre. Che avrebbero scelto di bloccarsi in un abbraccio stretto. Insieme e non più soli.
Ricordati la realtà e scorticati i palmi delle mani.
Il portone si aprì e Ben la strinse con meno forza. Non c’era più bisogno.
Loro non erano più una coppia. Erano due persone sole e alla deriva.
Ed è colpa mia. È tutta colpa mia.

                                                                                                                                                     *****************


Ben sembrava scomparso nell’armadio.
Era strano - era un uomo troppo grande.
Cercava una coperta e dei calzini. Non ne era certa. I suoi pensieri si contorcevano come bozze sbilenche e catorci logorati da chicchi di polvere.
Era un paradosso non riuscire a vederlo. Impossibile che fosse capace di scomparire con il suo corpo immenso.
Ben chiuse un cassetto e bofonchiò qualcosa contro il suo disordine. Non poteva dargli torto.
La sua camera da letto era nel caos e nulla era al suo posto - la camera che Finn le aveva offerto e che si era trasformata in un suo rifugio negli ultimi due mesi.
Lei si era seduta sul ciglio del letto e non era ancora in grado di contenere l’ansia.
Con le punta delle dita toccò l’angolo della fronte che Ben aveva baciato e si domandò che cosa avesse voluto significare. Gli aveva rivelato di essere incinta e niente. Lui non aveva detto nulla. L’aveva osservata in un modo tale che aveva sbriciolato granelli di sabbia ammucchiati nei recessi della sua anima. Le aveva baciato la fronte e stretto la nuca ed era stato come cadere in un cerchio di luce in grado di affogare la sua anima nella disperazione. Qualcosa doveva averla colpita a fondo e il suo corpo aveva tremato d’istinto - facendo credere a Ben che lei avesse freddo.
Camminando tra i corridoi di una casa deserta - dove erano Finn e Poe? Armitage e Rose? - aveva smesso di porsi domande e si era trascinata in camera. Non appena aveva visto il materasso si era bloccata con un miscuglio di panico e di vergogna.
Sono stata sola qui. Piangendo tutte le mie lacrime e stringendomi la pancia. Come posso star già deludendo la vita che cresce dentro di me? Come posso essere una madre? Una madre buona?
Si era aggrappata a Ben e le loro mani erano rimaste intrecciate e strette - con tanta forza da scontrare le ossa.
Un velo oscuro aveva adombrato le sue ciglia e Ben le aveva baciato la fronte. Ancora contorto in una strana disperazione che impediva ad entrambi ogni respiro.
Lui si era allontanato alla ricerca di maglioni caldi nel suo armadio - maglioni o calze o coperte? - e lei non aveva potuto fare altro. Si era seduta come se qualcuno avesse strappato una molla nel suo corpo e i suoi muscoli si fossero spenti. Scivolata giù come una goccia d’acqua in un terreno arido. Stanca e desolata.
Le cadde la mano in grembo.
C’era una fitta al centro del suo petto e si rese conto che il senso di colpa consumava le sue costole fino a spaccargli il cuore. Il suo palmo si contrasse in maniera involontaria e brividi scivolarono tra le vertebre della sua schiena.
Ho sbagliato ogni cosa. Ho perso tutti.
Vide Ben ed il profilo della sua schiena e la grandezza delle sue spalle. Il modo in cui le sue mani si muovevano frenetiche a cercare nei cassetti. Il morso nervoso delle sue labbra e delle sue guance.
Un’altra fitta corse a strapparle il fianco con una spina grondante veleno.
Lui era ovunque in lei. E lei lo amava oltre ogni misura.
Era una consapevolezza che aveva ancora il potere di immobilizzare il suo corpo e di serrarle la gola. Non era capace di dirgli qualcosa o di tendergli la mano e raggiungerlo.
Io posso soltanto lasciarlo andare. Non sarebbe giusto trattenerlo. L’ho costretto a soffrire. Mesi di dolore senza una spiegazione. Sono stata imperdonabile.
“Ben.”
Un maglione cadde dal cassetto in alto e lui lo accolse tra le mani voltandosi al suono della sua voce. Sembrava avesse trovato anche due paia di calze grigie e nessuna coperta.
“Scusami. Sto cercando degli indumenti caldi e non riesco a trovarli.”
Tra le coperte c’è un tuo maglione che ho abbracciato ogni notte. Lascia stare.
“Ho bisogno di parlarti.”
La sua voce avrebbe dovuto essere ferma e sicura. Svuotata da ogni tentennamento o ripensamento. Invece sembrava soltanto scontrosa e ingrata.
“Certo. Ma stai continuando a tremare e sono preoccupato.”
Il maglione posato sull’incavo del gomito e delle calze spaiate mosse avanti e indietro mentre erano srotolate: quel movimento e la sua preoccupazione erano un marchio incandescente - il modo in cui costantemente si prodigava per lei.
Lo vide piegarsi su un ginocchio e sfilare una sua pantofola. La sua mano le avvolse il tallone e lei si riscosse.
“Fermati, Ben. Faccio da sola.”
Gli porse il palmo con uno strano atteggiamento di sfida che lui non raccolse. Non si scompose e non cedette calze o maglione.
“Lascia che ti aiuti. Stai ancora tremando.”
Lo vide in equilibrio sui talloni e un ricordo strinse le sue tempie con artigli di ghiaccio e con una nuova scossa alla testa. Si sporse ad acciuffare entrambe le calze.
“Non ho freddo.”
Le uniche sillabe biascicate mentre si copriva i piedi con le pantofole.
Ci sono tante altre emozioni che mi consumano dall’interno e che mi trasformeranno in una carcassa decomposta sotto il sole cocente.
Ma ogni sua parola si sciolse sulla sua bocca. Lo sguardo di Ben continuava a scivolare sul suo ventre e c’erano emozioni tristi nei suoi occhi.
Sono una stupida. Sono ancora una bambina spaesata che fugge.
Lui era tra le sue gambe con le dita che si flettevano vicino ai suoi calcagni. Lei gli accarezzò l’angolo dell’occhio sinistro, scendendo a tracciargli la guancia e poi il mento.
Non ho imparato nulla e non sono cambiata tanto. Sono destinata alla solitudine. Peggio. Un’esistenza lontana da te.
Lo aveva amato dal primo istante. Non aveva mai smesso e mai tentennato - neanche nei momenti senza alcuna speranza.
Sapeva a cosa era destinata: senza di lui significava essere un granello di sale senza acqua di mare.
Significava bruciare e basta.
“Ben. Non puoi perdonarmi. Sono stata imperdonabile e ti ho fatto soffrire per mesi. Sono stata una persona orribile.”
“Cosa stai dicendo?”
Raccolse un po’ di coraggio e lo stese sulle sue ossa, cercando di trasformarle in nuove armi impossibili da scalfire.
“Tu non devi preoccuparti. Non devi tornare con me perché sono incinta. Io non te lo chiederei mai.”
Con le sue parole Ben divenne ancora più irrequieto. Vide il suo volto trasformarsi in una maschera di orrore. Disperato.
Desiderava calmarlo con un bacio e stringergli le dita delle mani e sfiorargli le labbra. Permettersi di godere di un dolce calore allo stomaco e di un formicolio alla nuca.
Da incoerente decise di abbandonarsi e di avvicinarsi. Immerse le mani tra i suoi capelli e senza riflettere stese il viso contro il suo collo. Le sue tempie erano solleticate dal suo respiro che si allungava sulla sua pelle con dolcezza. Sulla sua bocca ascoltava il battere del suo cuore. Di scatto si strinse a lui e di questo fu cosciente.
Le ciocche di Ben erano ancora bagnate. Lui era scombinato e stanco a causa sua - ti ho giudicato e non ti ho ascoltato e ti ho detto di essere un mostro.
I suoi polpastrelli sfiorarono i suoi capelli umidi ed ebbe una stretta dolorosa nel suo sterno. C’era un peso nel suo cuore. Tanto potente che sarebbe stato in grado di sotterrarla tra antichi relitti, nascosta da terra e detriti.
Tu non hai mai voluto dei figli e me lo hai sempre detto chiaramente. Io non posso obbligarti. Non sono in grado di agire diversamente. Mi giudico e mi odio.
“Ti ho detto delle cose orribili. Sono stata come i tuoi genitori. Sono stata come Luke. Non ti ho creduto e non ti ho concesso di spiegare. Io ero talmente tanto spaventata. Sai di cosa? Io so che mi ami. Sono assurda. Io so che mi ami quanto io amo te. Per questo motivo tu avresti accettato questo bambino. Pur di non ferire me. E dopo ti saresti reso conto di esserti rinchiuso in una gabbia di cui io non mi sarei mai perdonata. Non sta accadendo lo stesso adesso? Sei triste. Lo sento, Ben. Sei triste e disperato e lo comprendo. Credevo che la mia paura fosse di diventare come i miei genitori. Ho scoperto di essere incinta ed avevo un unico pensiero. Non deludere mio figlio e non lasciarlo solo al mondo. Invece ho compiuto atti peggiori dei miei genitori. Sono scappata e non ti ho dato modo di contattarmi. Esattamente come essere abbandonati sul ciglio di una strada a cinque anni. Sono affogata nei sensi di colpa. La consapevolezza di essere un fallimento era un macigno sul cuore. Tu mi mancavi in ogni istante e avevo bisogno di chiarire con te e bloccare la tortura che continuavo ad infliggere ad entrambi. Invece ho sbagliato ancora. Ho indirizzato tutta la rabbia che provavo verso me stessa contro di te. Io sono il vero mostro. Tu meriti di meglio e non dovresti amare me.”
Il suo cuore continuava a scontrarsi contro le costole del suo seno sinistro. Duro e pesante nel suo petto - come un pugno di granito logorato dalle mani di mercanti e di cerca rottami.
Un peso dentro al suo corpo. Simile ad una pietra spigolosa sopra cui era germogliata una vita che non era previsto esistesse. Pensava ai fiori del deserto e ad una bambina senza genitori e senza un futuro.
Ebbe un gorgoglio alla bocca dello stomaco e la sensazione di doversi aggrappare al suo ventre e proteggere suo figlio - distoglierlo da tutte le emozioni tristi.
Le sue colpe le resero la voce roca.
“Non ho mai creduto davvero alle bugie di Zorii. Suppongo che fosse semplice in questo modo: credere che tu fossi il solo colpevole. Offuscava il terrore di affrontare tutto il resto. Ogni cosa che doveva essere necessariamente affrontata.”
Si strinse la pancia con più forza. Fu un gesto che scosse la schiena di Ben e il suo volto. Sembrava che tutta la disperazione degli ultimi minuti fosse lì. Tra le sopracciglia aggrottate e lo sfarfallio delle ciglia.
“Rey. Tu vuoi tenere il bambino?”
Non comprese il suo tono e il suo sguardo. Lui si era posizionato con il capo chino e guardava le sue dita e il modo in cui sembrava cullare il suo ventre con i palmi aperti. Lei non ebbe esitazione.
“Sì.”
Ci fu un sospiro di sollievo e Rey era talmente tanto tesa che si accorse con qualche secondo di ritardo che non era sfuggito dalla sua bocca. Dalle spalle di Ben cadde ogni traccia di tensione e di disperazione. E le sorrise.


                                                                                                                                                                           *************


Stendersi sul lettino con i pantaloni slacciati era imbarazzante. Per rendere il controllo semplice si sfilò la maglietta e la diede a Ben chiedendogli di buttarla su una sedia o sul suo zaino.
Era questione di praticità e di non far sporcare i suoi indumenti di gel. Le era bastata la prima volta e i tanti giorni in cui una delle sue felpe migliori si era impregnata di un odore insopportabile. 
Le aveva procurato nausea anche nel pomeriggio - e bastavano le nausee mattutine che la accompagnavano da mesi anche senza alcuna stimolazione olfattiva.
Povero Finn. Ho dovuto scongiurarlo di smettere di prepararmi tazzine e tazzine di caffè. E lui non mi ha costretto a spiegargli nulla. Lo aveva mai fatto? No. La sua amicizia era sempre stata un dono, non uno scambio equo. Un altro mio errore.
Si riscosse sentendo una porta delle vicinanze aprirsi e le voci dei dottori e degli infermieri. La sua dottoressa ancora non era rientrata nello studio e non sapeva come mostrarsi a suo agio. Nell’attesa scelse di abbassarsi meglio i pantaloni sotto i glutei. In tale posa credeva di essere sempre immensamente stupida. E insieme a Ben non era più semplice. Piuttosto tutto più imbarazzante. Tutto più assurdo.
Si era posizionato vicino al lettino e guardava verso l’alto con le mani nascoste dietro la schiena.
Ebbe una stilettata di dolcezza e di malinconia alla bocca dello stomaco.
Si sporse a toccargli un polso e lui si volse a guardarla. Solo in quel momento si accorse che i suoi occhi erano lucidi.
Per questo non mi guarda. Cerca di contenersi. Tenta di placare le sue emozioni.
Il suo cuore si strinse ancora una volta su se stesso. Ben Solo era un concentrato di emozioni vissute al limite. I suoi atti d’amore erano questo. Tendere verso la calma e la quiete. Distogliere l’attenzione dai suoi tormenti. Quasi scomparire.
Io ti amo così come sei.
“Sei emozionato?”
Il suo sorriso era un’arma capace di spezzarla e di tormentarla con altri caldi crampi. Fu costretta a sollevare di poco i fianchi nel tentativo di rilassare la pancia e di trovare sollievo. Non ne fu in grado.
“Molto. Molto emozionato.”
Non gli lasciò il polso e gli prese la mano.
“Puoi avvicinarti di più?”
Era consapevole dell’errore nel suo comportamento e si era redarguita diverse volte in tantissime occasioni, con vergogna e risentimento verso se stessa.
Essere una bambina con il nulla tra le dita ti rende un essere umano avido e bisognoso di avere di più e di più e sempre di più.
Puoi avvicinarti di più? Per favore. Possiamo avere di più? Puoi amarmi di più?
Ben le strinse le dita con delicatezza e le baciò le nocche. Si pose vicino a lei continuando a stringerle la mano e ad osservarla con uno sguardo sereno.
Di più e di più e di più.
Forse Ben desiderava domandarle qualcosa. Ma il suo unico pensiero era altro: di più e di più e di più.
Lei mosse il capo mentre lui si sporgeva a dirle delle parole sulla fronte e si bloccarono in un gesto di compromesso. Un bacio che coinvolgeva gli angoli delle bocche e niente altro.
Eppure Ben non si mosse. Avrebbe potuto spostarsi. Invece premette più forte le labbra e rimase lì.
Di più e di più e di più.
Il corpo di Rey ebbe una scossa tale da scombussolarla soltanto all’interno, ogni organo rimescolato e disposto nel luogo sbagliato. Il cuore lo ebbe in gola e poi sulla lingua.
Spostò la testa e gli diede un bacio a stampo. Un secondo. Un millesimo di secondo o ancora meno. Il solletico di una vibrissa.
Smettila. Subito.
Si allontanò e comprese di essersi comportata in maniera sbagliata. Da egoista e da neonata con vizi e capricci.
Che gesto stupido.
“Scusami. Io non dovevo.”
Il suo stomaco si contorse con orrore e altre lacrime rigarono la sua gola resa asciutta dal vuoto nel suo sterno. Pose le mani sulle spalle di Ben, cercando una distanza data dalla lunghezza delle sue braccia. Qualcosa di fragile - facile da distruggere con un po’ di risolutezza.
E lui osservava con la bocca schiusa.
Stupore e non disgusto.
“No. Va bene. Va molto bene.”
Sentì le sue mani avvolgerle le guance e poi le orecchie e alcune ciocche. Non le mosse il viso mentre lei era in un mondo reso ovattato dai calli delle sue dita. Lui la baciò. Il suo naso quasi scontratosi contro il suo occhio sinistro a causa della loro strana posizione e le sue labbra premute sulla sua bocca che si aprì al tocco della sua lingua. Sì. Finalmente.
Una nuova scossa invase con foga le dita accartocciate dei suoi piedi e la base della schiena. Immerse le mani nei suoi capelli e si abbandonò al delirio di ogni suo gesto. Il modo in cui stringeva il suo capo e continuava a baciarla senza concedere aria a nessuno dei due. Toccava la sua bocca, i denti, la lingua. I gemiti che si strappavano con ogni movimento delle labbra non li contenevano. Ben continuava a consumarla mentre il diaframma di entrambi protestava rendendo gli occhi rossi di lacrime.
Non mi importa. Consumami.
Desiderava sentirlo di più. Chiedergli di infilarsi tra le sue gambe e dentro di lei.
Subito. Adesso.
Si mosse e le gambe fasciate dai pantaloni diedero una nuova consistenza al momento. Erano ad un appuntamento medico e attendevano un’ecografia. Lei era mezza svestita su un lettino e nel volto di Ben coglieva il riflesso del suo.
Guance arrossate e capelli in disordine. Pochi respiri scoordinati e mani che tremavano. Sguardo perso.
Sfiorò le sue labbra con le punte delle dita.
“Ben.”
Qualsiasi concetto avrebbe desiderato esprimere rimase incastrato alla base della sua gola. Sentirono dei rapidi colpetti contro la porta e poi la dottoressa Ahsoka Tano entrò con il volto sorridente ed una cartella in mano.
“Perdonate il mio ritardo. Finalmente possiamo cominciare. Siete emozionati?”

                                                                                                                                                               ********************


Ben cadde sulle ginocchia e lei gli strinse le spalle temendo che si stesse sentendo male e che stesse avendo un mancamento. Gli prese il volto tra le dita e sotto i suoi polpastrelli sentì le pieghe del suo sorriso. Gli occhi lucidi e lo sguardo emozionato - e qualcosa che si risvegliava dentro se stessa.
Si perse ad osservare ogni tratto del suo viso mentre la sua pancia era contorta in una strana emozione che sconquassava i suoi muscoli in un caos liquido. La mancanza di queste sensazioni era stata una tortura che si era inflitta con una cattiveria mascochista. Ed ora non riusciva a smettere di guardarlo e non ne aveva mai abbastanza.
Come sarà nostro figlio? Con i tuoi capelli e le tue labbra? Alto e grande come te? Domande a cui non aveva mai permesso di germogliare nella sua mente o di stiracchiarsi nei suoi sogni. Le aveva soffocate con freddezza e le aveva costrette ad essere inghiottite dal buco nero in cui si era trasformato il suo cuore. Non si era mai adagiata su un cuscino di forse. Si era imposta di accettare una vita solitaria e senza una gioia completa.
Una vita senza Ben.
E lui ora stava deglutendo a fatica e schiacciava la fronte contro le sue ginocchia.
“Cosa succede?”
Che domanda sciocca aveva posto. Tutto. Sta succedendo tutto.
“Posso abbracciare la pancia? Non voglio forzarti o farti sentire a disagio. Desidero soltanto conoscere nostra figlia.”
Figlia?
“Per te sarà una bambina?”
Lui annuì contro le sue gambe. Le sembrava che fosse emozionato. Forse felice. Tutti i forse che aveva soffocato avevano deciso di ergersi rigogliosi. Adesso si giostrava in un trampolino di forse e forse e forse.
Si chiese se lui stesse trattenendo un groppo in gola e se stesse cercando di dimostrarsi una roccia.
“Lo sento. Sarà una bambina. Intelligente e bellissima come te.”
Non ci aveva mai pensato.
Tre mesi erano passati da quando era stata da sola in un bagno pubblico e si era bloccata ad osservare un bastoncino bianco che confermava ogni suo sospetto - era incinta e la sua vita era stata derubata da ogni equilibrio e certezza.
Dentro di lei cresceva una vita.
Era una creatura (e basta).
Era la sua ragione di vita (e qualcosa di astratto).
Era una nuova esistenza che mai avrebbe abbandonato e che amava con ogni fibra del suo essere (ma lo aveva mai reso reale nella sua mente?).
Una bambina.
Ben. Tu che cosa provi? Che cosa senti? Ami me? Ami lei? Vuoi ancora una famiglia? Siamo la tua famiglia?
Con lentezza Rey sollevò il maglione fino ad arrotolarlo sotto il suo seno e poi si rese conto che non era abbastanza. Il pantalone avvolgeva il suo ventre e copriva il piccolo arrotondamento che si era formato in quei quattro mesi. Ben si mosse calmo e con un tocco leggero. Le sbottonò il jeans e aprì la cerniera, facendo scivolare la parte superiore lungo i suoi fianchi.
Avrebbe potuto essere un gesto erotico.
Ben l’aveva spogliata molte volte.
Velocemente - pur di toccare subito la pelle delle sue cosce e baciarle le ginocchia e morderle i polpacci.
Lentamente - solo i due bottoni da sfilare dalle sue asole senza la minima resistenza e la sua mano che con una carezza si immergeva dentro di lei.
Avrebbe potuto essere un gesto di forza.
I jeans sbottonati da una mano estranea era stata un’immagine orribile che l’aveva perseguitata negli incubi. Una sensazione di impotenza e di paura e di violazione.
Un trauma che non aveva mai superato e che aveva cercato di dimenticare insabbiandolo nella coscienza della sua anima e della sua mente.
Lei aveva colpito la testa di Unkar Plutt con un tubo pur di fermarlo e di salvarsi. Lui era svenuto sopra il suo corpo tremante e con la mano ancora attaccata alla sua cerniera.
Si era sentita tanto sporca prima di incontrare Ben. Comprendere di non avere colpa e di poter amare se stessa era ancora un processo senza fine.
Abbassò il capo e vide il sorriso del padre di sua figlia. Gli prese i polpastrelli e li posò sopra il suo ventre. Sul punto esatto in cui percepiva la bambina.
E in quei secondi comprese.
Ogni loro gesto avrebbe potuto assumere un significato qualsiasi e forse avrebbe potuto passare il resto della sua vita ad immaginarli tutti.
Quanti forse c’erano adesso.
Ben le coprì la pancia con le dita e poi con la mano intera e con il polso. Non trattenne un singhiozzo che sembrava di risata e lacrime insieme. Lei osservava tutto con uno strano incanto. Sospesa.
Comprese che ogni loro movimento era una cosa soltanto.
Lui sorrise tra i singulti che gli stavano martoriando l’addome e la gola. Rise e avvicinò il viso, affondando il naso nel suo ombelico. Con l’altro braccio le cingeva i fianchi mentre i capelli neri gli coprivano le guance e le labbra. Stava mormorando delle parole capaci di sciogliere ogni suo terrore. La amo già. Rey, la amo già.
Speranza. Erano gesti di speranza.
Qualcosa si curò dentro di lei. E fu per sempre.
Sua figlia non sarebbe stata abbandonata. Sua figlia avrebbe avuto un padre.
Non vivrà la mia vita.
Sentì un bacio di Ben sul ventre e così altre parti di se stessa trovarono la strada di casa.



                                                                                                                                                                                              ************


Il cursore si muoveva sul monitor delineando un’immagine. Veloce e con tocchi precisi.
“Vedete? Ecco vostro figlio.”
Figlia. Ben sente che sarà una bambina.
“Come sta?”
Sono un fallimento? Cresce male a causa mia? Sente quanto sono triste?
“Il bambino sta bene.”
Il tono sembrava nascondere altro. Oppure era paranoica? Non era mai stata in grado di interpretare i medici e così il suo turbamento aumentava senza nulla a cui aggrapparsi.
Le dita di Ben erano intrecciate alle sue e uno spasmo al cuore la costrinse a stringerle con più forza - un’intensità dettata dal terrore di essere un errore umano.
“C’è qualcosa che non va?”
Lo chiese Ben e lei distolse lo sguardo dall’immagine della loro bambina. Si accorse che i suoi occhi erano con tante lacrime trattenute a stento e che la felicità di vedere sua figlia - per la prima volta - era offuscata dall’ansia e dal panico.
Con il pollice gli accarezzò l’interno del polso. Non preoccuparti, avrebbe voluto dirgli. Andrà tutto bene.
“L’ecografia mostra una situazione nella norma. Ma le analisi ci stanno dicendo che è necessario essere più attenti.”
La dottoressa Tano spense il monitor e le passò dei fazzoletti con cui pulirsi dal gel. Il suo corpo era teso e del sudore freddo colava lungo la sua nuca.
“Rey. Come stai vivendo questa gravidanza? Sei molto magra. Ho letto la tua cartella e tutte le informazioni relative al tuo rapporto con il cibo e al modo in cui ha influenzato il tuo corpo. Non dobbiamo dimenticarlo in questa fase delicata e non dobbiamo neanche allarmarci. Bisogna semplicemente agire con prevenzione. Lavori molto? Sei giovane e sarai abituata ad un ritmo di vita differente. Nei primi mesi di gravidanza sembra di poter continuare l’esistenza come se fosse tutto uguale. Io credo fermamente che sia così. Allo stesso tempo, però, bisogna anche operare con delle attenzioni maggiori. Mangiare di più, introdurre determinate vitamine nella dieta, assumere degli integratori. Nessuna situazione di stress eccessivo. Hai chi possa esserti vicino in questo momento?”
Le sue parole ebbero la capacità di stordirla. Trafitta con il volto contrattato e la mano immobile a stringere i fazzoletti umidi e appiccicosi.
Il modo in cui stava vivendo era un rischio per la sua bambina. Fuggire dalla sua casa e mesi di pianto e di autocommiserazione. Struggersi vicino a Ben. Tutto un errore.
Mi sono incatenata ad una situazione che odio e che mi sviscera l’anima e l’ho fatto da sola con i miei sbagli. Adesso che voglio che ogni cosa sia diversa non è possibile. E sono triste, infelice, disperata. Vorrei soltanto indietro la mia famiglia. Smettere di sbagliare.
Coprì il suo ventre e si schiarì la voce. Ma Ben si era già avvicinato alla scrivania della dottoressa e parlò per primo.
“Ci sono io. Aiuterò io Rey in tutto. Ci dica cosa dobbiamo fare.”

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“Rey? Perché piangi?”
“Non preoccuparti, Finn. Sto bene.”
Sono di nuovo sola.
Peggio.
Sono senza Ben.

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I consigli della dottoressa Tano erano giunti ovattati alle sue orecchie. Li aveva ascoltati - erano importanti e riguardavano sua figlia.
Ma era accaduto nella sua bolla. Come un istrice spaventato e indifeso che si raggomitola su se stesso tra lo scorrere di centinaia di macchine senza freni.
La situazione si ingarbugliava senza che avesse la possibilità di intervenire. Leggeva i nomi delle medicine e degli integratori che si moltiplicavano sul ricettario. Il suo unico segno di presenza consisteva nell’annuire durante la spiegazione.
Questa pastiglia due volte al giorno e soltanto dopo i pasti. Queste buste di integratori da assumere ogni ventiquattro ore per due settimane. Pasti da consumare cinque volte al giorno. Aggiungere tanta frutta e verdura alla sua dieta. Non esagerare con gli sforzi fisici.
Era intenta ad ascoltare ogni cosa e spesso gettava lo sguardo verso Ben cercando di cogliere le sue emozioni - era concentrato e assorto mentre chiedeva molte informazioni precise.
Prima si era velocemente rivestita e poi aveva preso la sua mano. E sotto la scrivania continuavano a stringersi le dita. Entrambi con forza e con una strana smania. Legati come ancore negli immensi oceani.
Questo è contro il nostro patto. Questo scombina tutto. Non rispettiamo le regole mai pronunciate ad alta voce.
La dottoressa Tano fu gentile a non sottolineare la strana atmosfera nella stanza. Sembrava un animo dolce e quieto. Una donna che camminava in linea retta, certa del terreno sotto i suoi piedi. Senza mai un tentennamento tra scosse e voragini. Un’anima con il suo posto nel mondo. Immensamente in grado di aiutare gli altri e di mostrare compassione.
L’avrebbe ringraziata con più calore e partecipazione se fosse stata maggiormente presente a se stessa. Se la sua mente non fosse stata confusa, colma di nuove informazioni e spaventata a causa dell’imprevedibile svolgersi degli eventi.
“Possiamo incontrarci di nuovo tra tre settimane se volete monitorare i cambiamenti. Sono certa che saranno migliorati. Potreste aspettare qui cinque minuti? Il macchinario sta creando dei problemi e non riesco a stampare le immagini scattate oggi.”
Sul suo palmo e sulle sue unghie sentì Ben trasalire e cercare di mantenersi calmo.
Certo. Lo aveva derubato di tante esperienze.
Non gli aveva concesso di incantarsi davanti all’immagine nera e grigia della sua bambina, di girovagare con la foto in tasca e poi di scrutarla la sera poco prima di addormentarsi.
Buonanotte, bimba mia. Ti amo. Sono il tuo papà. Ti aspetto. Quanto ti amo.
Forse non aveva realizzato. Forse era tanto emozionato e in qualche modo felice.
Il senso di colpa costringeva il suo cuore a battere colpi di ghiaccio e calore nelle sue orecchie. Colpi ritmici di una guerra da cui era strisciata fuori a fatica. Sconfitta e derubata di tutto.
Per questo abbiamo scelto di prenderci del tempo. Per questo motivo lui mi ha chiesto di ricominciare con calma e con i nostri spazi. Io ancora a casa di Finn e lui da solo nel nostro appartamento.
Non mi ha colpito a fondo con crude espressioni e sguardi rancorosi. Non è stato cattivo e vendicativo. Nulla del genere.
E così io ho compreso cosa ci fosse di sottinteso tra i suoi silenzi. L’ho sentito pesante sulla bocca dello stomaco.

Riscosse nella sua mente le parole mai pronunciate che tormentavano ogni suo secondo di esistenza. Le pronunciò piano.
Ho bisogno di una pausa da te e dal male che mi hai fatto. Non ti ho perdonato. Ho bisogno di tempo.
Lo sapeva. Sapeva di essere stata una stupida bambina imperdonabile. Di aver sbagliato ogni cosa e di aver perso tutte le cose belle della sua esistenza.
Lui che ancora cerca di proteggermi e di essere buono con me.
Si erano incontrati quasi ogni giorno e spesso non erano stati soli. La distanza si era accorciata in alcuni istanti - brevi attimi di collaudata conoscenza delle abitudini e dei movimenti dell’altro.
Senza mai baci o qualcos’altro che qualcuno avrebbe potuto credere fosse amore.
(amore per la ragazza-nessuno)
L’unica certezza meravigliosa era l’adorazione che mostrava verso sua figlia.
(non alla ragazzina senza un cuore e senza testa)
Le chiedeva di poter toccare il suo ventre e di bisbigliare qualcosa alla sua pancia.
Ciao amore, sono il tuo papà. Papà ti ama tanto. Papà è felice vicino a te. Sei un miracolo. Ti amo tantissimo. Ti sto aspettando.
La vigilia di Natale era stata la notte in cui tutti avevano scoperto il suo segreto. I loro amici erano rientrati a mezzanotte - avevano trascorso la serata passeggiando al freddo per dar loro modo di chiarire senza altre orecchie indiscrete a casa.
Erano rientrati silenziosamente e avevano trovato i regali sotto l’albero e la cucina aggiustata. Lei seduta ad una sedia mentre Ben chiedeva scusa ondeggiando agitato da un piede all’altro.
Mi dispiace aver distrutto la vostra cucina. Scusatemi. Pagherò qualsiasi danno.
Continuavano a chiedere cosa fosse successo e Ben si torceva le dita delle mani. Finn l’aveva guardata e lei non era più riuscita a trattenersi. Non era mai stato spontaneo nascondersi e mentire. E Finn era sempre stato il suo nascondiglio perfetto.
Sono incinta. Ecco cosa succede.
Lo aveva detto mentre Ben ancora parlava e si scusava e gesticolava verso la sedia con la gamba rotta.
Rose era corsa ad abbracciarla e lei aveva nascosto le lacrime contro il suo cappotto.
Sono incinta e resto qui. Questo avrebbe dovuto dire. Io e Ben non stiamo insieme. Non so più cosa siamo. Non so bene che cosa ho accettato. Ho sbagliato e non penso mi amerà mai più. Che cosa ho fatto? Cosa devo fare adesso?
Udì la porta della stanza chiudersi ed il camice di Ahsoka Tano scomparire dietro ad essa. Si volse a sinistra e le parole della sua mente uscirono dalla sua bocca.
“Come dobbiamo fare adesso?”
Ben la guardò con stupore.
“Cosa?”
“Ben. Tre settimane fa abbiamo deciso di non stare più insieme. Non puoi essere tu ad aiutarmi e non ho neanche bisogno dell’aiuto di qualcuno. Posso fare da sola.”
Lui si morse le labbra e l’interno della guancia. E lei ebbe qualcosa di spezzato tra i suoi battiti. Una scheggia d’acqua che era scesa nel buio oscuro del suo sterno. Lui stringeva ancora la sua mano e la osservava come se fosse un tesoro - un miracolo.
Come sussurrava ogni giorno alla sua pancia e alla loro bimba.
Da tempo c’è un pezzo di ghiaccio incastrato nel mio cuore. Ogni secondo sprofonda sempre di più nei miei incubi e nei miei pensieri. Tu non ci sei. Soltanto un brivido sulla mia nuca ogni volta che scorgo la desolazione che ho creato intorno a me. Che stupida.

Ben non lasciò la sua mano e le baciò le nocche.
Che stupida.
“Per me sarebbe un onore aiutarti. Se non vuoi vivere insieme a me, solamente noi due, possiamo trovare un’altra soluzione. Posso trasferirmi con te e Poe e Finn. Oppure, se è troppo, posso prendere una stanza in un albergo vicino alla casa di Finn. Mi piacerebbe molto essere più presente. Ogni secondo senza di voi mi sembra uno spreco.”
Le sue parole e il suo volto erano un dolore come di spine gettate con poca grazia sulle sue costole. Un male che sottraeva il suo respiro e la sua scarsa calma.
“Io voglio vivere con te. Da settimane desidero… tu hai proposto di riflettere. Hai detto che hai bisogno di tempo. Che hai bisogno di capire.”
Ho capito che non vuoi la nostra storia. Solo io e te. Che vuoi essere padre di nostra figlia e nulla con me.
“Rey. Non significa non stare insieme.”
E la scheggia scese sotto ai suoi talloni.
Tu sei stato distante e non hai cercato nulla con me. E non credo sia ingiusto. Hai ragione e sto cercando di accettarlo da tempo. Quindi che cosa stai dicendo? Perché illudermi?
“Hai chiesto di rimanere distanti. Hai detto di averne bisogno e io lo capisco e concordo con te. Ma non stiamo insieme. Non vuoi e va bene così.”
La sua testa gridava.
No. Non va bene. Non va bene così. Non andrà mai bene così. Cosa stai dicendo non lo sai neanche tu. Ma non va bene. Non va bene e non va bene. Non così. Mai così.
Ben sembrava aggrapparsi alla sua mano. Scosse la testa e le sfiorò il gomito e poi il mento.
“Come puoi dire una cosa del genere? Io non voglio assolutamente questo, non può essere. Io ti amo e l’unica cosa che abbia mai desiderato è una vita insieme a te.”
Lei non sentì le sue parole.
Io ti ho ferito. Io non sono perdonabile.
Io sono relegata lontana da te. Abbastanza da non procurarti più del male. Sufficiente a consumare me. Costantemente.

Riccioli di fumo e sabbia nella sua testa che occultavano a stento l’immenso senso di solitudine e di colpa da cui era soggiogata. 
Ti ho lasciato. Come ho potuto farlo.
Non ti ho detto subito di nostra figlia. Che cosa ho fatto.
Ti ho incolpato di avermi tradita. Come sono stata cieca.
Che stupida.

“Rey.”
Le mani di Ben sulle sue guance.
“Rey.”
La sua bocca tra le sue labbra ed il suo naso.
“Ascoltami. Tu non sei sola. Mi senti? Tu non sei sola ed io ti amo più della mia stessa vita e non voglio mai più separarmi da te. Possiamo parlarne meglio a casa nostra? Vorresti?”
Non si era resa conto di aver chiuso gli occhi e li riaprì mentre lo sfarfallio delle luci elettriche scuoteva le sue sensazioni.
“Non c’è bisogno, Ben.”
C’era un immenso abisso nel suo stomaco contratto su se stesso. La nausea tormentava un punto in mezzo alle costole, la sua gola e la sua lingua.
Lui non si allontanava. Con dolcezza i suoi polpastrelli continuavano ad accarezzarle le guance e la spinsero a guardarlo.
Hai degli occhi bellissimi.
“Non ti ho chiesto queste cose con l’intento di farti del male. Te lo giuro. Credimi, per favore. Posso spiegarti non appena finisce la visita? Da soli? In casa nostra?”
Lo vide deglutire rumorosamente e muovere le labbra in un sussurro.
Per favore.
Non lo aveva immaginato.
Per favore.
Mosse la testa su un lato e lo sentì sulla cute.
Per favore.
“Ben. Mi dispiace averti lasciato solo. Io sono stata terribile e so…”
Le sue parole rimasero incagliate tra i denti con il cigolio della porta e la comparsa della dottoressa Tano. Si sciolse dall’abbraccio e si risedette meglio al suo posto senza allontanare le dita di Ben dalle sue. Lui continuava ad osservarla come in attesa di una risposta o di altre parole. C’era una strana atmosfera nella stanza che doveva essere stata percepita anche dalla ginecologa - anche se sembrava tentare di ignorarla o di ridimensionarla.
Non era turbata dalle loro guance rosse e dagli occhi lucidi. O dal tremore.
Sembriamo pile elettriche sul punto di scoppiare e di bruciare lo spazio che ci circonda.
“Ci sono riuscita. Perdonate nuovamente l’attesa. Il mio assistente Ezra non comprende la tecnologia, proprio come me. Abbiamo dovuto chiedere l’aiuto anche di Sabine.”
Stese sul tavolo le foto scattate e per qualche secondo nessuno dei due si mosse. Poi si avvicinarono insieme e delle piccole immagini rettangolari confusero ancora di più i suoi pensieri.
Sua figlia. La sua bambina. Così piccola.
Delle grandi mani coprirono gli angoli e poi i colori delle foto in una carezza. Avvertì il ventre contrarsi e sorrise dinanzi allo stupore estatico di Ben - dinanzi alla sua venerazione.
Tra le sue mani c’era la vita di entrambe.
Lui la ama davvero. Sarà un padre meraviglioso. L’unica bellissima certezza della mia vita: nostra figlia sarà amata tantissimo.
E per lei - un’orfana abbandonata - il desiderio di ricevere amare incondizionato e le dimostrazioni di affetto assomigliavano da sempre ad una ciotola di ciliegie. Gustose e buone: necessario chiederne sempre di più. Si devono pretendere. Ci si tinge le dita di rosso nel tentativo di soddisfarsi. Si devono sottrarre agli altri. Ci si trasforma in giovani donne avide. Inconsapevolmente.
Il vuoto dentro di lei era senza misura. Con le sue costole scucite e strappate avrebbero scoperto il pozzo senza fondo che era sempre stata. Un nero pece che era da stupidi cercare di colmare. Completamente inutile. Ogni cosa bella era consumata dal suo abisso. Pochi secondi di luce e poi niente più.
Come la mia storia con Ben. Disintegrata dai traumi nati nel momento in cui, da bambina, mi sono voltata e ho visto la macchina dei miei genitori trasformarsi in un’immagine sfocata all’orizzonte.
Nella mia bocca c’è ancora il sapore della sabbia.






Angolo autrice.
Salve! Praticamente aggiorno dopo un anno. Non so se qualcuno aspettava la continuazione, eccola qui. Sì, c'è bisogno di un terzo capitolo. Questa storia ha avuto bisogno di tempo e poi io anche. Spero il risultato sia accettabile, ditemelo senza problemi :) A presto!
   
 
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