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Autore: settembre17    25/11/2021    15 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAP. 2 La mattina dopo. André.
 
Quando il chiarore del giorno fece capolino tra le persiane e tra le tende tirate con furia la sera prima, cominciò a sentirsi meglio.
Aveva dormito? Non lo sapeva nemmeno lui.
Appena entrato nella sua stanza, la sera prima, un groviglio di dolore e di rimorso lo aveva assalito e prostrato fino a farlo crollare ai piedi del suo letto, la testa tra le mani e gli occhi serrati con forza contro le ginocchia rannicchiate al petto. Non si era nemmeno sentito degno di sdraiarsi sulle coperte, o forse non voleva provare di nuovo quella sensazione, quella del materasso che si deforma sotto al suo peso.
E quel groviglio era ancora lì, nel suo pensiero, nel suo unico occhio, sulla sua pelle, sulla sua bocca.
 
Ma, André si stupì, non c’era solo quello.
Intrecciato a quel disgusto di sé, al senso di colpa, altro ribolliva dentro di lui, ora che la luce dell’alba iniziava a svelare non solo le cose ma anche i loro contorni, la loro definita presenza.
E sentì dentro di sé, ancora, rabbia.
Si alzò e si avvicinò alla finestra. Allargò le mani sul piano della scrivania lì vicino ma non le guardò. Non voleva vedere le sue mani. Con lo sguardo fermo davanti a sé, iniziò a grattare con le unghie le venature del legno con un movimento lento e ritmato, lasciandosi guidare da quelle sottili linee in rilievo.
Riuscì, finalmente, faticosamente, a risalire con la memoria più indietro: prima di quando le aveva strappato la camicia, prima di quando lei, sdraiata, aveva urlato vicino al suo orecchio, prima di quando l’aveva fatta sbilanciare all’indietro, prima di quando aveva incollato le labbra alle sue, prima di quando le aveva afferrato i polsi, prima di quando lei l’aveva colpito.
 
Prima.
Quando lei aveva assunto quell’aria distaccata, gli aveva dato le spalle e, con quel tono privo di un qualsiasi colore, gli aveva detto: “Non ho più bisogno di te”.
Ma doveva andare ancora un po’ più indietro per sentire male davvero.
 
“Ora che ho deciso di vivere come un uomo”
 
Afferrò il calamaio e lo scaraventò contro l’armadio.
Se avesse detto: “Ora che anche Fersen mi ama, non ho più bisogno di te”, sarebbe uscito in silenzio da quella stanza e anche dalla sua vita. Forse le avrebbe augurato la felicità, o forse, più realisticamente, non avrebbe detto niente e sarebbe andato ad ubriacarsi fino a morire. Ma non l’avrebbe toccata.
Invece lei aveva detto:
 
“Ora che ho deciso di vivere come un uomo”
 
Guardò l’inchiostro che lentamente lasciava una macchia nera e vischiosa sul legno dell’anta dell’armadio. Lo seguì con lo sguardo.
Vide una lacrima di inchiostro scorrere piano, giù, e la vide piangere. Lei che piangeva per colpa sua, lei che piangeva perché lui non aveva saputo tacere un’ultima volta quello che da anni taceva. Lei che piangeva perché pensava ad altri baci. Lei che piangeva perché da lui non si aspettava quello. Lei che piangeva e che non aveva nemmeno tentato una difesa.
Eppure sarebbe bastato un bel colpo con il ginocchio proprio lì, in mezzo alle sue gambe, lo aveva imparato nei suoi primi addestramenti, quando suo padre l’aveva messa in guardia su come difendersi da assalti troppo ravvicinati di maschi più alti e grossi di lei.
Sapeva che cosa fare, Oscar, lo sapeva.
Ma non con lui.
Non contro di lui.
 
Si odiò.
Si disse che mai lei l’avrebbe perdonato.
Si disse che mai lui si sarebbe perdonato.
 
Strinse i pugni fino a far diventare bianche le nocche.
E poi la rivide: vicinissima, il respiro iroso di lei che esce dalle narici e scende, troppo vicino, a scaldare la bocca che lui tiene serrata, gli occhi di lei che lo trafiggono,
 
“Devi dirmelo, André!”
 
ma che cosa? che cosa, deve dirle?? che cosa c’è ancora da dire quando lei, lei!, ha annullato ogni distanza fisica tra di loro, ora che le loro camicie si toccano e che forse anche le loro cosce, così vicine, si sfiorano, ora che lei lo tiene per il collo della camicia, ora che tra i loro profili quasi non passa più la luce? Che cosa? che cosa vuole che le dica? eppure gli è sembrato di essere stato così chiaro!
 
“Vuoi che ti spieghi la metafora, Oscar?” gli scappò un sorriso amaro. Immaginò la scena:
“Ma certo Oscar, ora te lo dico; scusa, scostati un po’ e sediamoci davanti al camino, vuoi?”
 
E invece l’aveva baciata. 
Ma non con lussuria, no. Ne era certo. Forse nemmeno con passione. Milioni di volte aveva immaginato il suo primo bacio con lei: d’inverno in una carrozza piccola; contro il tronco di un albero al termine di un duello; nella scuderia, nascosti tra i loro due cavalli; nel parco, nei giardini della reggia, sulla torre la notte; davanti al fuoco, in riva al mare con i pantaloni arrotolati al polpaccio e i capelli sulla faccia; in camera di lei vicino al pianoforte; sul terrazzino, al tavolo della colazione oppure appoggiati alla balaustra; in camera di lui, alla scrivania, oppure nascosti contro il fianco dell’armadio, o seduti sul suo letto; a Parigi su un ponte sulla Senna, in una stradina di Montmartre, al Café Procope scandalosamente in mezzo a una folla di avventori, contro un muro, nel tavolo più intimo di una taverna che conoscevano solo loro e dove andavano da ragazzi; a cavallo, ognuno sul suo mentre cavalcano vicini, oppure tutti e due sullo stesso cavallo; sull’erba, sulla paglia, sulla seta, insomma, ovunque, ovunque.
E tutte le volte, tutte le volte, in ogni sua fantasia, appena prima che le loro labbra si sfiorino, lei si illumina in un sorriso.
 
Che cosa ho fatto?
Ebbe un brivido.
 
Poi, all’improvviso, comprese sé stesso e quello che voleva fare con quel maledetto bacio, che nemmeno gli era piaciuto, che aveva cancellato dalla sua memoria con una tale forza che ora non ricordava nemmeno più che sapore avesse. Sentì ancora la voce incrinata di lei:
 
“Che cosa vuoi dimostrare, André?”
 
L’aveva capito, lei, che quel bacio, con tutto quello che era successo dopo, era una dimostrazione.
E di nuovo, un’altra volta, ma quante volte l’aveva rivissuta quella scena?, tornò a quell’istante maledetto, l’istante prima di perdere il senno:
 
“Devi dirmelo, André!”, aveva urlato lei.
 
Ma non c’era niente da dire.
Avrebbe potuto restituirle lo schiaffo.
Avrebbero potuto prendersi a pugni come a quindici anni.
Ma era troppo tempo che i loro corpi avevano disimparato l’arte di toccarsi, da troppo tempo risolvevano le cose con il silenzio.
E lui non era riuscito, maledizione!, a tacere, ma nemmeno a trovare parole, a spiegare, a chiarire, a lasciare andare.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che sei un idiota.
Che hai rovinato tutto.
Che non ti perdonerà mai.
Che tu non ti perdonerai mai.
 
Sentì il rumore del cancello che veniva aperto e poi gli zoccoli di un cavallo che battevano al galoppo la ghiaia.
Era lei.
Andava alla reggia. Senza di lui, naturalmente.
 
Restò in attesa che qualcosa dentro di lui gli dicesse che cosa fosse meglio fare: lasciarla stare? inseguirla? far finta di niente e tornare alle incombenze previste per la giornata assecondando passivamente il ritmo degli impegni esterni?
Sì, l’ultima ipotesi gli parve la migliore. Non far accadere, ma lasciar accadere.
Una soluzione che richiedeva autocontrollo. E proprio per questo gli piaceva: le avrebbe dimostrato di essere il solito affidabile André, non lo sconosciuto della sera prima.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che sono sempre io, Oscar.
Che mi prendo cura di te.
Che puoi sempre contare su di me.
 
Prese un po’ di fiato e si decise ad aprire la finestra: l’aria fresca che entrò gli diede sollievo, gli fece venir voglia di lavarsi, di togliersi di dosso le tracce di quella notte senza fine e di incominciare la giornata più difficile della sua vita.
 
Ma bastò il pensiero di cambiarsi la camicia per incupirlo di nuovo.
 
Le aveva strappato la camicia.
Sul petto.
Aveva visto il suo seno.
Aveva visto il suo seno?
Non lo ricordava più.
In quel maledetto istante, quando aveva sentito il rumore della stoffa che si strappava sotto le sue dita, quando ormai era troppo tardi, era tornato di colpo alla realtà.
Si portò istintivamente le mani alle orecchie e fissò immobile un punto sul pavimento.
Era rimasto con il lembo di camicia in mano, con l’unico occhio sbarrato davanti a lei seminuda: ma non aveva visto niente di lei. Aveva visto invece sé stesso da fuori, anzi aveva visto tutta la stanza da fuori: la penombra, le gambe di lei di traverso sul letto, il rosa della sua pelle circondato da brandelli di cotone bianco, riccioli biondi che cadevano dal bordo del cuscino, lei, con lo sguardo assente, il suo corpo elastico privo di movimento, innaturalmente fermo, e poi, a due passi dal letto, lui. Colpevole. Responsabile di tutto. Un predatore. E così, atterrito e paralizzato dal dolore, aveva lasciato cadere a terra il lembo di quella camicia, aveva chinato il capo e aveva chiesto perdono e aveva giurato che mai più, mai più, mai più.
 
L’aveva coperta senza guardarla.
Lei l’aveva lasciato fare senza protestare.
Le aveva confessato il suo amore.
Lei non aveva detto niente. Ma piangeva.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Niente, Oscar.
Non voglio dimostrare più niente.
Ormai.
 
Si spogliò.
Si fece la barba usando lo specchio solo per vedere porzioni del suo volto, non sopportava di vederlo nella sua interezza.
Si lavò e si vestì.
Uscì chiudendo piano la porta e si avviò verso l’ingresso.
 
Intravide sua nonna indaffarata a preparare la colazione al tavolo della cucina e accelerò il passo per non farsi vedere. Ma poi, appena superata la porta della cucina, si fermò e tornò indietro:
“Ciao, nonna, come stai stamattina?” Avrebbe voluto abbracciarla, anzi essere abbracciato da lei e sentire che era tutto come prima. Lei tenendo gli occhi fissi sull’impasto che le sue mani esperte massaggiavano con forza gli rispose:
“André, ma che ci fai qui? Muoviti che madamigella è già uscita! E non ha fatto colazione! Ah come si può iniziare la giornata a stomaco vuoto lo sa solo lei! Tieni, porta con te qualche biscotto”.
Lui aveva sorriso di commozione e di tristezza. Dio, nonna, se tu sapessi!
“Nonna, oggi c’è il rinfresco per l’addio di Oscar alle Guardie Reali, non credo di poterle portare i tuoi biscotti, ti pare?” forzò un sorriso.
“Va bene, va bene. Allora prendili tu, caro. E ora scusami, ma qui c’è tanto da fare. Su, su, vai!”
Si era avvicinato e le aveva dato un bacio sulla cuffia. Da quella mattina lui non aveva che quella donnetta energica.
 
Poi arrivò alla reggia, recuperò il cavallo di lei e aspettò che la festa fosse finita. Che lei uscisse da quella porta.
 
“André, vieni con noi a farti un goccetto? Ne avranno ancora per un bel po’!”, la voce di Jacques, l’attendente di Girodelle, lo destò dai suoi pensieri.
“No grazie, Jacques.”
“Cos’è, è troppo presto per te? Ah, io a un goccetto non dico mai di no”, e gli strizzò l’occhio.
André sorrise e lo lasciò andare: mentre Jacques si allontanava e veniva raggiunto da altri attendenti, André ne invidiò la leggerezza.
 
Lui invece si sentiva così pesante. Pensò che forse quella era l’ultima volta che avrebbe visto Versailles.
Rimase lì, immobile, con le briglie dei due cavalli in mano, mentre il suo pensiero vagava, confusamente e senza ordine nei ricordi di una vita. Ma erano tutti frammenti, immagini ferme di balli, di feste, di addestramenti, di corridoi silenziosi, di stucchi dorati, di vetri trasparenti, di fontane e di giardini, di gioielli, parrucche, abiti dalla forma talmente esagerata che spesso ne aveva riso.
Pensò che non ne avrebbe sentito la mancanza.
Pensò che non avrebbe più rivisto la famiglia reale.
Pensò che la regina che giocava a fare la contadina non gli piaceva. Non gli era piaciuta nemmeno la giovane regina alle prese con la moda, ma ora non riusciva ad essere indulgente. Quello che una volta le perdonava senza grande sforzo, adesso lo vedeva come un’offesa al popolo francese. Eppure c’era stato un tempo in cui anche lui aveva provato ammirazione per quella giovanissima principessa che veniva dall’Austria…
E poi, in una ovvia concatenazione di associazioni nei fili della memoria, lo assalì il ricordo che non voleva ricordare: la principessa su un cavallo impazzito lungo il Grand Canal e lui, a terra, trascinato tra la polvere da quell’animale ormai senza controllo, lui che cerca di non lasciare le redini e lei, lei, Oscar, che alla fine, eroicamente ferita, salva tutti.
Oscar che lo prende in giro, sdraiata a letto convalescente per la ferita al braccio, che lo prende in giro davanti a Fersen. Oscar che regala sorrisi a Fersen.
Fersen che non se ne è nemmeno accorto, di quei sorrisi.
Lui invece fa collezione, di quei sorrisi.
 
E li rivede, anche quelli alla rinfusa, senza ordine, ma tutti nitidi:
“Adesso puoi aprirla, Oscar” dice sua madre con dolcezza.
E lei appoggia sulle ginocchia quella grande scatola color carta da zucchero e poi, con emozione, solleva un poco il coperchio solo dalla sua parte, cosicché lui, che le è di fronte, non può vedere che cosa contiene quella scatola, ma la vede guardare dentro e poi illuminarsi e vede il sorriso che nasce sul suo volto e vede che i suoi denti, così bianchi, appena appena si scoprono, e poi lei fa volare il coperchio e, estraendo un copricapo nero con le piume bianche, gli dice entusiasta:
“Guarda! Guarda, André!”
E lui le sorride, poi va a raccogliere il coperchio da terra e le dice:
“Tienila questa scatola, Oscar. È così bella”.
 
E poi rivede le risate.
Eccola lì, tutta stretta nella sua uniforme rossa, una sera che erano andati a Parigi solo loro due e lei era così triste, dio così triste! Ma poi, alla prima birra, lei si era sporcata con la schiuma e le erano venuti due bei baffoni e allora lui, rapido come una saetta, era scattato sull’attenti davanti a lei, si era portato la mano tesa alla fronte e tutto serio aveva scandito:
“Agli ordini, Generale Bouillé!” e avevano riso fino a farsi venire mal di pancia.
 
E ancora i sorrisi, tanti. Solo per lui: quelli della buonanotte, quelli del buongiorno, quelli abbozzati mentre è concentrata al pianoforte, quelli orgogliosi quando lui la stupisce con qualche prodezza o quando l’allenamento con la spada le è piaciuto, quelli riconoscenti di quando la nonna lo sgrida al posto suo, quelli tristi di quando sembra dire “Se non ci fossi tu, André” e quelli…
 
“Ehi, André! Sei ancora tra noi? Dio, ma come fai a stare lì da due ore? Non sei congelato?”
“Jacques…”
“La festa è finita, io vado dall’altro lato della caserma a prendere il cavallo del mio padrone. Ci si vede in giro, amico, magari ci facciamo una birra una di queste sere, che dici?”
“Certo, certo… grazie…”
Lo vide sparire dietro al colonnato e sentì in lontananza la sua voce allegra che chiamava un altro attendente.
 
Poi André rimase da solo, nel silenzio.
 
Una strana calma, a dispetto di tutto, si impadronì di lui al pensiero di rivederla: ogni cosa in quella mattinata apparentemente normale convergeva lì, su quel piazzale dove tra poco si sarebbero incontrati. Solo loro due lo sapevano. Tutto quello che avevano vissuto dalla sera prima, risvegli, parate, ringraziamenti, corse al galoppo, saluti e strette di mano, tutto, tutto era solo l’attesa di quel momento. Lo sapeva lui e lo sapeva lei. E la mossa ora spettava a lei, lui non poteva chiedere nulla, non poteva dire nulla. Ma era lì. Questa era la sua mossa.
 
Si aggiustò la giacca, controllò con una rapida occhiata i cavalli, tolse le coperte dalla groppa, prese le briglie e tornò al presente. Solo al presente, a quel momento, a quel luogo. Chiuse a chiave in fondo al cuore quello che era successo la sera prima e si preparò a rivederla.
 
Che cosa vuoi dimostrare, André?
Che qualcosa ci lega.
Che qualcosa ci ha sempre legato, amore mio.
 
Poi sentì la porta aprirsi e capì che l’avrebbe rivista.
Pochi passi e un abisso tra loro.
   
 
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