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Autore: holls    09/12/2021    7 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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13. Predatori della notte

 

 

 

Bussai un paio di volte e il professore mi fece cenno di entrare. Era un uomo sulla cinquantina, brizzolato, occhiali sulla punta del naso per leggere il giornale che stringeva tra le mani. Come mi vide, lo chiuse subito e mi fece cenno di avvicinarsi.

«Hayworth, vieni.»

«Voleva vedermi?»

Lui mi indicò la sedia dall'altro lato della scrivania.

«Sì, siediti.»

Feci come mi aveva suggerito e presi posto di fronte a lui. Mi metteva un po' in soggezione, perché aveva un cipiglio che mi ricordava quello di mio padre. Ero così teso che mi dimenticai di togliere la tracolla e poggiarla per terra.

«Come sta andando lo studio sulle materie plastiche?»

«Abbastanza bene. Spero di mettermi in pari questo pomeriggio.»

Lui sembrò compiaciuto e pregai che non mi facesse qualche domanda più approfondita.

«Ottimo, sono contento. Ho dato un'occhiata per la borsa di studio e dovresti rientrarci. Peccato per quell'esame che ti ha rovinato la media, ma con questo seminario dovresti farcela a ottenere il punteggio che ti serve.»

«Dice? Non sa che sollievo.»

«Quello che ti penalizza è la tua situazione economica. Di fatto, rientri ancora nel reddito della tua famiglia e questo ti fa scendere nella graduatoria.»

«Lo so. Sarà un miracolo se riuscirò a rientrarci.»

Lui mi fece una strizzatina d'occhio.

«Sarà così, fidati. Sei uno dei miei studenti più bravi e a me piace premiare il merito.»

In quelle parole, lessi tutto l'orgoglio che il professore provava nei miei confronti. Io cominciavo, però, a sentire il peso degli studi sbagliati e, se inizialmente riuscivo a stare al passo, spinto dall'entusiasmo, in quel periodo stavo cominciando a perdere colpi. Ryan non era più disposto ad aiutarmi, le formule chimiche sembravano fatte apposta per complicarmi la vita e avevo sempre più difficoltà a memorizzare nomi tutti uguali.

«Grazie, professore. Farò del mio meglio per non deluderla.»

«Se hai dei dubbi su qualche argomento, scrivimi pure. Ti riceverò appena posso.»

«Grazie, davvero.»

Tornò a guardare le scartoffie sul tavolo, poi tornò a guardarmi come colto da un'illuminazione.

«A proposito: sai qualcosa del tuo amico Goldwin?»

Impiegai qualche attimo a capire che stava parlando di Ryan. Per un attimo ripensai ai suoi occhi, quegli stessi occhi con cui mi ero scontrato il giorno della rapina, e pregai affinché non si trattasse di quello.

«Riguardo a cosa?»

Il professore strusciò le dita sulla tempia.

«Ha avuto un calo vistoso del rendimento. Inoltre, ho visto che anche lui ha fatto richiesta per la borsa di studio.»

Tirai un sospiro di sollievo.

Erano tutte cose che già sapevo, ma mi meravigliò che il professore si fosse preso così a cuore la questione, pur essendo un uomo squisito sotto quel punto di vista. L'insegnamento era la sua vocazione e si dedicava ai suoi allievi come fossero figli; allo stesso modo, però, disprezzava quelli che non avevano voglia di impegnarsi, definendoli delle sanguisughe parcheggiate lì dai genitori.

«Sì, purtroppo ho notato anch'io. Ho provato a parlargli, ma è diventato molto scontroso. Non ho davvero idea di cosa gli sia successo.»

Nel dire quelle parole, mi tornò alla mente il modo con cui mi aveva sbattuto al muro due giorni prima. La testa mi aveva fatto male e avevo ancora un po' di dolore, ma me l'ero tenuto per me. L'unica cosa che mi interessava era riuscire a parlare con Ryan, capire perché si fosse invischiato in un giro come quello; le premure degli altri non mi interessavano.

«Un vero peccato, era un bravissimo studente.»

Mi domandai quando sarei riuscito a scoprire qualcosa su di lui. Sapevo che non sarebbe stato niente di piacevole, ma ero determinato ad andare fino in fondo.

Il professore, intanto, si sfilò gli occhiali e li poggiò sul tavolo.

«Puoi andare, Hayworth. Volevo solo tranquillizzarti sulla borsa di studio, visto che me lo avevi chiesto più di una settimana fa e me ne ero completamente scordato.»

Porsi la mano al professore.

«Non si preoccupi», risposi, poi lui afferrò la mia mano e la strinse. «Grazie, arrivederci.»

«Arrivederci a te, Hayworth.»

 

Uscito fuori da quella stanza, tirai un sospiro di sollievo. Ero veramente con l'acqua alla gola e il lavoro al mini­market bastava a malapena a pagarmi l'affitto. Avevo chiesto un prestito come gran parte degli studenti, ma la borsa di studio avrebbe diminuito, almeno in parte, il debito che avrei dovuto pagare nei decenni successivi.

Mi avviai fuori dall’edificio e cominciai a percorrere il sentiero acciottolato che dava verso la strada, ma proprio in quel momento intravidi Ryan, seduto sul prato circostante col cellulare in mano. La testa tornò a dolermi rapidamente. Avrei voluto avvicinarmi e dirgli qualcosa, ma cosa? Volevo delle spiegazioni sulla rapina, su chi era davvero il ragazzo che avevo visto quel pomeriggio, ma come avrei potuto affrontare l’argomento? Lo osservai mentre giocherellava col telefono, lo sguardo assente o forse era solo concentrato, chiuso nel suo mondo, mentre intorno a lui gruppetti di studenti andavano e venivano. Una ragazza per poco non inciampò accanto a lui, ma sembrò non rendersene nemmeno conto.

Con la coda dell’occhio intravidi un personaggio fin troppo conosciuto: Steve, l’ameba. Pregai in dieci lingue che non si girasse dalla mia parte ed ebbi fortuna. Seguì la fiumana di gente verso l’uscita e scomparve in mezzo alla calca.

Ryan mise via il telefono e io, d’istinto, feci un passo indietro. Raccolse la sua borsa, si guardò un attimo intorno e si incamminò verso i cancelli d’entrata.

Lì, notai Harvey. Lui alzò lo sguardo verso Ryan e pensai che si trattasse di un caso; poi lo vidi estrarre una sigaretta e darla al mio amico. Li osservai parlottare per un istante, il tempo forse di un saluto frettoloso, dopodiché Ryan si dileguò.

Non appena se ne fu andato, mi avviai verso Harvey, scansando le borse di qualche ragazza seduta sull’erba.

L’ultima serata con lui era stata una delusione e fui sorpreso dal trovarlo lì. Forse era un modo per rimediare.

Lo raggiunsi in poche falcate e lui tentò di salutarmi con un buffetto, che evitai per un soffio.

«Be’? È così che mi saluti?»

Allungai il collo nella speranza di scovare Ryan, ma era già andato via chissà dove. Si erano davvero parlati?

«Scusa. È che preferirei che non mi vedessero.»

«Con me?»

Dall’altro lato della strada, mi sembrò di scorgere la sagoma del mio amico, ma non appena si voltò mi resi conto che non era lui.

«Con un ragazzo.»

«Ah, capito. Allora andiamocene, che ne dici? Voglio farmi perdonare per l’altra volta.»

Spostai lo sguardo su Harvey, che attendeva una mia risposta, mentre ancora pensavo al mio amico, tanto che la sua ultima frase entrò e uscì dal mio cervello senza quasi che me ne accorgessi.

Alla fine mi rassegnai e annuii. Con ogni probabilità, Ryan era già a miglia di distanza dall’università e per quel giorno non l’avrei sicuramente rivisto.

 

Infilammo in uno dei tanti parchi di Manhattan. Mi lasciai trascinare da lui e dalle sue chiacchiere, tanto da non capire nemmeno più in che parte di mondo fossimo. Notai che il suo viso sembrava meno scavato rispetto alle ultime volte che lo avevo visto. Sembrava brillare di luce propria e lo trovai affascinante.

Davanti a noi passò un ragazzino con una limonata; mi voltai verso Harvey e gli sorrisi.

«Ti ricordi di quel tipo che me l’ha rovesciata addosso?»

Harvey rise di gusto.

«Me lo ricordo sì. Con quegli occhioni mi hai implorato di pulirti… Non vedevi l’ora che ti mettessi le mani addosso.»

«Esagerato, mi hai solo infilato una mano sotto la maglia per pulire meglio.»

«Sì, certo. E dopo cos’è successo?»

Arrossii di colpo e sentii un brivido percorrermi il basso ventre.

«Dai, smettila.»

«’Non sono mai stato con un uomo. Fai piano’. Eri così carino, così innocente. Sapevi a malapena come prenderlo in mano.»

«Harvey!»

La scena mi tornò in mente con prepotenza e a malapena riuscivo a guardarlo negli occhi. Alla fine quella sera non accadde niente di che, se così si poteva definire la mia prima volta, ma era imbarazzante che lui se lo ricordasse così bene. Ero totalmente imbranato e le figuracce che avevano seguito quell’evento mi tornarono alla mente una per una. 

«Scusa, dai. Sei diventato proprio un bel ragazzo. Bello e sexy. E io sono davvero fortunato ad averti.»

Mi cinse il fianco e mi lasciò un bacio sulla guancia, mentre incrociavo lo sguardo di un passante. Quelli erano occhi di disgusto ed ero quasi certo che si fosse voltato un altro paio di volte, anche se non potevo esserne sicuro.

Svoltammo in una stradina appartata, poi mi spinse verso il muro e mi soffocò con un bacio. Dapprima fu impetuoso e sentii la sua barba strusciare contro la mia pelle a ogni movimento che faceva; poi premette con meno foga e io ebbi il tempo di respirare tra un contatto e l’altro. Mi infilò la lingua in bocca e la unì ritmicamente con la mia, regalandomi scariche di un piacere che non provavo da tempo. 

Smettemmo di baciarci soltanto quando il mio stomaco emise un certo languorino, che provammo a ignorare, ma che protestò più forte di prima.

«Non ti bastano i miei baci per saziarti?»

Sorrisi, il suo corpo ancora avvolto nella mia stretta.

«Mi piacerebbe, ma ho ancora bisogno di cibo per sopravvivere.»

«Che peccato», rispose e fece scendere una mano sulle mie natiche. «Chissà cosa avremmo potuto fare in questo vicoletto...»

Picchiai la sua mano e la cacciai via con fare scherzoso.

«Sei un maniaco, non te l’ha mai detto nessuno?»

«Solo un ragazzo fantastico e che mi fa impazzire.»

Poi portò di nuovo le sue labbra sulle mie e le riempì di piccoli baci. 

«Va bene, andiamo a mangiare.»

Mi prese per mano e tornammo nuovamente nel mondo reale. Se non avessi avuto un altro, martellante pensiero per la testa, avrei scrutato gli sguardi della gente in cerca di quella disapprovazione che leggevo negli occhi di tutti. Tuttavia, in quel momento, c’era qualcosa di ben più grande di cui preoccuparsi: sebbene fosse un’ipotesi molto, molto remota, il bacio che avevo dato ad Alan poteva avere conseguenze che non avevo programmato.

 

Presi un pezzo di pizza al taglio e Harvey cominciò a parlarmi del fatto che era arrivato a Manhattan da poco e che stava cercando un appartamento decente. In mezzo a tutti quei discorsi, anche se solo nella mia testa, c’era finito pure Oliver e il casino che potevo aver combinato nel baciare Alan in una fase così delicata della sua vita. Era stato solo un gioco e lo sapevamo entrambi, ma come potevo essere certo di non aver generato in lui una crisi depressiva perché le sue labbra erano state violate da un ragazzo che non gli interessava nemmeno?

Harvey mi disse che aveva trovato un piccolo bilocale a una cifra abbastanza modica, ma che aveva intenzione di trovare un posto più bello e di trasferirci insieme lì, quando sarebbe giunto il momento.

Mi raccontò che aveva trovato quel posto grazie a un amico che avevamo in comune e, in maniera del tutto inaspettata, scoprimmo che era proprio Ryan, che aveva incontrato in uno dei suoi recenti viaggi in giro per gli Stati Uniti.

«Quindi voi due vi conoscete?»

Harvey annuì mentre aggrediva con un morso la sua pizza ai wurstel.

«Questa è bella. Ecco perché vi siete salutati, prima.»

Deglutì il suo boccone e si asciugò la bocca.

«’Prima’ quando?»

«All’entrata dell’università.»

Harvey ci pensò un attimo, che ben presto diventarono due, poi tre. 

«Ah, sì. Hai ragione.»

«Vi conoscete da molto?»

Lui ridacchiò e si avvicinò al mio orecchio.

«Cos’è, fai il fidanzatino geloso?»

«Sono io che faccio domande, ora.»

Harvey mi rivolse un’occhiata di sfida, che ben presto divenne sensuale. Chissà cosa si era immaginato.

«Wow, dai pure ordini, adesso.»

Addentò nuovamente la pizza, masticò ben bene e buttò giù. Io lo osservavo a braccia incrociate.

«Vi conoscete da molto o no?»

Soffiò fuori l’aria in un gesto di stizza, poi portò gli occhi al cielo, pensoso.

«Sì e no. È un amico di amici, quindi un po’ ci conoscevamo e un po’ no, hai presente? Poi alla fine basta parlarsi una sera e sembra di conoscersi da una vita.»

No, in realtà non ‘avevo presente’ e non era la risposta che mi aspettavo, ma ero stufo di fare domande e soprattutto di apparire davvero come il fidanzatino geloso e ossessivo. Pensai, però, che forse Harvey avrebbe potuto fornirmi qualche dettaglio su Ryan che mi era sfuggito fino a quel momento; avrei potuto anche chiederglielo esplicitamente, ma non ero sicuro che fosse una mossa saggia, almeno non in quel momento.

«Comunque, che te ne pare del nostro progetto di vita insieme?»

«Interessante», risposi di getto.

«Così possiamo guardare insieme tutti i film che vuoi, come ai vecchi tempi.»

«Ho visto più film in quel periodo che in tutta la mia vita.»

Harvey rise, poi bevve un sorso di Coca.

«Vedi? Le litigate con tuo padre sono servite a qualcosa.»

A farmi diventare un cinefilo, sì. Evitai di commentare quell’affermazione.

«Crede ancora che tu sia un ‘deviato di merda’?»

La gola mi si chiuse all’improvviso e per poco non mi andò di traverso la saliva. La pizza che tenevo in mano divenne troppa da mandar giù.

«Potremmo parlare d’altro?»

«Nathan», bisbigliò, e si avvicinò a me, che intanto avevo posato la pizza. «Se continui a fare così, sarà come avergliela data vinta ogni volta. Devi imparare a mandarlo a fanculo e a tagliare tutti i ponti con lui.»

«Ma non è questo quello che voglio.»

«E cosa vorresti? Fare pace con lui? Sei proprio un ragazzino ingenuo.»

Lo stomaco mi si chiuse e sentii un po’ di acidità. Harvey mi osservava con quel suo solito sguardo di chi ha la verità in tasca per ogni cosa, anche di situazioni che non lo avevano mai riguardato.

«Primo: non sono un ragazzino; secondo: non sono ingenuo; terzo: non pensare di venirmi a dire cosa devo o non devo fare.»

Non seppi mai quale fu la sua vera reazione, perché cominciai a fissare l’olio che galleggiava tra le valli di mozzarella; mi accorsi però che non disse più nulla, forse pentito o forse scocciato da quella conversazione.

«Sei proprio un ometto, sì. Non è rimasto molto dell’adolescente che ho conosciuto.»

Possibile che mi ritenessero tutti più vicino allo svezzamento che alla maggiore età?

«Ti ricordo che da quest’anno posso ufficialmente comprare alcolici.»

«Ah, giusto. Stai attento a quello che fai, allora.»

Harvey voleva l’ultima parola e decisi di dargliela. Avrei voluto rispondergli in mille modi, ma fu più saggio tapparmi la bocca con quella pizza unta come poche. 

Harvey ricevette una telefonata e lo vidi tirar fuori un cellulare vecchio modello, grosso e con lo sportellino a nascondere i tasti; mi stupì il contrasto tra i bei vestiti che indossava e quel modello di cellulare così antiquato. Rispose alla chiamata e subito dopo si alzò per andare in bagno.

Rimasi solo con la mia amarezza e sbirciai la coppia che sedeva al tavolino accanto a me. Lui aveva la barba rasata in modo irregolare e un sorriso rivelò denti che non vedevano uno spazzolino da secoli; lei aveva lo sguardo spento, le guance incavate e parlava come fosse inebetita.

Voltai la testa dall'altra parte e mi si presentò uno spettacolo del tutto simile. Facendo vagare lo sguardo all'interno del bar, mi accorsi che la scena si ripeteva. Quel posto era solo un cumulo di vite spente e sorrisi macchiati; mi sentivo l'unico essere vivente in mezzo a quegli zombie.

Diedi l'ultimo sorso alla lattina di Coca e mi diressi verso il cestino per buttarla. Come affondò tra i rifiuti, però, notai qualcosa di familiare. Infilai la mano nella spazzatura e cercai di farmi strada toccando meno schifezze possibili, finché non arrivai a ciò che cercavo. Era pieno di chiazze d'olio e grumi di pomodoro, ma era esattamente quello che pensavo: un pezzo di carta con un simboletto senza significato seguito da coppie di parole, numeri, date e luoghi, scritti a mano.

Lo presi a malapena con due dita e lo posai sul bancone, davanti al barista, l'unico che sembrava più sveglio degli altri - quantomeno, non aveva lo sguardo perso.

Mi schiarii la voce per richiamare la sua attenzione.

«Scusa, per caso hai mai visto un bigliettino simile?»

Lui osservò prima il foglietto, poi me. Forse cercava di farmi sentire in soggezione perché avevo appoggiato quel lerciume sul suo bancone?

Continuò a guardarmi, poi prese un bicchiere dal sottobanco e si avviò verso un asciughino, ignorandomi.

«Scusa, ti ho fatto una domanda.»

Lui tornò indietro, senza distogliere gli occhi dai miei.

«Fai sparire quella roba.»

«L'hai mai visto o no?»

«Ti ho detto di farlo sparire.»

Come fosse un gesto istintivo, presi un tovagliolino e ci arrotolai dentro il bigliettino, poi me lo ficcai in tasca.

Non esattamente la cosa più igienica, ma quella faccenda cominciava a incuriosirmi.

«Vieni a riprenderti il pupo, va'.»

L'uomo al bancone alzò gli occhi oltre di me, così mi voltai e notai Harvey. L'uomo al bancone cominciò a fissarlo, ma mi sembrò di cogliere uno sguardo parlante. Scattai allora verso Harvey; tuttavia lui sapeva come insabbiare verità scomode, per cui me lo ritrovai sorridente a darmi una pacca sulla spalla, mentre si rivolgeva all'uomo.

«Scusa se ti ha dato fastidio. Forse è meglio andare.»

Mi guardai intorno un'ultima volta. Le persone in quel bar mangiavano appena e facevano frequenti soste in bagno. Sarebbe stato curioso entrare e confrontare gli accessi con gli sciacquoni tirati; forse non sarei rimasto tanto sorpreso dal risultato.

Gettai un'occhiata ad Harvey.

Quanto sapeva di quella situazione? Lui sembrava così diverso da quel branco di vegetali, eppure sentivo che mostrargli il bigliettino non era una buona idea. L'occhiata che si era scambiato con l'uomo non mi era piaciuta, sembrava quasi che avessi camminato su un terreno in cui non mi era permesso mettere piede.

Osservai Harvey e mi sembrò una melodia con qualche nota stonata ogni tanto: bella nel complesso, ma problematica nel dettaglio.

 

Si offrì di pagare tutto e io non me lo feci ripetere due volte. Uscimmo dal locale e lui provò ancora a tenermi per mano, ma io avevo troppi pensieri in testa per capire che stava cercando di scusarsi.

«Perché non chiudiamo in bellezza con una seratina ​Natharvey, come ai vecchi tempi?»

«Non mi va di pensare ai ‘vecchi tempi’, scusa. Poi stasera non ci sono.»

Ed era vero, dovevo passare da casa, su richiesta di mia madre. Sapevo già che sarebbe stata una brutta serata. 

E poi, quel nomignolo mi dava sui nervi.

«Va bene, come preferisci.»

«Comunque, ho voglia di fare qualcosa di nuovo. Frequenti qualche locale, qualche corso?»

«No, niente. Almeno per ora.»

«Non fai niente oltre a lavorare?»

Harvey mi rivolse una risata canzonatoria, come se il povero, piccolo Nathan non potesse capire.

«Per il momento, no. Ma potremmo fare qualcosa insieme.»

In quel momento, l’unica cosa che avevo voglia di fare era fumarmi una sigaretta. Lo feci non senza un po’ di pentimento, perché ero fuori orario e avrei sforato di sicuro la mia quantità giornaliera, ma ero nervoso, molto.

Harvey si voltò verso di me e mi lanciò un’occhiatina divertita. Capii solo dopo qualche secondo che era compiaciuto delle mie cattive abitudini, come se io fossi stato una sua creatura, qualcuno che aveva plasmato a sua immagine.

Forse in parte era vero, ma non riuscivo a vederla così, o forse non volevo.

 

Passammo insieme tutto il pomeriggio e mangiammo un panino al volo. Mi portò poi in una strada al riparo da occhi indiscreti e mi salutò con un bacio appassionato, che sortì l’effetto che Harvey sperava. Mi lasciò con un sorriso e io feci altrettanto, ma era finto.

Il mio sorriso era finto.

Quando ebbe svoltato l’angolo, mi accesi un’altra sigaretta.

 

Harvey era un ciclone che mi stava travolgendo. 

Era questo che pensavo mentre camminavo su per le scale della metro e poi fuori, in superficie.

C’era qualcosa che non stava andando come avevo progettato, come se la mia storia con lui stesse correndo troppo velocemente, ma era un pensiero che non aveva senso. Eravamo allo stesso punto di tre anni prima, ma forse il problema era proprio quello: stavamo cercando di ricostruire ciò che era stato, di ripartire da dove avevamo messo in pausa, senza capire che gli attori del film erano cambiati e che il copione andava riscritto.

A me non dispiaceva stare con lui, ma sentivo qualcosa di profondamente sbagliato. Non era lui, non ero nemmeno io: eravamo ​noi. C’era qualcosa, in quella sceneggiatura, che stonava, qualcosa che mi impediva di sognare il nostro prossimo incontro o di desiderare nient’altro che stare con lui. Forse avremmo dovuto ricominciare da capo, forse avevamo sbagliato a correre così.

Non seppi trovare una risposta a quel vento controcorrente che soffiava sui miei sentimenti per lui.

Non in quel momento, almeno.

 

Era la terza sigaretta fuori programma e non era un bene. Da dov’ero, riuscivo a vedere benissimo quella che, fino a qualche anno prima, era stata casa mia. Due piani, intonaco bianco, tetto spiovente. Proprio una bella casa, sì. 

Schiacciai il mozzicone con la punta del piede e fui tentato di accendermi un’altra sigaretta, ma l’ennesimo colpo di tosse mi convinse che non era una buona idea. 

Papà sicuramente non c’era, altrimenti mia madre non mi avrebbe mai chiesto di passare, ma ogni volta mi metteva su di giri. Sperai che fosse solo una di quelle visite che facevo più per fare un favore a mio fratello, dato che stavo sempre sul chi vive.

Mi guardai intorno e osservai le macchine parcheggiate nei dintorni, poi gettai un’occhiata anche al garage: via libera. Attraversai la strada e, dopo aver dato un’occhiata alle auto in arrivo, buttai un occhio sulle finestre, ma non vedevo nessun movimento all’interno.

Giunsi davanti al portone e, senza troppi ripensamenti, suonai. La porta si aprì per quanto consentito dalla catena, poi si richiuse e trovai mia madre ad accogliermi con un grande sorriso.

«Nathan, tesoro!»

Prese il mio viso tra le mani e lasciò un bacetto affettuoso sulla guancia. Dietro di lei, seduto sul tappeto del soggiorno, c’era mio fratello impegnato a giocare con macchinine e trenini. Guidava una locomotiva con la mano e imitava il rumore del fumo soffiato fuori, ma, non appena mi vide, mollò tutto e corse verso di me.

«Fratellone!»

Lasciai che il suo abbraccio si scontrasse con le mie ginocchia. Io abbassai lo sguardo e gli carezzai appena la testa, poi accennai a muovermi e Jimmy mollò la presa. Mossi qualche passo verso mia madre, perché ero certo che volesse dirmi qualcosa, ma fui arrestato dalla manina di Jimmy nella mia.

«Vieni a giocare con me?»

Mi guardava con occhi speranzosi e buttai un occhio al trenino e ai soldatini sparsi per il tappeto. Mi liberai dalla sua presa, gesto che già gli fece intuire la mia risposta.

«Ora non mi va, Jimmy.»

Lui si aggrappò alla mia maglietta.

«Dai, ti prego!»

Mi girai di scatto e lui staccò i suoi pugnetti.

«Ti ho detto che non mi va!»

Osservai il suo sguardo cadere sempre più in basso e il suo sorriso svanire in una frazione di secondo. Abbassò il braccio e camminò verso il tappeto, sul quale si sedette subito dopo. Afferrò una locomotiva e cominciò a farla viaggiare su binari immaginari, ma non simulava nessun suono con la bocca, né sembrava preoccuparsi delle carrozze che franavano per delle curve troppo ardite. Spiaccicava i soldatini e lasciava che il treno si bloccasse, senza pensare che avrebbe potuto spostarli o far fare al mezzo un altro giro.

Mia madre mi fece cenno di seguirla in cucina e, quando fummo nella stanza, accostò un po’ la porta, perché Jimmy non ci sentisse.

Non appena fummo da soli, però, lessi sul suo viso una nota di rimprovero.

«C’era proprio bisogno?»

Soffiai. A quanto pare, ero venuto per farmi fare la predica. Io non risposi.

«Ti costava così tanto fare due giri con il suo trenino?»

Incrociai le braccia e spostai lo sguardo altrove, ma due dita sul mento lo riportarono dritto davanti ai suoi occhi, che pretendevano una risposta.

«Non ho voglia di giocare con lui.»

Osservai i suoi occhi infuocarsi e in quel momento rimpiansi la mia vita solitaria, lontana dalla famiglia.

«Cosa credi, che io avessi voglia di svegliarmi ogni notte per dargli il biberon? O perché si era fatto la pipì addosso? Te lo dico io: non avevo voglia, ma l’ho fatto. E sai perché? Perché sono un’adulta!»

Avevo ancora le braccia incrociate, ma avevo perso il coraggio di distogliere lo sguardo.

«A volte ci sono cose che non abbiamo voglia di fare, ma le facciamo lo stesso. Quello là è tuo fratello, Nathan, e tu sei un adulto. E guardami, quando ti parlo!»

Mi prese nuovamente il mento tra due dita e lo strattonò ancora verso di lei.

«Se sei abbastanza adulto per guidare la macchina e fumare le sigarette, allora lo sei anche per giocare con tuo fratello.»

Continuai a guardarla solo perché non volevo che mi strattonasse di nuovo. Non le avevo mai detto che fumavo, ma era impossibile che non se ne fosse accorta e io avrei dovuto saperlo. Sentivo che l’avevo delusa. Era una scemenza, ma nei suoi occhi leggevo rassegnazione, come se ormai fossi un figlio degenere che si cercava di non far tracollare troppo in fretta.

Sentii il suo affetto scivolare via piano piano, avvertii in quegli occhi un mero rimprovero e non un consiglio da madre a figlio. Lo sguardo mi scivolò sui piedi, ma mia madre non intervenne, forse perché dovevo essere abbastanza adulto per farlo da solo.

Ascoltai il rumore dei soldatini spiaccicati, sempre più sporadico, e feci per riaprire la porta. Mia madre mi prese per un polso, senza stringere e, quando mi fui voltato, usò quella stessa mano per carezzarmi la testa.

«Voglio solo che la nostra famiglia sia unita, Nathan. Ne abbiamo già passate tante, non mettertici anche tu.»

Aspettai qualche secondo, ma mia madre non aggiunse altro. Immaginai che la predica fosse finita, ma poi mi fermò ancora.

«Aspetta. Questi sono per te.»

In mano aveva qualcosa come trecento dollari, che allontanai.

«Non servono, mamma, davvero.»

Servivano eccome, ma avevo imparato a cavarmela da solo. Provai ad andarmene, ma sentii il pacchetto di sigarette sfilato dalla tasca: stava infilando i soldi lì dentro. Me lo rese e mi sentii ancora in imbarazzo per essere il figlio che non avrebbe voluto che fossi.

«Adesso vai di là, ti sta aspettando.»

Annuii appena e ringraziai, poi tornai in salotto, da Jimmy.

 

Era ancora disteso sul tappeto, con in mano la locomotiva che ormai guidava controvoglia e che si divertiva a far capovolgere a ogni incontro coi soldatini. Mi avvicinai e aspettai una sua reazione, che non arrivò. Mi sedetti allora accanto a lui, che semplicemente alzò gli occhi su di me, per poi riabbassarli subito dopo. Aspettai un po’, nella speranza che mi passasse qualche gioco e si inventasse una storia, ma non era così semplice. Ripensai allo sguardo deluso che aveva avuto poco prima e capii che ero un ingenuo, se pensavo di poter risolvere tutto solo sedendomi al suo fianco.

«Mi fai giocare con te?»

Jimmy continuò a far inciampare la sua locomotiva, come se non mi avesse nemmeno sentito.

«Jimmy?»

Ci fu un balzo nel volume del fumo che usciva dal trenino e capii che non solo mi aveva sentito, ma che mi stava pure ignorando.

Allungai una mano per prendere un soldatino, ma Jimmy afferrò tutto il treno e me lo lanciò sulla mano.

«Ahia! Ma sei matto?»

Mi tastai la mano e finsi di essermi fatto male, ma non scatenò in lui alcuna reazione. Si limitò a rimettere a posto le carrozze e a far ripartire il trenino.

«Sto parlando con te! Non si tirano i trenini, capito?»

Alzò la manina dalla locomotiva e mi spintonò un ginocchio.

«Fai così solo perché te lo ha detto la mamma. Non te ne importa niente di giocare con me.»

«Non è vero.»

Aveva ragione, ma ero adulto e dovevo fare qualcosa per sistemare quella situazione.

«Poi tu non sei il mio vero fratellone.»

«Che vuol dire?»

Temetti subito che mio padre gli avesse messo in testa idee strane. Non mi importava molto di quello che pensava Jimmy, eppure ero teso e cominciai ad avere il sentore di essere diventato un nemico anche per lui.

«A scuola nessuno ha un fratello così grande. Vanno tutti alla scuola per i grandi, ma non sono come te.»

Immaginai che volesse dire che gli altri fratelloni non erano così “-oni” come me. Comprensibile.

«Non è colpa mia.»

Jimmy non rispose. D’altronde, non era un discorso che avrei affrontato con un bambino di cinque anni, quindi andava bene così. Provai di nuovo ad allungare la mano per afferrare un giocattolo, ma lui me la picchiò. Non finsi nemmeno che mi avesse fatto male, perché non era lui in torto.

«Vai via. Non ti voglio!»

Aggiunsi Jimmy alla lunga lista di persone che non mi volevano più. Mi feci i complimenti per averne trovata un’altra. Osservai il trenino e i soldatini, Jimmy e l’enorme muro che ci separava. Non riuscivo a far felice nemmeno un bambino di cinque anni, questa era la verità. Non c’era una sola persona sulla Terra a cui potessi essere utile: avevo deluso mio padre, lo stavo facendo anche con mia madre, benché cercasse di non arrendersi all’evidenza, e ora l’avevo fatto anche con mio fratello.

Stavo seduto su quel pavimento a chiedermi perché, che cosa c’entrassi io con quelle persone che con me avevano in comune solo una parte del DNA. Quella casa un tempo era anche stata mia, ma il mio passaggio era stato cancellato, e veniva reclamato solo da mia madre soltanto perché sperava di veder andare d’accordo me e mio fratello. Forse avrei fatto a tutti loro solo un gran piacere se me ne fossi andato senza tornare mai più. Ben presto si sarebbero dimenticati di me e nessuno avrebbe sentito la mia mancanza. Forse sarebbe arrivato addirittura un altro fratellino, per fare compagnia a Jimmy. E, ufficialmente, la loro sarebbe stata una famiglia di quattro persone: io ormai non c’entravo più nulla.

Davanti ai miei occhi, vidi un fuciliere. Sotto, una manina che me lo porgeva. Jimmy era in ginocchio di fronte a me e mi stava offrendo uno dei soldatini su cui era passato più volte.

Nei suoi occhi c’era una richiesta di scuse e io mi domandai perché avrei dovuto complicare tutto non accettandole. Anche se controvoglia, avrei dovuto fare pace con lui, ora che ne avevo l’occasione.

Si alzò e fece un paio di passettini verso di me, poi mi lasciò un bacino sulla guancia. Doveva aver preso da nostra madre quella tenacia nel non rompere i rapporti; o forse, più semplicemente, era un bambino e gli era già passata.

Quanto sarebbe stato più semplice poter risolvere tutto con un soldatino e un bacetto sulla guancia?

Sorrisi a Jimmy e presi il giocattolo, poi mi distesi sul tappeto come aveva fatto lui e sperimentando una delle posizioni più scomode di sempre.

Mise tutto in posizione e mi indicò dove mettere il soldatino.

«Puoi giocare con me solo se ti fai schiacciare dal treno.»

Mi scappò una mezza risata e accettai. Lui riprese a muovere la locomotiva, imitando nuovamente il rumore del vapore. Nel momento in cui mi passò sopra, simulai un grido canzonatorio che lo fece divertire molto, così lo ripetei ancora e ancora, arricchendo il repertorio di frasi del mio personaggio.

Dopo che il povero fuciliere fu morto almeno una trentina di volte, proposi di risparmiarlo e di farlo diventare un semplice passeggero del treno. Jimmy accettò e fu entusiasta all’idea di condurre il soldatino alla stazione sbagliata o di fargli perdere il treno dopo un’estenuante corsa.

Sembrava contento e lo ero anch’io. Piano piano, smisi di giocare con lui per dovere e cominciai a farlo per piacere. Ripensavo al bacetto che mi aveva dato e all’affetto che nascondeva, ai suoi sentimenti puri e a come mi aveva accettato, anche se non ero un fratellone come quello di tutti i suoi amichetti. Non c’erano pregiudizi, solo fatti. Mi aveva rifiutato perché io ero stato cattivo con lui, solo per quello.

A un certo punto, si alzò in piedi e mi guardò serio.

«Adesso cambiamo gioco! Aspettami qui!»

Si alzò dal tappeto e, con quella sua corsetta sgangherata, si avviò su per le scale, verso la cameretta.

Da dietro, sentii i passi di mia madre nella mia direzione. Si accovacciò e dal suo sguardo capii già cosa voleva dirmi.

«Che succede?»

Sospirò.

«Torna tra dieci minuti. È stato un imprevisto, davvero.»

Ci guardammo senza bisogno di parlare. Voleva sapere cosa avevo intenzione di fare. Ci pensai un attimo, ma il mio cuore prese a martellare, distraendomi. Cercavo di convincermi che era meglio andarsene, ma in sottofondo sentivo gli schiaffi e una nebulosa di insulti, poi guardavo mia madre e speravo di sentirmi al sicuro, ascoltavo Jimmy che mi annunciava il suo arrivo e mi sentivo impotente.

Portò una mano sulla mia nuca e cominciò ad accarezzarla.

«Vai pure, mi invento io qualcosa con Jimmy.»

E proprio mentre diceva il suo nome, lo vedemmo venir giù con una riproduzione a misura di bambino di un deserto in cartapesta. 

«Non voglio dargli l’ennesima delusione. Sono un adulto, no?»

Mia madre non fece in tempo a ribattere che mio fratello era già arrivato da noi. Posò il deserto sul tappeto e mi accorsi che aveva portato altri soldatini. Forse era quello di cui avrei avuto bisogno io in quel momento: rinforzi. 

Sapevo come sarebbe andata a finire.

 

Ogni rumore secco mi sembrava un passo. Ogni suono metallico mi ricordava le chiavi nella serratura. Ogni voce portata dal vento mi sembrava la sua. E intanto Jimmy mi sgridava perché mi facevo sempre uccidere dai suoi soldati, così mi ero guadagnato l’appellativo di fratello stupido. Mi diceva di fare questo e quello, ma non arrivavo mai in fondo ai suoi discorsi, perché le allucinazioni uditive erano sempre in agguato. Proprio quando smisi di dar peso alla mia immaginazione e provai a concentrarmi sulla missione militare, ecco che i passi furono veri, le chiavi girarono davvero nella serratura e la voce che salutava la famiglia era proprio la sua.

Jimmy gli corse immediatamente incontro e, dal rumore, intuii che mio padre lo aveva abbracciato.

Sentii una morsa al petto e ripensai alle rare volte in cui l’aveva fatto con me; non era mai stato così generoso. Avvertii il gelo, nonostante fosse metà agosto. Gli occhi non mi si staccavano dal fuciliere nascosto dietro una duna. Era piccolo e inanimato, e in quel preciso istante avrei desiderato essere come lui. Sentivo gli occhi di Jimmy puntati su di me. Sentivo anche quelli di mio padre. Udii perfino il sospiro di mia madre che provò a dire qualcosa, senza successo.

«Che cazzo ci fa qui?»

Il suo disprezzo racchiuso in un’unica frase. Il suo disgusto nascosto dietro quell’occhiata schifata che mi stava rivolgendo. Avevo smesso di essere Nathan ed ero diventato solo un aborto.

«Sta giocando con me.»

Pensai di aver sentito male, ma non stavo giocando con mia madre. Osservai Jimmy e lo vidi sostenere lo sguardo di mio padre, senza mai abbassare gli occhi che, per quanto si spostavano, tradivano la sua paura.

«Bene, i giochi sono finiti. Fuori dai piedi.»

Avevo le gambe molli. Se mi fossi alzato in piedi, non avrebbero retto.

Sentii due dita afferrarmi per un orecchio e tirarmi su.

«Ho detto ‘fuori dai piedi’, chiaro?»

Mi tirai su da solo e lo vidi. I suoi occhi nei miei. Stavo tremando.

D’altronde, anche se non lo avessi fatto io, ci avrebbe pensato il battito del mio cuore, che non avevo mai sentito così forte.

«Lascialo stare!»

Osservai due piccole manine spingere sulle sue cosce, per allontanarmi da lui.

Mio fratello di cinque anni aveva più spina dorsale di me. Io mi sentivo un piccolo bruco, di quelli pelosi e bitorzoluti; e sentivo anche che mio padre mi stava schiacciando con la punta del piede, come si fa con un mozzicone di sigaretta, per essere sicuro di avermi spiaccicato ben bene sull’asfalto.

Mio padre afferrò Jimmy per un braccio e lo strattonò via.

Le braccia mi si mossero da sole e gliele sbattei sul petto. 

«Non sfiorarlo! Non ti permettere!»

Sentii un pugno arrivarmi dritto in faccia, il naso che mi doleva. 

«Smettetela subito! Basta!»

Mia madre era tra noi. Sostenni lo sguardo di mio padre finché lui non se ne andò verso il suo studio.

Il grido di Jimmy mi fece capire che avevo perso un po’ di sangue.

 

«Ti fa male?»

Mia madre mi infilò un bel pezzo di carta su per la narice.

«Un po’», risposi con una voce nasale che fece divertire mio fratello, che intanto si era accoccolato sulla mia coscia sinistra e sembrava non voler scendere.

«Ti aiuto io!»

Jimmy allungò le sue piccole dita sul tampone, ma spinse troppo ed emisi un gemito.

«Scusa! Scusa!»

«Tranquillo, non è niente.»

In verità faceva male da morire.

Nostra madre uscì dal bagno e Jimmy aspettò che se ne fosse andata per gettarmi le braccia al collo.

La sua stretta era il gesto più sincero che potessi ricevere in quel momento. Strinsi il suo corpicino tra le mie braccia e mi sorpresi di quanto potesse essere piccolo.

«Tu sei il mio fratellone e io ti voglio super­bene.»

«Anche io ti voglio super­bene.»

Sentii il suo pugnetto stringermi la maglia, così lo strinsi a me ancora più forte, carezzandogli la schiena.

«Quando torni da noi?» 

Ricordai il momento in cui avevo confessato tutto a mio padre, messo alle strette. Ero davanti al trofeo che avevo vinto alla gara di nuoto organizzato dalla scuola. Accanto alla coppa, c’era una piccola pallina bianca con le trame nere, di quelle da baseball; la raccolsi e mi girai verso di lui.

«Guarda che sono sempre lo stesso ragazzo di cinque minuti fa, sai?», provai a dire subito dopo aver sganciato la bomba. «Quello che viene a vedere il baseball con te e che tifa i New York Mets.»

Era stato in quel momento che avevo capito qual era la risposta alla domanda che mi ero fatto più e più volte, e che ora mi stava facendo Jimmy. Sarebbe stata la stessa risposta per il resto della vita, quella che non avevo il coraggio di dargli in quel momento.

«Non lo so, campione. Spero presto.»

Lui si accontentò e io mi sentii viscido per avergli mentito.

«Ma perché non puoi tornare?» 

Scrissi la verità nella mia testa e la trovai banale.

«È una cosa difficile da capire.»

Sì, per un bambino di cinque anni era decisamente difficile capire quanto potessero essere stupidi gli adulti. Se gli avessi detto la verità, ero certo che mi avrebbe risposto con un semplice: “E allora?”.

«Anche la mamma dice sempre così. Non puoi provare? Se poi non capisco, me lo spieghi quando sarò più grande.»

Ripensai a come lo avevo trattato qualche ora prima e al modo in cui lui mi aveva perdonato offrendomi il soldatino. Adesso era lì, sulla mia gamba, stretto nel mio abbraccio e desideroso di capire.

In quel momento mi resi conto, come molte altre volte, che essere gelosi del proprio fratellino di cinque anni era da pazzi.

«Diciamo che a me piace una cosa che papà odia.»

Lui mi guardava aspettando che continuassi; ma, quando si rese conto che avevo già finito, aggrottò le sopracciglia e il suo sguardo si perse.

«Non ho capito. È per questo che non stai più con noi?»

«Sì, è per questo.»

Fece ballonzolare le gambe e il suo sguardo si perse di nuovo, poi emise un mugolio pensoso.

«Non capisco. Cos’è che ti piace e che papà odia?»

Sapevo che saremmo arrivati a questo punto, ma non ce la facevo. Parlare sarebbe stato facile, ma non riuscivo a spiccicare parola, forse perché avevo paura che poi sarebbero cominciati i discorsi sulle fidanzatine, sulle api e sui fiori.

«Questo te lo racconto quando sarai più grande.»

«E perché?»

Gli passai una mano tra i capelli e provai a essere il più sincero possibile.

«Perché è una cosa che fa piangere il tuo fratellone.»

Il suo viso si rabbuiò, come se avesse avuto l’impressione di essere stato inopportuno; allora lo avvicinai al mio petto e lo strinsi forte, lasciandogli un bacio sulla testa per ogni secondo in cui avevo pensato di odiarlo.

 

Rimasi a cena da loro. Da mia madre e Jimmy, ovviamente; papà si era rinchiuso nel suo studio e non dava segno di voler uscire. Mia madre mi disse che lo faceva spesso, ma lo sguardo contrariato di mio fratello mi fece intuire che era una bugia per non farmi preoccupare troppo. Anche se ne ero consapevole, quel gesto mi fece ricredere su di lei: forse non era così scontenta di me come credevo.

Volli venire via subito dopo mangiato. Sebbene la presenza di mia madre e Jimmy mi rincuorasse, quella di mio padre nello studio mi agitava. Avevo sempre paura di sentirmi prendere ancora per un orecchio da un momento all’altro o di essere partecipe di una delle tante uscite che faceva su di me, accompagnate da epiteti non proprio lusinghieri.

Mi faceva sentire sbagliato, perché per lui lo ero. E allora perché non riuscivo semplicemente a ignorarlo e a farmi scivolare addosso ogni sua cattiveria?

Quando fu il momento di andare, pensai di voler salutare anche lui. Presi le mie cose dall’attaccapanni e mi avvicinai allo studio. Allungai il pugno verso la porta per bussare, ma il braccio era come paralizzato. Mi sarebbe bastato battere le nocche, un gesto semplice; eppure non mi riusciva.

Alla fine rinunciai e mi bruciò come una sconfitta.

Raggiunsi mia madre e Jimmy sulla soglia della porta. Mio fratello mi abbracciò le gambe, come aveva fatto al mio arrivo, ma stavolta ricambiai. Al momento di staccarsi, notai che teneva qualcosa nel pugnetto. La mia curiosità non durò a lungo: aprì infatti la mano e ne uscì il povero fuciliere.

Forse fu proprio nel momento in cui accettai il dono che capii quanto era forte il legame che ci univa; e mi sentii stupido per tutta la gelosia che avevo provato quel giorno, perché a lui papà voleva bene e a me no. Non era colpa sua, non era qualcosa che potevamo cambiare. E quel soldatino altro non era che la dimostrazione di una piccola ma grande verità.

Mia madre mi carezzò la guancia ancora una volta. Il rimprovero che avevo letto nei suoi occhi era sparito, per lasciare spazio a un sentimento di amarezza.

«Io e Jimmy ti vogliamo bene, Nathan.»

«Lo so.»

Lei sorrise e continuò ad accarezzarmi.

«No, non lo sai. Potrai sempre contare su di noi, per qualunque cosa.»

«Lo so.»

Scosse appena il capo, ma non interruppe mai le sue carezze.

«Chiamami un po’ più spesso. Voglio sapere come stai, se hai bisogno di qualcosa.»

«Va bene.»

La sua mano abbandonò il mio viso, segno che mi aveva ormai detto tutto; ma, quando mi voltai per tornare a casa, mi fermò ancora.

«Ah!», esclamò, poi fece due passi verso di me. «E non fumare troppo!»

Mi sentii in imbarazzo, forse perché il fumo apparteneva a quello che definivo “il nuovo me” e che non riuscivo ad accettare.

«Mi dispiace. Non volevo che tu lo sapessi.»

In punta dei piedi, mi lasciò un bacio sulla testa.

«L’ho scoperto anni fa, che credi? Io so sempre tutto di te: sono tua madre.»

Ripensai a tutte le mentine che avevo mangiato per nascondere l’odore e a quanti pacchetti avevo disseminato chissà dove per non portarli a casa. Che stupido.

Era tempo di andare, ma non prima di aver ringraziato mia madre. La cinsi in un umile abbraccio, in un gesto che chiedeva perdono per tutto quello che avevo combinato e per tutti i dispiaceri che le avevo dato.

E quando ci sciogliemmo dall’abbraccio, fui certo di una cosa: sarebbe stata l’unica donna che avrei mai amato.

 

Prima di tornare a casa, rimasi un po’ a passeggiare nei dintorni. La temperatura era piacevole e le strade erano ancora abitate dal popolo del giorno, un termine che utilizzavo per definire famigliole, pensionati e coppie normali. Dopo una cert’ora, quando calava il buio e l’aria diventava più frizzante, ecco che faceva il suo ingresso il popolo della notte, una miscela di persone di tutti i tipi, che spesso avevano la loro storia da raccontare e non era quasi mai niente di buono. La notte iniziava lo sballo. La notte iniziava il tentativo di dimenticare il giorno trascorso e di affrontare quello successivo, magari stravaccati sul letto.

Io ero a metà. Spaccato tra ciò che ero stato e ciò che ero. Un avvoltoio della notte che avrebbe preferito vivere alla luce del sole, piuttosto che nascosto nei coni d’ombra.

Passeggiavo per le strade di Queens con le mani in tasca, stretto nelle spalle, per paura di ciò che avrei trovato svoltando l’angolo. Perché se lasciavi le strade illuminate e piene di vetrine, quelle per il popolo del giorno, ecco che spuntavano le ombre sui muri, spettri di vite spezzate, di ragazzi estasiati con una siringa piantata nelle vene. Passai accanto a uno di loro e lo osservai: un bracciale emostatico e un mostro che gli entrava dentro, che lo divorava facendolo sentire invincibile. Non li guardavo per sentirmi superiore, no: li guardavo perché avevo paura, paura di finire come loro, paura di aver bisogno di qualcosa che mi dicesse che ero un eroe, perché non ero capace di dirmelo da solo o, piuttosto, di esserlo.

E così lasciavo che il mio sguardo si posasse sulle loro espressioni di godimento, sulle loro risate forzate. Lasciai che la mia mente vagasse per le cronache di giornale, di ragazzi stroncati da una pasticca, di giovani in coma, di ragazze fuori controllo che si erano lasciate distruggere.

Ma come sarebbe stato sentirsi invincibili, anche se solo per un momento?

 

Il popolo della notte mi perseguitò anche durante il mio viaggio verso casa. Sentire due ragazzi far l’amore mi eccitò, ma fu più squallido sentir vomitare uno dei due subito dopo. Pochi passi e sarei stato a casa, per fortuna.

          Passai accanto a una vetrina illuminata e notai una manciata di annunci di lavoro. In uno di questi si cercava un bracciante per una fattoria in California, pronto a spaccarsi la schiena per raccogliere asparagi e altre verdure di stagione. La paga non era male, così mi segnai le referenze. Mentre riprendevo il cammino verso casa cominciai a immaginarmi sulla costa occidentale, a passare il fine-settimana baciato dal sole e a fare surf tra le onde dopo cinque giorni di lavoro. Davvero niente male, sì. Sarebbe stata l’occasione perfetta per lasciarmi alle spalle l’università, mio padre e tutta la merda che mi era piovuta addosso in quegli ultimi anni.

Dopo aver varcato i cassonetti colmi ed essere quasi inciampato su un passeggino a cui mancava una ruota – e che immaginai essere di Cathy –, notai qualcuno seduto sulla soglia. Come mi vide, scattò subito in piedi e venne verso di me, trafelato.

Per un attimo, pensai che fosse Alan, ma invece era solo un altro predatore della notte: Harvey.

Lo osservai un attimo, prima di fare domande. Sotto la luce del portone, notai che era pieno di graffi, ma ciò che mi colpì di più fu il suo sguardo, a metà tra lo spiantato e l’eccitato.

«Che è successo?»

Fece per dire qualcosa, ma non gli uscì niente. Continuava a balbettare frasi senza senso; poi, di punto in bianco, si sfilò la maglietta, affermando di avere caldo. Quella fu l’unica frase di senso compiuto che riuscii a captare.

Lo invitai a salire in casa e, una volta su, osservai ancora quei graffi.

Ne sfiorai uno e mi accorsi che non se li era fatti da molto; in effetti sarebbe stato improbabile dato che ci eravamo visti solo poche ore prima e non li aveva.

«Come te li sei fatti?»

«Degli stronzi. Volevano pestarci, cazzo. Quei bastardi…!»

Lo feci accomodare sul divano e provai a capire.

«Qualcuno voleva menarvi?»

Harvey fece un paio di respiri belli grossi.

«Sì, sì. Siamo scappati. Quei cazzo di rovi.»

«Li conoscevi? Ma perché proprio voi?»

Tralasciai di chiedere, per il momento, con chi fosse uscito.

«No che non li conosco e spero di non farlo mai. Avevano i manganelli. No, le pistole. Ecco, avevano le pistole.»

Le parole di Harvey mi sembravano confuse e impastate. Provai a dire l’unica cosa che mi parve sensata.

«Non puoi denunciarli?»

Harvey scoppiò a ridere, ma era una risata sguaiata ed eccessiva. Sembrava non rendersi nemmeno conto di ciò che mi stava dicendo. Per scrupolo, mi avvicinai a lui e gli sentii l’alito. Era sobrio, ma non seppi dire se era un bene o un male.

«C’era anche il tuo amico. Com’è che si chiama? Rocky?»

«Ryan.»

Partì un’altra risata sguaiata. Forse quella di “Rocky” doveva essere una battuta.

«Sì, Ryan. Ora devo dormire, però. Mi fa male il naso. E non dire a nessuno che sono qui.»

«Ok, ok, va bene.»

Harvey si alzò. Non barcollava, non esitava nel camminare, ma avevo capito che c’era qualcosa che non andava.

Gli lasciai il mio letto e io mi accontentai del divano, che forse era pure più comodo. Provai ad addormentarmi, ma i miei pensieri erano così martellanti da non lasciarmi scampo.

 

Rumori.

Aprii gli occhi.

Passi.

Mi misi seduto sul divano.

Uno stinco sbattuto e un’imprecazione.

Era Harvey.

Ricacciai indietro l’infarto che stava per venirmi e mi ributtai sul divano.

Aveva acceso la luce del bagno, senza nemmeno accostare la porta.

Rimase in silenzio per un po’ e pensai che si fosse addormentato sulla tazza.

Poi lo sentii aspirare.

Una tirata.

Due.

Tre.

Spense la luce e tornò a letto.

 

Un messaggio alle due di notte non è in genere qualcosa di piacevole, a meno che non sia stato proprio tu a mandare un sms che reputavi senza risposta con assoluta certezza.

Cellulare alla mano, occhi secchi e brucianti per via del risveglio improvviso, lessi la risposta che avevo sperato di ricevere.

 

Nessun disturbo, sono sveglio.

Tutto bene?

 

Era una domanda retorica. Io lo sapevo, lui lo sapeva.

 

Non riesco a dormire e ho l’esame tra poco.

Non mi ricordo nulla.

 

Il correttore mi aveva cambiato una parola. Era ancora un messaggio comprensibile, o almeno era quello che speravo. Pensai che avrei dovuto fargli una domanda più diretta, ma aveva già rifiutato un paio di volte.

Il cellulare mi scivolò con dolcezza dalle dita e si adagiò sul divano. La testa crollò sul bracciolo e gli occhi si chiusero per poi riaprirsi di scatto.

Ancora e ancora, chiusi e aperti, buio e bagliore.

Una vibrazione mi scosse dal torpore.

A tentoni trovai il telefono.

Uno sbadiglio mi inumidì gli occhi e sbattei le palpebre un paio di volte prima di leggere la risposta.

 

Dai, vieni da me per le 17:30.

Porta tutto quello che ti serve.

 

Un alito di calore mi percorse la schiena scoperta.

Non era il vento e non era nemmeno Harvey.

 

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! Questo forse è il primo capitolo dove il focus si sposta completamente su Nathan e sulle sue vicende personali. La sua famiglia è un po’ il suo punto debole e vedrete che tornerà anche nei prossimi capitoli, soprattutto Jimmy-del-mio-cuore! XD Su di lui tra l’altro ho scritto una piccola shot (“Cuor di basilico”) che lo vede già grandicello, ma comunque adorabile <3

Per il resto, Nathan continua a perdersi in questa sorta di relazione con Harvey, col quale non sta così male ma non sta nemmeno bene. Gli serve ancora un po’ di consapevolezza, al ragazzo!

 

Ne approfitto per ringraziare tutte le persone che hanno speso un po’ del loro tempo per recensire, ogni volta mi rendete felicissima! Grazie grazie grazie <3

 

La revisione procede bene, ho avuto un capitolo (il 17) che mi ha dato parecchio filo da torcere perché si è rivelato un capitolo complesso, ma poi per il resto sono andata abbastanza fluida fino al 24, che probabilmente revisionerò in giornata. In compenso ho trovato una conclusione perfetta per la storia, che va a cozzare per un dettaglio col secondo elemento di questa saga (“Naughty Blu”), ma pazienza, me ne farò una ragione. È una conclusione troppo azzeccata per non scriverla!

 

Ok, chiudo qui altrimenti queste note diventano più lunghe del capitolo stesso (e sì, ne sarei capace XD).

 

A giovedì prossimo,

holls

   
 
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