Anime & Manga > Lady Oscar
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Autore: _Agrifoglio_    10/12/2021    12 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Anime perse


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Parigi, giugno 1806
 
Estraniazione, abbandono, gelo, furono queste le sensazioni che Oscar avvertì quando, in una brumosa mattina di giugno, a fianco di André, varcò la soglia dell’austero e massiccio edificio parigino.
Dietro di lei, camminavano il Generale de Girodel, il Colonnello de Valmy, Honoré, ora Capitano delle Guardie Reali e due reclute.
Erano lontani dall’elegante architettura della reggia o di Palazzo Jarjayes. Il lunghissimo parallelepipedo grigio in cui erano entrati – che, quel giorno, sembrava un tutt’uno col cielo coperto da grosse nubi gravide d’acqua – ricordava, piuttosto, nella struttura, l’Hôtel des Invalides, tranne che per la cupola che era tonda e schiacciata mentre l’altra svettava a ogiva.
Camminare per i lunghi corridoi deserti, anonimi e disadorni dell’edificio non migliorò lo stato d’animo dei sette visitatori che speravano di espletare prima possibile lo sgradevole incarico per tornare alle loro ordinarie mansioni.
– Signori, il Direttore Vi riceverà subito, abbiate la compiacenza di attenderlo in questa saletta – disse il funzionario che li aveva ricevuti sulla soglia della struttura.
Oscar stava per obbedire, quando lo sguardo le cadde oltre una vetrata, sita nella parete che correva perpendicolarmente al corridoio che dava sulla saletta.
– Chi sono quelle persone là fuori? – chiese la donna, con aria perplessa.
– Generale de Jarjayes, non è il caso che Vi avviciniate – protestò il funzionario – Si tratta di uno dei cortili interni della struttura… Ci sono le nostre ospiti, capite…
Ma Oscar si era già diretta, a grandi falcate, in direzione della vetrata e, giunta di fronte a essa, fece girare la maniglia e la aprì. Uscita in cortile, si trovò di fronte qualcosa che la scosse nel profondo. Diverse donne, malmesse e scarmigliate, stazionavano nel cortile, impegnate in diverse pose, ma col volto egualmente devastato dalla follia.
Una di loro percorreva l’area a passo veloce e costeggiando i muri, con le braccia conserte e la testa dondolante in un perpetuo annuire, emettendo, di tanto in tanto, dei mugugni e, quando finiva il giro, ne iniziava subito un altro. Una seconda malata si contorceva a terra, con le vesti discinte, urlando e guaendo, mostrando agli occhi dei presenti ciò che il pudore le avrebbe dovuto far celare. Alcune degenti erano incatenate a una parete e, mentre alcune si ritraevano al passaggio della visitatrice, raggomitolandosi su se stesse, nell’evidente timore di percosse troppo spesso ricevute, altre, più aggressive, davano continui strattoni alle catene, nel vano tentativo di spezzarle.
Oscar, con espressione turbata e avvilita, guardò negli occhi André che l’aveva raggiunta, quando una vecchia picchiettò le dita della mano sul braccio dell’uomo, biascicando: “Gentile Signore” e, subito dopo, si sollevò la gonna fino alla vita, mostrando due gambe ossute e rugose e il pube incanutito mentre sghignazzava sguaiatamente, con la bocca innaturalmente aperta dalla quale sporgeva un unico dente. André chinò discretamente gli occhi per non guardare ciò che l’assenza di ragione impediva alla malcapitata di custodire.
Un’altra donna, di età indefinibile, si era accovacciata a poca distanza da loro e, come se niente fosse, si era messa a defecare davanti a tutti.
Da una scala esterna in muratura, protetta da una ringhiera di ferro, stava scendendo un’inserviente che conduceva dietro di sé una paziente con la testa ciondolante all’indietro e l’espressione ebete.
Subito dopo, una ventenne, con la gonna lunga fino ai polpacci, le calze lente e afflosciate, ricadenti sulle caviglie e la camicia abbassata che scopriva un seno prosperoso, quasi sicuramente gonfio di latte, richiamò l’attenzione di Oscar con un guaito e, appena questa si fu voltata, le mostrò una bambola di paglia che, poi, accostò al capezzolo. Oscar la ricambiò con uno sguardo mesto e buono e con un sorriso carico di compassione. Poi, guardò verso André e i due si fissarono per qualche istante senza dire nulla.
– Questa è Léopoldine, una nuova arrivata. Ha strangolato la sua neonata di due giorni perché piangeva – disse il funzionario che li aveva raggiunti, trafelato – Ma tornate nella saletta, Signori, Ve ne prego. Qui, non c’è nulla per Voi.
Qui, non c’è nulla per nessuno – pensò André, rabbuiato.
– Ma sono proprio necessarie? – domandò irosamente Oscar al funzionario, indicando le catene.
– Non sapete quanto, Generale – rispose quello.
Nel frattempo, era arrivata un’inserviente con un secchio e uno straccio che, dopo avere scansato sgarbatamente la donna che aveva fatto i suoi bisogni davanti a tutti, si era messa a pulire, biascicando parole poco ripetibili. La pazza, vedendosi male apostrofata, aveva mostrato i pugni all’inserviente, per poi iniziare a spintonarsi con altre pazienti avvicinatesi per curiosare.
Le due reclute, intanto, erano state circondate da quattro internate che le colpivano con le mani per, poi, ritirarsi e, subito dopo, tornare all’attacco, come scimmie dispettose.
– La Salpêtrière fu edificata nel diciassettesimo secolo e inizialmente adibita a fabbrica di polvere da sparo – disse il Colonnello de Valmy a Honoré e a Girodel che erano rimasti insieme a lui sulla soglia della vetrata – Poi, Re Luigi XIV, con l’intento di ripulire le strade di Parigi, volle farne un ospizio dove confinare barboni, vagabondi, ladri, truffatori e donne di vita. Successivamente, l’edificio divenne un manicomio per pazzi incurabili. Qui, si entra e, da qui, non si esce.
Alcuni inservienti erano giunti per sedare la cagnara che era scoppiata tra la donna che aveva defecato e le altre con cui questa aveva iniziato a spintonarsi, quando giunse il Direttore, con in faccia un sorriso tirato che malcelava un’evidente contrarietà.
– Generale de Jarjayes, illustri Signori, Vi do il benvenuto all’ospedale della Salpêtrière. Dupont, perché non avete fatto accomodare i Signori nella saletta? – domandò, con voce dura, accompagnata da un’occhiata infastidita, al funzionario che aveva accolto i visitatori.
– Ma io… – si schermì il poveretto.
– Direttore, siamo qui dietro mia insistenza – intervenne Oscar.
– Lasciamo stare – disse il Direttore – Se avrete la compiacenza di seguirmi, vi condurrò al cospetto della nostra malheureuse. Prego, Vi faccio strada.
Il Direttore li guidò nei piani sotterranei, attraverso corridoi bui, umidi e maleodoranti di feci, urina e vomito.
Le pazienti più calme e “fortunate” erano collocate in stanze migliori, situate nei piani alti, ma, dato il sovraffollamento della struttura, erano stipate in ambienti insufficienti per il loro numero. Condividevano lo stesso letto o meglio lo stesso pagliericcio, anche in cinque e, così affastellate e in condizioni igieniche precarie, si scambiavano pidocchi e infezioni. Le più violente e problematiche, cioè quasi tutte, erano, invece, incatenate in stanze umide, sporche, fredde e senza luce, comunicanti con le fogne e portavano sulla loro pelle i morsi dei ratti che, quando non le conducevano alla morte, le ferivano crudelmente.
Oscar lanciava frequenti occhiate ad André mentre si addentrava sempre più a fondo in quel pozzo di disperazione, in quell’ultima frontiera dell’esistenza dopo la quale c’era il nulla.
Honoré incedeva a testa bassa, riflettendo con dolore che, oltre i saloni dorati della reggia, i luoghi familiari di casa e i bisticci con la sorella, c’era una realtà rovesciata e deformata dove neppure le preghiere, loro raccomandate dal cappellano di palazzo, sembravano arrivare.
Nei corridoi, oltre la puzza, si sentivano urla e gemiti di donne rinchiuse perché dementi, ingestibili, ingombranti, ribelli o poco inquadrabili nella società, spesso colpevoli soltanto di essere nate. Chi non era pazza da principio, lo diventava in anni di disumanizzazione e di isolamento. Tutte, indifferentemente, se ne stavano ad ammuffire come chincaglieria rotta di cui nessuno sapeva cosa fare, dimenticata in disordine in una cantina malsana che aveva come ingresso un imbuto a scivolo e come uscita una fossa e una povera croce in un camposanto.
– Era proprio necessario confinarla qui? – domandò Oscar al Direttore.
– Si, Generale. Siamo tutti contenti quando le nostre malheureuses danno segni di miglioramento, così da poter passare a un regime meno coercitivo, ma raramente ciò accade. Questa paziente, in particolare, è solita andare in giro nuda, col caldo e col freddo e ha la fissazione di gettare secchiate di acqua gelida sul suo giaciglio o sulla sua panca. Talora, è tranquilla, praticamente assente, ma, altre volte, è aggressiva, violenta, si mette a parlare concitatamente di rivoluzione, di Comitato di Salute Pubblica e apostrofa tutti con la parola “monarchici”, come se fosse un insulto. In questo periodo, la teniamo incatenata, dopo che ha aggredito un’altra ospite. A mio giudizio, soffre di melancolia.
Pochi istanti dopo, il Direttore li introdusse in una cella piccola, dove l’aria era stagnante, all’estremità della quale, scorsero una chiazza che, a prima vista, sembrò loro un ammasso di stracci. Con l’ausilio dei lumi, distinsero i lineamenti sfatti di una donna precocemente invecchiata, col volto scavato, gli occhi vacui, circondati da profonde occhiaie e i capelli tagliati cortissimi che ricoprivano il cranio allungato. Con difficoltà e dolore, Oscar colse in quella disgraziata i tratti della nemica di un tempo.
La donna era incatenata alla parete, in stato catatonico e pareva non accorgersi della presenza nella stanza di altri esseri umani oltre a lei. Oscar la guardò e iniziò a rivolgersi alla disgraziata con voce compassionevole e ovattata.
– Théroigne de Méricourt! Théroigne, mi sentite? Avrei delle domande da porVi. Posso farVi alcune domande, Théroigne?
La donna rimase inerte e Oscar continuò a interrogarla.
– Théroigne de Méricourt sapete dov’è il tesoro dei giacobini? Sapete se esiste e dove è stato nascosto? Il tesoro dei giacobini, Théroigne!
Dopo alcuni minuti di inattività, la sventurata iniziò a oscillare avanti e indietro, sempre più velocemente, mugugnando e lamentandosi, finché non prese ad articolare alcune parole con tono così flebile da non poter essere udito.
– Vi sconsiglio di avvicinarVi – disse il Direttore.
Malgrado la raccomandazione, una delle due reclute, per fare bella figura, accostò l’orecchio alla bocca della pazza e questa, con uno scatto fulmineo, glielo morse. Subito, il ragazzo lanciò un urlo straziante mentre si tamponava, con una mano, il padiglione sanguinolento.
– Per poco, non gli staccava l’orecchio quella prostituta mentecatta! – ringhiò il Direttore, dimenticando, in un istante, il tono benevolo e l’appellativo a lui tanto caro di malheureuse – Tu, accompagna subito la Guardia Reale a medicarsi!
Mentre l’inserviente conduceva la recluta in infermeria, Théroigne de Méricourt si alzò in piedi di scatto e, con le labbra e i denti lordi del sangue del poveretto, iniziò a urlare e a gettarsi ritmicamente in avanti con potenti strattoni, nel tentativo di svellere le catene. Non vi riuscì, ma riempì quei sotterranei di strilli e di agitazione che, presto, raggiunsero le altre degenti che cominciarono a urlare e a lamentarsi.
– Fai venire giù Dufresne e Mantillac! – ordinò il Direttore a un altro inserviente – Che la sedino col laudano! Lo sapevo che era una pessima idea – farfugliò, alla fine – ma era un ordine espresso della Regina…
Honoré guardava la scena allibito. Ricordava quella donna che lo aveva rapito da piccolo e che aveva tentato di gettarlo dalla torre più alta del castello di Lille. Non se l’era mai scordata e, proprio per questo, aveva insistito per accompagnare la madre in quella missione, al fine di mettere alla prova il suo coraggio e la sua stabilità emotiva. La stessa Antigone, sicura di sé e sprezzante del pericolo fino alla sbruffonaggine, impallidiva nelle rare occasioni in cui sentiva nominare la pazza e, da quel brutto giorno, si era sempre rifiutata di salire sulla torre più alta del castello di Lille.
– Théroigne de Méricourt! – urlò Oscar, avventandosi sulla donna e afferrandola per le spalle – Ditemi dov’è il tesoro dei giacobini!
Théroigne de Méricourt fulminò Oscar con uno sguardo che aveva ritrovato l’antica esaltazione e fierezza e, sollevata la testa, le sputò in faccia.
Oscar la lasciò, indietreggiò e si pulì il volto con la mano mentre l’altra, con i lineamenti contratti e gli occhi fuori dalle orbite, iniziò a vaneggiare.
– In una distesa di ossa!! In mezzo a un mare di morti!! Siete tutti morti! Io sola sono viva!! Voi siete morti! Siete tutti monarchici! Arriverà la rivoluzione!! Il Comitato di Salute Pubblica vi manderà a morte!
Mentre urlava e inveiva, gli uomini mandati a chiamare dal Direttore le piombarono addosso e la sedarono col sottofondo delle altre pazze che, dalle celle accanto, strillavano e ululavano.
Congedatisi dal Direttore, Oscar, André e gli altri si diressero verso l’uscita del manicomio. Quando ebbero varcato la soglia della Salpêtrière e messo piede sul selciato della piazza, respirarono a pieni polmoni aria fresca e vita.
 
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Reggia di Versailles, giugno 1806
 
– Immaginavo che da quella donna non avreste ottenuto alcunché – disse Maria Antonietta a Oscar, fissando il suo sorbetto alla menta – Vi ringrazio, comunque, di averci provato e di esserVi sottoposta a un’esperienza così sgradevole.
– Il Cardinal Brancadoro sembrava certo dell’esistenza del tesoro dei giacobini, Maestà e io non lascerò nulla di intentato per trovarlo.
– Vi sono grata, Madame Oscar.
– Maestà – disse Oscar, poggiando sul tavolino intarsiato il suo sorbetto – Ho una cosa da chiederVi.
– Vi ascolto – rispose la Regina, con voce premurosa.
– Le donne della Salpêtrière soffrono terribilmente. Sono trattate come recluse e non come malate e vivono sepolte in manicomio in attesa di esserlo, un giorno più o meno lontano, in modo autentico e definitivo. Sono immerse nei loro escrementi, incatenate al muro in celle malsane e nessuno si preoccupa che stiano in condizioni di decoro. In più, le loro frequenti pose lascive, mi fanno pensare che sperimentino molta indecenza. E’ facile che subiscano la lussuria di chi deve sorvegliarle. Sono sottoposte alle angherie degli inservienti e tormentate dai ratti e dalle cimici, sotto lo sguardo insofferente di un Direttore che le disprezza e non fa nulla per loro, se non sedarle. Egli usa metodi antiquati e non prova la minima pietà per le malate. Malgrado io compatisca il Direttore della Salpêtrière per il lavoro ingrato che svolge, lo ritengo inadatto a ricoprire l’incarico.
Maria Antonietta ascoltava quelle parole in un crescendo di disgusto e di compassione e, alla fine, chinò il capo e poggiò anche lei il sorbetto sul tavolino.
– André è venuto a sapere – proseguì Oscar – che il Direttore, tutte le domeniche, si fa pagare per esibire Théroigne de Méricourt ai curiosi, come triste cimelio dell’epoca dei giacobini.
– Sebbene non provi alcuna simpatia per quella donna che, nei boschetti della reggia, stava per massacrarci tutti – proruppe, con fronte corrugata, la Regina – avverto ancora minor trasporto per il Direttore. Il trattamento che infligge alle alienate è disumano!
Oscar annuì e continuò:
– André ha preso informazioni, Maestà e ha scoperto che c’è un medico, che risponde al nome di Philippe Pinel, che ha un approccio diverso alla malattia mentale. Libera i malati dalle catene e tenta di curarli anziché limitarsi a rinchiuderli e a isolarli dal mondo. Tiene molto all’igiene degli ospedali, nei quali accetta soltanto persone riconosciute alienate con certificato medico. E’ un sostenitore della terapia morale che consiste nel dialogare col malato e nell’entrare in contatto con lui, facendogli anche svolgere alcuni lavori anziché tenerlo nell’ozio. Ha già gestito con successo l’ospedale di Bicêtre.
– Benissimo, Madame Oscar. Darò subito disposizioni affinché l’attuale Direttore sia rimosso e il Dottor Pinel lo sostituisca alla guida della Salpêtrière.
 
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Londra, settembre 1806
 
Sir Arthur Wellesley stava rincasando nella sua abitazione di Harley Street.
Il matrimonio con Kitty era stato celebrato cinque mesi prima e le cose, da allora, si erano un po’ aggiustate, nel senso che l’aspetto fisico della donna stava gradualmente migliorando e, fra i due, si era instaurata una discreta confidenza coniugale. Malgrado il venir meno dei primi, comprensibili timori, però, Kitty era e sarebbe sempre stata una donna molto inibita e puritana mentre lui era un gran donnaiolo. Dubitava, quindi, che la propria monogamia avrebbe avuto vita lunga. Egli era, inoltre, un uomo d’azione e uno spirito tagliente, dotato di grandi ambizioni militari e politiche mentre lei, pur non avendolo mai fatto sfigurare in società, era totalmente priva di esperienza mondana oltre che gelosa e possessiva. Nei salotti londinesi, avevano compreso tutti che Lady Wellesley era una nobile di provincia e lei non aveva il minimo interesse a scrollarsi di dosso quella nomea.
Sopra ogni altra cosa, lo amareggiavano il rimpianto per ciò che non era stato (un loro matrimonio giovanile che li avrebbe resi entrambi felici, almeno per un po’ di tempo) e la consapevolezza che, se avesse potuto scegliere oggi in piena libertà, non l’avrebbe certo sposata. Gli undici anni che si erano frapposti fra la loro forzata separazione e il matrimonio ne avevano fatto due estranei assolutamente incompatibili e, soprattutto, avevano segnato un percorso ascendente per lui e discendente per lei. Se lui aveva combattuto in India, comandato eserciti e sottomesso intere popolazioni, maturando esperienza, facendosi un nome, mettendo insieme un grado militare elevato, un titolo e un cospicua fortuna e crescendo umanamente e professionalmente, lei, invece, era rimasta a casa a deperire, senza nuovi orizzonti e interessi, vedendo ragazze più giovani di lei sopravanzarla, come una splendida statuina di porcellana dimenticata su uno scaffale a prendere polvere.
Ormai, però, era andata così ed egli era determinato a portare avanti il matrimonio senza autocommiserarsi. In fin dei conti, era un uomo e avrebbe potuto trovare compensazione nella carriera militare e politica. L’ascesa di Bonaparte sembrava inarrestabile, ma l’Inghilterra si sarebbe dovuta opporre. Il mondo non era abbastanza grande per entrambi. In mare, la Royal Navy era nettamente superiore, ma non potevano sperare di battere Napoleone soltanto per quella via, in primo luogo, perché Nelson era morto e, in secondo, perché le battaglie terrestri erano molto più frequenti e decisive e, lì, purtroppo, Bonaparte dominava, grazie a un esercito più numeroso, maggiormente addestrato e meglio equipaggiato. Non era detta l’ultima parola, però, perché un esercito inglese piccolo, ma bene addestrato, avrebbe potuto mettere in scacco le aree periferiche dell’impero napoleonico, iniziando a defatigare il tiranno dai margini, per, poi, arrivare al cuore. Capitalizzando i successi mietuti in India e con le conoscenze politiche che vantava, avrebbe potuto farsi assegnare un esercito di medie dimensioni da condurre nella penisola iberica, a combattere contro Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone. Se c’era una cosa che sapeva fare molto bene, in fin dei conti, era addestrare i soldati, farsi rispettare e ubbidire da loro e guidarli in battaglia.
Kitty, invece, avrebbe trovato compensazione nelle gioie della maternità, se Dio fosse stato tanto magnanimo da concedere loro una discendenza.
Proprio in quel momento, Kitty, avendolo sentito rientrare, si affacciò nell’ingresso. La donna guardò il marito e, per un attimo, si sentì stringere il cuore. Faceva di tutto per renderlo felice, per indovinare i desideri di lui, per essere una moglie devota e premurosa, ma, per quanto si sforzasse, avvertiva che c’era sempre qualcosa che non andava bene e che tutti i tentativi che esperiva per compiacerlo finivano, paradossalmente, per infastidirlo. Egli, però, le aveva fatto un grande onore sposandola, soprattutto perché non era più quella di un tempo (e di ciò era ben consapevole) e, per questo motivo, era determinata a buttarsi ogni amarezza alle spalle e a mettere tutto il suo impegno per diventare una moglie esemplare.
– Arthur, caro, ho una splendida notizia da comunicarti! Aspetto un bambino!
– Kitty, mia cara, è meraviglioso! Dobbiamo dirlo a tutti e festeggiare! Ti farò avere le cure mediche migliori e tu non dovrai preoccuparti di nulla!
 
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Jena, ottobre 1806
 
Malgrado la schiacciante vittoria da poco riportata contro la Prussia, Napoleone aveva l’amaro in bocca e si sentiva quasi defraudato.
Il 14 ottobre, aveva sconfitto un grosso contingente nemico a Jena, preso ventimila prigionieri e catturato quasi cento cannoni e bandiere.
Poco prima della battaglia, però, aveva inviato il Maresciallo Davout ad attaccare il fianco destro dell’esercito prussiano e, nella notte, aveva ricevuto un dispaccio che lo aveva lasciato di sasso. Davout si era scontrato con un esercito molto più numeroso di quello che aveva affrontato lui e, malgrado l’enorme squilibrio delle forze in campo, aveva riportato una strabiliante vittoria ad Auerstädt. Napoleone non aveva voluto credere a quella notizia che aveva verificato più e più volte, ottenendo sempre lo stesso responso. La vittoria più brillante era stata quella di Davout! La battaglia di Auerstädt era stata un tale successo militare da oscurare quella da lui combattuta a Jena! Sebbene l’esercito napoleonico fosse risultato nettamente vittorioso su entrambi i fronti, la gloria, in quell’occasione, aveva arriso al Maresciallo Davout e non a lui!
Sulle prime, Bonaparte aveva pensato di passare la cosa sotto silenzio e di sminuire, nei resoconti ufficiali, il successo militare del suo subalterno. Si accorse, però, quasi subito, che quella mossa sarebbe stata un errore fatale e si risolse, pertanto, a complimentarsi, seppure a denti stretti, con Davout, tributandogli di fronte a tutti i massimi onori.
Di questa paradossale situazione, in cui un’enorme frustrazione conseguiva a una vittoria epica, stava per fare le spese il Maresciallo Bernadotte il quale, anziché dare soccorso a Davout, aveva deciso di marciare verso Jena, col risultato di non combattere in alcuna delle due battaglie.
– Il vostro comportamento è stato sotto ogni aspetto biasimevole, Bernadotte! Non avete portato soccorso al contingente del Maresciallo Davout! – ringhiò Napoleone, col volto contratto dalla collera.
– Con tutto il rispetto, Sire, io non prendo ordini da Davout che è un mio parigrado – rispose Bernadotte, con fare altero.
– Gli ordini di portare soccorso a Davout, non erano di quest’ultimo, ma miei e voi li conoscevate benissimo! Tutti biasimano la vostra condotta e si aspettano che vi deferisca alla Corte Marziale e ciò significherebbe un’unica cosa, la vostra fucilazione!
– Sire, Vi prego – rispose Bernadotte, in tono molto più umile e conciliante – Ho frainteso i Vostri ordini e me ne rammarico! La moglie di Vostro fratello Giuseppe e la mia sono sorelle! Faccio anch’io parte della famiglia!  
Napoleone strinse i pugni e assottigliò le labbra. Quell’imbecille aveva ragione… Deferire alla Corte Marziale e fucilare un membro, seppure minore, del clan Bonaparte sarebbe stato un terribile sbaglio. Avrebbe recato disonore alla famiglia e avrebbe fatto capire a tutti che il trionfo di Davout lo aveva innervosito e amareggiato.
– Per questa volta, potete andare, Bernadotte, ma sappiate che riprovo totalmente il vostro comportamento. Toglietevi dalla mia vista.
Bernadotte uscì dalla stanza visibilmente sollevato mentre Napoleone bruciava di rabbia e frustrazione.
 
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Bernadette-legge-la-poesia

 
Palazzo Jarjayes, ottobre 1806
 
“È un amore impossibile” – mi dici.
“È un amore impossibile” – ti dico.
Ma scopri che sorridi se mi guardi,
e scopro che sorrido se ti vedo.
“Di notte” – tu confessi – “io ti penso… Ti penso giorno e notte e mi domando se stai pensando a me mentre ti penso”.
… La società, le regole, i doveri… ma tremi quando stringo le tue mani.
“Meglio felici o meglio allineati?”
– Ti chiedo. –
E il tuo sorriso accende il giorno, cambiando veste ad ogni mio pensiero.
“Questo amore è possibile” – ti dico.
“Questo amore è possibile” – mi dici.
 
Seduta di lato alla finestra della sua camera, Bernadette leggeva e rileggeva la poesia che, in un giorno di primavera di alcuni mesi prima, Robert Gabriel de Ligne le aveva sussurrato mentre sedevano sulla panchina collocata nei pressi della fontana di Latona. Il libricino che egli le aveva donato, ormai, si apriva da solo su quella pagina e, malgrado ciò, lei usava ancora come segnalibro la rosa, adesso essiccata, che il giovane aveva staccato dal cespuglio e le aveva messo in mano.
La madre, ovviamente, nulla sapeva del libro, della poesia e della rosa altrimenti avrebbe gettato tutto nell’immondizia e avrebbe fatto una bella ramanzina a lei. Non voleva recarle un dolore e, in genere, seguiva scrupolosamente tutti i consigli materni, ma, da quando conosceva il Tenente de Ligne, una passione crescente e insinuante le aveva oscurato la razionalità.
Guardò l’orologio appeso alla parete e vide che mancava un quarto alle dieci antimeridiane, ora in cui aveva appuntamento con lui, davanti alla serra. Lanciò un’occhiata veloce allo specchio e pensò alle molte cose del suo aspetto che avrebbe potuto migliorare, ma ormai era tardi e si maledisse per essersi attardata nella lettura della poesia.
Giunta in prossimità della serra, si pizzicò leggermente le gote nell’intento di farle apparire più rosee e attese immobile qualche istante per non presentarsi a lui trafelata.
Decisasi, finalmente, a raggiungere il luogo convenuto, lo trovò deserto. Dopo cinque minuti di ritardo che le parvero un’eternità, giunse anche Robert Gabriel de Ligne, bello e sorridente come al solito. I due iniziarono a parlare del più e del meno, finché lui non le prese le mani nelle sue.
– Bernadette – le disse – Avrete compreso la mia predilezione per Voi.
Lei annuì, avvampando senza bisogno di pizzicotti.
– Conosco le idee di Vostra madre e la Vostra ritrosia, ma, in nome dell’affetto che ci lega, Ve lo domanderò lo stesso…
Lei lo guardò dritto negli occhi, col fiato mozzo.
– Vorreste essere la mia amante?
– La Vostra amante?! – esclamò, incredula, la ragazza, ritirando subito le mani da quelle di lui – Ma come… Io pensavo che il Vostro affetto per me fosse onesto… e rispettoso!
– E cosa c’è di disonesto e di irrispettoso in quello che Vi sto chiedendo? Lo fanno tutti… Tutti quelli che si trovano nella nostra situazione.
– Nella nostra situazione? – ripeté, sbigottita, Bernadette.
– Non pensavate che Vi avrei chiesta in moglie… Io provengo da una famiglia nobile mentre Voi...
– Mentre io sono figlia di una governante – terminò, con un filo di voce e reclinando il capo, Bernadette.
– E Vostro padre era un giornalista in odore di giacobinismo, ma non rivanghiamo il passato e concentriamoci sul presente. Io non sono il primogenito mentre Voi siete senza dote. Di che cosa vivremmo? Della mia paga da Tenente e del Vostro stipendio da lettrice?
– Io non sono senza dote – mormorò, in stato di agitazione interiore, la fanciulla, non pensando, in quei momenti, che i risparmi della madre e quelli di lei non potevano certo definirsi una dote agli occhi dei Marchesi de Ligne.
– Se anche fossi il primogenito – proseguì il giovane, senza dare mostra di avere udito le parole pronunciate dalla ragazza – SposandoVi, sarei diseredato e mio padre potrebbe pure prendere in considerazione l’idea di farmi internare.
Bernadette ascoltava questo discorso ansimando. Le parole di lui le giungevano alle orecchie rimbombanti e lontane e sarebbe voluta essere ovunque, purché non lì, ma i piedi le sembravano incollati al terreno e non trovava la forza di andarsene.
– Devo cercarmi una moglie ricca. In questo modo, potrei provvedere a Voi, attribuendoVi un mensile.
– Quindi, non sono degna di essere Vostra moglie, ma vado più che bene per il ruolo di mantenuta! – sbottò, infine, la giovinetta, riscuotendosi da quella situazione incresciosa e umiliante.
– Non mi esprimerei in questi toni da tragedia… In fin dei conti, non Vi sto chiedendo di prostituirVi o di pulirmi la stalla, ma soltanto di stare insieme a me nell’unico modo che ci è concesso…
– Be’, questo modo non mi piace affatto! – protestò Bernadette, ansando in preda alla collera – Se queste sono le Vostre intenzioni, sappiate che esse mi trovano del tutto tiepida e disinteressata. DimenticateVi di me, Tenente de Ligne e buona fortuna nella ricerca della Vostra ricca sposa!
La ragazza fuggì via senza dargli il tempo di replicare e non si arrestò finché non raggiunse un luogo al riparo da occhi indiscreti e, soprattutto, da quelli di lui. Appoggiate le spalle a una parete, cominciò ad ansimare sempre più forte, finché non si accasciò a terra, stanca e svuotata. Si abbracciò i polpacci, posò la fronte sulle ginocchia e, così raggomitolata, scoppiò in un pianto dirotto.
Quella proposta le mortificava la dignità, le feriva l’orgoglio e le straziava il cuore e non se ne sarebbe mai dimenticata.


Properzio-e-Cinzia







Théroigne de Méricourt fu internata nel 1793, ma arrivò alla Salpêtrière nel 1807. Nel 1806, quindi, era ricoverata in un altro istituto. Ciò che è scritto sull’internamento, sulle abitudini di lei, sulle visite domenicali dei curiosi e sulla diagnosi di probabile melancolia è vero. Probabilmente, fu a causa dell’abitudine di girare nuda e di gettare secchiate di acqua gelata sul giaciglio e sulla panca che la donna morì di polmonite, l’8 giugno 1817, all’età di quasi cinquantacinque anni.
Nella mia storia, Théroigne de Méricourt assalta i giardini della reggia nel quindicesimo capitolo e rapisce i figli di Oscar e André nel quarantanovesimo.
Il Dottor Philippe Pinel assunse effettivamente la direzione della Salpêtrière all’inizio del diciannovesimo secolo. I metodi di lui furono davvero innovativi e umani rispetto al passato, ma prevedevano anche terapie d’urto, come docce gelate, diete sbilanciate, contenzione fisica, purghe, salassi, isolamento e oppio.
Jean Baptiste Jules Bernadotte sposò Désirée Clary, prima fidanzata di Napoleone e sorella di Julie Clary, moglie di Giuseppe Bonaparte. Bernadotte divenne Re di Svezia ed ebbe un figlio che gli succedette col nome di Oscar I (Joseph François Oscar Bernadotte), nome scelto da Napoleone che lo prese da uno dei personaggi dello pseudo Ossian di cui era un lettore appassionato.
La poesia letta da Bernadette, in rete, è attribuita al poeta latino Sesto Properzio (da cui, una delle immagini che ho postato) che l’avrebbe dedicata alla sua amata Cinzia, ma questa conclusione lascia perplesse diverse persone, perché non si trova il testo latino e perché lo stile del componimento è diverso da quello abituale dell’autore. Di conseguenza, essa appartiene, più probabilmente, a un anonimo.
Come al solito, grazie a chi vorrà leggere e recensire!
   
 
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