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Autore: mat46    14/12/2021    1 recensioni
Io e Nino eravamo sempre stati migliori amici da che ricordi. Eravamo sempre immersi in fulgide fantasie fanciullesche della quali eravamo i protagonisti eroici degni di ogni storia d'avventura. Eravamo bambini e le nostre storie fantastiche erano semplicistiche e dominate da quel senso di ego che solo i bambini possiedono. Se solo potessi tornare indietro brandirei ancora la mia spada di legno ricavata dal "Barbone" per fendere qualche colpo ai miei avversari immaginari.
Genere: Avventura, Introspettivo, Suspence | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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Nella capanna

Nella capanna avvolta nel buio non si scorge niente.

Il nero della notte grava sul piccolo corpo come se fosse un pesante macigno staccatosi da una voluminosa frana. Il movimento gli riesce faticoso, quasi impastato nel velo del buio.

Ha i piccoli occhi spalancati ma non vede nulla, è praticamente cieco. Intorno a lui potrebbe esserci di tutto, eppure lui non se accorgerebbe.

Potrebbe esserci di tutto…

Seduto sul pavimento fangoso della capanna il silenzio lo opprime. Ogni piccolo suono dall’esterno lo mette in allerta e campanelli d’allarme sono le sue orecchie che guizzano non appena vengono raggiunte dal sospettoso rumore, come quegli insetti che sembrano morti ma che, quando li tocchi, si mettono a scappare.

Il vento…

La causa del rumore era sicuramente il vento che muoveva la paglia del tetto.

Quasi si stava tranquillizzando quando un altro suono si aggiungevs a quello dei crepitii della capanna: Un respiro affannoso, bestiale, famelico e ringhioso.

No, questo non è il vento. Qualcosa si muove fuori dalla capanna: zampate felpate e leste che si dirigono verso di lui.

Ha il cuore che gli esplode nel petto, per un momento è pietrificato dalla paura e sente di sudare. Sussurra il nome del padre, terrorizzato dal suono della sua stessa voce che si smarrisce nelle tenebre della capanna.

Sente che le zampate sono sempre più vicine, praticamente fuori dalla capanna, a questo punto il panico lo raggiunge e si mette a piangere, grida il nome del padre, ma questi non giunge, non sembra neanche essere nella capanna.

Un colpo sordo sulla porta di ramoscelli.

Sobbalza e senza rendersene conto si trova in piedi. Sa di essere solo e in procinto di essere divorato dalla bestia famelica. Ne sente già il fiato e il dolore degli artigli che gli penetrano nelle tenere carni. Perché il padre non è nella capanna ?

La bestia è piomba nella capanna dove riecheggiano il ringhio e i passi dell’animale, che in un lesto movimento si avventa sul corpo del bambino.

Si mette a urlare, terrorizzato, il suo piccolo corpo è attraversato da un forte e costante tremolio, non c’è nessuno che lo potrà salvare, nessuno che sbuchi dalle tenebre della notte. Si trova atterrito sul fango, sotto il corpo della bestia pronta a divorarlo. Sente un dolore lancinante al braccio sinistro, i possenti canini gli sono affondati nelle carni. Non è pronto a morire, ma sa che nulla potrà fermare il violento attacco dell’animale.

Non fa in tempo a urlare per il dolore che sente gli artigli lacerargli la pelle del collo.

Poi il buio, di nuovo.

Nino

“I leoni”.

Non riesco a scorgere nulla, sembro circondato da una nebbia rossastra che mi impedisce di capire dove mi trovo… tento di voltarmi ma non c’è altro che la solita nebbia. Un po’ come quando tieni gli occhi chiusi in un luogo assolato, non vedi nulla ma non sei al buio.

“I leoni “

Ecco, di nuovo.

“Dai, ci sono i leoni”.

Apro gli occhi. La nebbia scompare, mi sente frastornato, intontito, ma sveglio.

“Che ?”. L’unica cosa che riesco a pronunciare stropicciandomi gli occhi.

Guardo Nino, circondato di foglie dai bordi tondeggianti, mi guarda stranito.

“Ti sei addormentato”.

In effetti mi ero reso conto di essere sotto il Barbone, l’albero di quercia fuori dal Paesello.

Nino mi scanzonava con la sua spada, ch’era un ramo levigato del Barbone.

“Dai, ci sono i leoni”.

Prima ancora di finire la frase fende un colpo in aria con la spada. Il viso di Nino si contorce in una smorfia, digrigna i denti e si mette a urlare.

“Muori bestia, ti piace la mia spada conficcata tra gli occhi ?”.

Si mette a ridere, poi mi porge un altro ramo levigato, simile a quell’altro che aveva lui.

Quella è la mia spada, l’ammazza leoni.

A quel punto mi alzo e mi metto a difendere Nino, siamo circondati da leoni trasparenti, bestie feroci che non aspettano altro che entrare nel paesello e di sbranarne gli abitanti. Ma ci siamo noi. E fino a quando ci saremo la cittadina è salva.

La lotta con i finiti avversari si interrompe al grido di Nino

“Sul Barbone!”

Allora con uno scatto fulmineo infodero la spada tra i pantaloni e salto verso il terreno ombreggiato dalla quercia, da lì un altro balzo e mi trovo sul tronco dell’albero, un’arrampicata finale e mi siedo sul ramo del Barbone, vicino a Nino.

“Ci hanno circondati”.

Nino è rabbuiato in volto, ha ucciso tanti leoni, ma quelli sono tanti e sbucano da ogni dove. Non tocca che aspettare, prima o poi lasceranno l’albero.

L’estate giunge al termine, i tramonti sono sempre più precoci, accompagnati da una fastidiosa brezza fredda che punge la pelle dei due bambini.

“Quando saremo a scuola chi difenderà il Paesello”?

Nino mi guarda e si mette a ridere.

“I leoni se ne vanno con il freddo”.

La risposta sembra soddisfacente. E poi ci meritiamo una pausa, abbiamo trascorso gran parte dell’estate in groppa al nostro quartiere generale. Il Barbone.

Il sole si appresta al capolinea come una palla in un canestro e una leggera brezza smuove delicatamente le foglie della quercia. È il momento di scendere. Così ci dirigiamo verso il Paesello, facendoci strada, con le spade in mano, tra i cadaveri dei leoni che abbiamo ammazzato per tutto il pomeriggio.

L’ultimo spicchio di sole si erge sulla linea dell’orizzonte. Il venticello sembra essersi calmato.

Eravamo arrivati al Paesello appena illuminato dalla luce elettrica dei lampioni. Ci dirigiamo come al solito verso casa mia, dove Nino mi lasciava ogni sera. Incrociamo alcune automobili per la strada, in silenzio. Poi Nino si blocca. Mi guarda con i suoi occhi verdi.

“Perché ti sei addormentato prima”?

Non posso fare a meno di sorridere.

“Non lo so”.

Nino si avvicina verso di me.

“Lo sai che quelle bestie potevano sbranarti”

Questa frase fu sentita anche da un signore che passava sul marciapiede e intravidi un sorriso sulla sua faccia alle parole di Nino.

Io ero imbarazzato e non sapevo che rispondergli.

“Facevo caldo e sotto il Barbone c’era un bel po’d’ombra”.

A quel punto Nino arrivò a spingermi e ad alzare la voce

“Il Barbone non è la tua cameretta, è il nostro quartier generale!”

Non sapevo che rispondergli. Mi limitai ad annuire con la testa.

Mi venne in mente di scusarmi e di dirgli che aveva ragione lui, ma non feci in tempo perché prima che potessi aprire bocca si mise a correre in direzione di casa sua. Questa cosa mi lasciò stupito visto che le nostre giornate di gioco finivano sempre sotto l’uscio della porta di casa mia.

Poco dopo ero già arrivato sotto casa, ero impensierito, convinto di aver offeso Nino.

Misi la mano in tasca nel tentativo di recuperare le chiavi della porta di casa, ma ebbi un sussulto quando mi accorsi che la tasca era vuota, controllai nell’altra, ma nulla. Avevo solo la spada. Fui attraversato da un senso di panico, mia mamma non mi avrebbe mai perdonato e non mi avrebbe più permesso di uscire con Nino.

Una mano mi toccò la testa con una presa leggera, mi voltai e vidi Albertonto, tutti lo chiamavano così perché era un po’ strano, il suo vero nome era Alberto.

Era un ragazzo che viveva vicino casa mia e certo quello non era il momento perfetto per incontrarlo.

“Che stai facendo ?” Mi chiese guardandomi con la mano ancora sulla mia testa. Feci un passo indietro per liberarmi dalla sua leggera presa e gli risposi seccamente “Nulla Albertonto, torna a casa”.

Albertonto non parve affatto offeso, anzi sembrò non mostrare nessuna emozione e continuava a guardarmi. Ad un certo punto abbozzò un sorriso e mi disse “Sono felice oggi” io non avevo nessuna intenzione di ascoltarlo, cominciando a pensare dove avessi potuto perdere le chiavi.

“Ho trovato un lavoro !” così disse Albertonto cominciando a battere le mani. Dovetti sembrare scorbutico ma le sue parole non mi destarono alcun effetto, pensavo alle conseguenze che sarebbero derivate quando avessi detto a mia madre che avevo perso le chiavi. Ma ecco che, mentre Albertonto continuava a battere le mani, vidi mia madre, si avvicinava verso di me. Veniva dalla strada adiacente con due grosse buste della spesa. Mi guardò e prima ancora di essere abbastanza vicina mi disse “sei tornato presto stasera”. Mi limitai ad annuire. “Apri la porta”. L’avrei fatto se non avessi perso le chiavi. Così dissi “No, dammi le buste, le porto io, apri tu la porta”. Mia madre mi guardò per un momento, poi sembrò accondiscendere e mi diede le due buste colme di spesa. Dopo essersi liberata del peso fece un piccolo cenno con la testa ad Albertonto che nel frattempo aveva smesso di applaudire ed estrasse il suo mazzo di chiavi dalla tasca per aprire la porta.

   
 
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