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Autore: NPC_Stories    15/12/2021    3 recensioni
O come Dora e Rupert Honeycomb sono sopravvissuti alla propria infanzia.
Grossomodo.
Genere: Commedia, Fantasy, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna, Slash, FemSlash
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Forgotten stories of the Forgotten Realms'
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Autore: Dira_
Genere: fantasy, lore




Inverno alla Locanda dell’Orso

O come Dora Honeycomb scoprì che dovere e volere erano due verbi diversi.



Fattoria Honeycomb, nelle campagne vicino a Secomber, anno 1358


Dora aveva otto anni e non avrebbe dovuto ammalarsi.

Quell'autunno era stato particolarmente rigido nelle contrade di Secomber e Dora aveva dovuto aiutare il padre e i fratelli maggiori a ritirare e proteggere le arnie prima del solito. Aveva fatto un errore: mentre era fuori nei campi non si era coperta bene, nonostante fosse consapevole che i primi venti invernali erano quelli più cattivi, e che ti si infilavano dentro come una lama. Si era così svegliata una mattina con la testa che le doleva e la gola come un tizzone ardente. C'era però così tanto da fare che aveva ignorato la cosa: la mamma aveva partorito da poche settimane e non aveva le forze per badare alla casa, doveva mandarla avanti lei.
Dora avrebbe dovuto riposarsi, ma senza di lei sembrava che le cose non girassero per il verso giusto, e papà non le diceva forse che era l’unica testa buona dei suoi figli?
Il malessere però, alla fine, era venuto a chiederle conto nonostante la famigerata robustezza Honeycomb. Un febbrone da cavallo l'aveva fatta rimanere a letto per diversi giorni, in cui, febbricitante, era rimasta a fissare il soffitto, stupita del silenzio che la circondava. La fattoria non era mai silenziosa, ma era anche vero che le stanze da letto erano lontane dalla cucina, dove si svolgeva tutta la vita femminile, e i fratelli erano sempre fuori a dare una mano o a perdersi in mezzo ai campi per evitare di farlo.
Quel silenzio l’aveva resa ansiosa e triste. Che si fossero dimenticati di lei?

Aveva pregato Lathander di farla stare meglio, che di sicuro i suoi genitori erano troppo impegnati con il lavoro per farle compagnia, troppo, per questo doveva tornare, e mamma doveva riposare un po’, con il bimbo appena nato… Aveva pregato ferventemente per due giorni e Lathander per tutta risposta le aveva mandato suo fratello gemello Rupert.
Meglio di niente, si era detta, anche se quello scemo più che altro veniva per scappare dai suoi compiti e per raccontarle qualche storia strampalata delle sue… Le aveva anche portato del miele però, per la gola, il primo della stagione, e un occhio nero le aveva fatto intuire che quel gesto non fosse stato approvato da nessuno. Lo aveva mangiato comunque perché Rupert gliel’aveva quasi ingozzato a forza infischiandosene delle sue deboli proteste.

La febbre alla fine se ne era andata, a fatica e solo grazie al miele rubato e ai decotti dal saporaccio amaro che mamma le mandava tramite Rupert - il quale ormai si divertiva come un matto a farle da guaritore, sghignazzando sadico delle sue facce schifate. Nonostante fosse fuori pericolo, Dora era uscita dalla malattia debilitata, tanto che la mamma per la prima volta aveva suggerito una cosa che non aveva mai fatto. Aveva suggerito una vacanza.

Beh, non proprio. C'era una locanda ad un giorno di viaggio che offriva ospitalità ai bambini della zona per l’inverno, la Locanda dell’Orso, gestita da quella che tutti chiamavano La Strega.
Dora non era stata contenta dell'idea, un giorno di cammino era lontano e c'era così tanto da fare nella fattoria prima dell'arrivo dell’inverno, non aveva certo bisogno di una vacanza da una strega. La mamma però le aveva spiegato che era un modo sicuro per farli stare al caldo e con le pance piene quando sarebbe giunto il freddo, quello vero; quell'anno infatti il cibo scarseggiava più del solito per via di un estate rovente e di troppe gelate primaverili. Ormai erano sette bocche da sfamare, di cui una era un neonato: avevano bisogno di aiuto.

Alla fine la mamma aveva convinto il papà, che era restio a inviarli lontani e Rupert aveva fatto lo stesso con lei, blaterando di storie incredibili su magie, persone tramutate in polli, uomini albero, e un sacco di altre cavolate che però l'avevano fatta ridere e l'avevano anche incuriosita. La vita alla fattoria Honeycomb non era avventurosa, non come quella delle storie che la gente ascoltava dai bardi itineranti durante le fiere di paese, dove maghi, paladini e stregoni combattevano le forze del male.
Non che si sarebbe aspettata di combattere alcunché alla locanda, come invece cianciava quello scemotto di Rupert, però se non altro sarebbe stato divertente vedere un posto nuovo…
Così aveva detto alla mamma che ci sarebbe andata e si sarebbe riposata.
La mamma, stanca, l'aveva abbracciata frettolosa, le aveva detto che era una brava bambina, e poi era corsa a preparare i bagagli per tutti. Dora l’aveva seguita per aiutarla: perché era una brava bambina.

***


La locanda della strega non era affatto come se l'era immaginata Dora.
Non era neppure come aveva teorizzato Rupert, che aveva blaterato insensatezze come finestre coi denti aguzzi, un cimitero pieno di scheletri armati fino ai denti, un drago nella stalla e la strega pronta bollirli in un'enorme pentola piena di verdure.

La locanda dell’Orso era… una locanda, e basta. Dal tetto di pietra grigia, e dalle mura chiare fatte di mattoni cotti dal sole. I terreni circostanti non erano molto diversi da quelli di casa loro. C'erano le colline, morbide nelle linee ma bruciate dal freddo, c'erano i campi che attendevano addormentati l'arrivo della primavera. Non era poi così diverso da casa sua anche se il giorno di viaggio fatto per raggiungerla le era parso infinito.

Quando erano arrivati alla locanda era ormai notte fonda e la strega li aveva accolti sulla soglia d’ingresso. Dora non aveva mai visto un drow; ne era rimasta impressionata perché la pelle pareva riflettere il buio della notte mentre i capelli il chiarore della luna.
Era bellissima e aliena, e le aveva quasi fatto paura. Il sorriso con cui però li aveva accolti l’aveva un po’ rincuorata. Chi sorrideva a quel modo non poteva essere una persona cattiva.
Lathander, nelle piccole icone di legno dipinte che la zia portava loro da Waterdeep, aveva un po’ quel sorriso lì.
“Sbrigatevi, venite dentro!” li aveva incitati. Un ragazzo umano, poco più grande di loro, aveva preso le redini dell’asino e dopo un cenno di saluto al carrettiere aveva condotto il carretto verso una costruzione più bassa immersa nell’ombra e rischiarata solo dalla luce di alcune torce.
Gli occhi di Dora si erano lentamente abituati alla penombra e così aveva potuto scorgere la locanda nella sua interezza. Era enorme; stando proprio sotto l’ingresso la vedeva stagliarsi nel buio, un gigante dai tetti spioventi già coperti delle prime spruzzate di neve.
“Entrate!” La strega aprì con una mano la porta da cui uscì in una ventata di tepore, odore di cibo e schiamazzi. “Andate ad asciugarvi attorno al fuoco e poi metterete qualcosa nello stomaco, il viaggio è stato lungo e tu…” soggiunse indicandola, “Hai l’aria di chi non sta bene.”
“È quasi morta all’inizio dell’autunno!” cinguettò Rupert. “Non come me, che sono invincibile come un covone di paglia!”
“Ma che cavolo di paragone è, sta’ zitto… ” borbottò Dora arrossendo. “Sto bene, solo…”
“Ti daremo subito qualcosa per farti stare meglio,” la interruppe la drow in tono sbrigativo, ma senza perdere il sorriso. Era bella, aveva ragionato Dora sentendo il primo sorriso della giornata premerle sulle labbra, più bella di qualsiasi donna umana avesse mai visto. E non era l’unica a pensarlo da come i suoi fratelli più grandi avevano inanellato commenti e occhiate timide durante la cena mentre si ingozzavano di una buonissima zuppa che riscaldava quasi meglio del fuoco roboante dentro il camino.
Tutto sommato l’idea della mamma non era stata così male.

Così era iniziato il loro inverno alla locanda dell'orso. La locanda era molto diversa dalla fattoria: prima di tutto era enorme, ma non enorme come la piazza del paese, enorme come il monastero dedicato a Chauntea che una volta era stata. Aveva così tanti ambienti, stanze, stanzini e passaggi che Dora aveva rinunciato a contarli.
Lei e Rupert dividevano un pagliericcio nel dormitorio comune: era soffice come una nuvola e coperto da lenzuola candide e profumate, e Dora si era chiesta brevemente se non c’entrasse la magia della strega. La paglia non era così morbida, e d’inverno manco troppo asciutta.
C’era persino una torre campanaria!
Dora non aveva mai vissuto in un posto così grande; la fattoria aveva solo una manciata di stanze, i campi che avevano attorno era la vera ricchezza. Lì invece era tutto costruito per ospitare gente. Quell’inverno principalmente bambini. I pochi adulti che c’erano erano soprattutto i figli di Krystel: erano belli e scuri come lei.
Erano Krystel e i maggiori a prendersi cura di loro. Tek’ryn, che tutti chiamavano Tek, alto e serio, che zoppicava un po’, insegnava loro a leggere e scrivere e Tinefein, che si occupava dell’infermeria e dunque di eventuali raffreddori, indigestioni e nasi rotti. Nella locanda erano tutti molto gentili e non le lasciavano quasi alzare il cucchiaio. Con tutte quelle premure, e farcita di pozioni, in men che non si dica Dora aveva ripreso le forze.
E lì erano iniziati i problemi.

Dora era stata infilata in una quotidianità in cui, aveva scoperto rapidamente, non doveva lavorare. Giusto dare una mano, un concetto a lei completamente estraneo e dunque destabilizzante. Spazzare il refettorio, ma tipo con altri dieci bambini, rammendare con tutta calma qualche calzino…
La cosa l’aveva mandata ai matti.
Ogni volta che cercava di aiutare in cucina veniva messa a pulire due ortaggi in croce come una poppante, ogni volta che si proponeva per andare a governare le bestie le veniva risposto che c'erano già i ragazzi più grandi a farlo, persino quando aveva seguito Rupert in infermeria, era stata accantonata da un lato a guardarlo piagnucolare mentre Tinefein, con rapidi gesti esperti, aveva fermato l'ennesima emorragia al naso causata da un pugno esasperato di qualcuno.
Che razza di posto era quello?!

Solo la mattina le era concesso di fare qualcosa; imparare. Tek’ryn insegnava infatti ai bambini piccoli a leggere e a scrivere, mentre ai più grandi geografia e storia locale.
Quella era la sua parte preferita della giornata.
All’inizio si era trattato soltanto di tracciare singole lettere centinaia di volte, ma nel corso delle settimane Tek’ryn, notando i suoi progressi, l’aveva spostata tra i più grandi. Le piaceva imparare, e le piaceva il discreto cenno di approvazione di cui la graziava il drow quando faceva una domanda sensata o quando riusciva a leggere ad alta voce un paragrafo senza inciampare nelle parole. Le piaceva essere più brava dei suoi fratelli, persino di Randall, che aveva undici anni e si dava sempre arie da uomo di mondo ma era ancora in mezzo ai seienni a cercare di scrivere il suo nome e cognome.
Che fosse brava a fare le faccende di casa, a badare alle pecore, e a seguire suo padre quando doveva occuparsi delle arnie era una cosa dovuta, una cosa necessaria.
Studiare era una cosa tutta sua che stava imparando da sola perché un giorno, le aveva detto Tek’ryn, sapere quelle cose le sarebbe servito.
Dora dubitava: del resto non serviva conoscere l’economia di Waterdeep, o la geografia della Costa della Spada per amministrare una fattoria; suo padre infatti sapeva giusto scrivere il suo nome, e contare i soldi, quello era importante, ma quello l'aveva già imparato da tempo.
Studiare però, anche se inutile, era una roba sua. E quindi, era un po’ speciale, come un tesoro.

Aveva anche trovato una specie di amica. Tinefein era più grande di lei - essendo un’elfa oscura, tanto più grande - ma quando andava a trovarla in infermeria non le scriveva più di andare a giocare da qualche altra parte.
A furia di vederla sempre ad accompagnare il gemello, che si faceva male un giorno sì e l'altro pure, la mezza drow l’aveva presa in simpatia. Tinefein non poteva sentire né parlare, ma questo non era un ostacolo per loro: nei tempi morti aveva preso ad insegnare a Dora qualche gesto della sua lingua dei segni. Ormai riuscivano, anche grazie alla lavagnetta che la ragazza teneva in tasca pronta all’uso, ad avere brevi conversazioni sui rimedi, le pozioni e le tante erbe che occupavano quel piccolo regno al limitare della locanda.
A Dora piaceva l’infermeria, soprattutto perché non ribolliva di gente. Il silenzio di quel luogo aveva inoltre il beneficio di mitigare la sua ansia, perché un giorno ormai non troppo lontano avrebbe dovuto rendere conto di quella lunghissima vacanza.
E se avesse disimparato a prendersi cura della fattoria? Se fosse tornata e non fosse stata più in grado di svolgere bene il suo lavoro?
Di certo i suoi genitori sarebbero stati molto delusi.
Non poteva raccontare a nessuno di quelle paure, anche perché non aveva nessuno a cui confidarle. Tinefein era molto gentile ma era grande… e le altre bambine volevano solo giocare o discutere di quanto fosse bello Luel, il figlio mezzo fatato di Krystel - che sì, era bello, ma tipo come una statua che peraltro non faceva che prenderti in giro e agitare quelle sue ali a forma di mantello come uno scemo, sai che divertimento sposarsi uno così…
Le sue coetanee avrebbero riso dei suoi pensieri o non li avrebbero capiti.
Un po’ le invidiava.


In una nevosa mattinata piena di luce, Dora era come al solito in infermeria. Quella mattina all’alba gli altri bambini erano andati a pattinare con Tek’ryn e Amber, la figlia che-non-c’era-mai di Krystel. C’era andato anche Rupert e Dora all’alba aveva pregato Lathander con più fervore del solito per farlo tornare indietro tutto intero. Dubitava, dato che lo aveva salutato in piena e strampalata pianificazione di uno scherzo ai danni di Randall e Stedd.
Beh, aveva pensato, se Lathander proprio non riuscisse a custodirlo e lo riempiranno di botte, sarò qui ad aspettarlo.
Tinefein doveva aver notato il sospiro scorato perché aveva fatto un sorrisetto e aveva scritto rapida sulla lavagnetta.
Se sei preoccupata per i tuoi fratelli non facevi prima ad andare con loro?
“A me non piace cadere e farmi male sul ghiaccio,” aveva risposto. “Non mi piace il ghiaccio. E il freddo. Comunque stasera sto in sala comune con gli altri, eh, non faccio la musona…” le aveva assicurato.
Tinefein aveva scrollato le spalle e forse era per questo che era la sua preferita degli adulti; capiva il suo desiderio di solitudine meglio di chiunque altro.

Verso l’ora di pranzo Krystel era entrata in infermeria. Quando l’aveva notata aveva sorriso divertita. “Quindi è ufficiale Tine? Hai un assistente?”
Tinefein aveva segnato qualcosa in risposta, troppo rapida perché Dora capisse, e poi le due donne si erano scambiate un sorriso.
“Come mai non sei andata a pattinare con gli altri?” le aveva domandato Krystel.
“Mi sa che mi è tornato un po’ di mal di gola.” Non le piaceva mentire, ma non voleva che Krystel pensasse che non era grata di tutto quello che lei e la sua famiglia stavano facendo per lei e i suoi fratelli, divertimenti compresi.
“Davvero?” Lo sguardo indagatore della strega l’aveva passata da parte a parte e Dora era arrossita senza capire bene perché. Forse perché stava dicendo una bugia enorme. Aveva lanciato un’occhiata implorante a Tinefein, ma quella stava preparando una pozione e le aveva voltato le spalle.
“Ti va di aiutarmi con il pranzo?” le aveva domandato Krystel. “Con Geyla sono un po’ impegnata. In cucina di sicuro staremo al caldo.”
Dora non ne aveva voglia, perché era vero, la locanda la stava facendo diventare pigra, ma non poteva permettersi quel pensiero. Non era un bel pensiero, e i suoi genitori non sarebbero stati contenti. Probabilmente manco Krystel. Di sicuro non Lathander, che la zia glielo diceva sempre, era contento quando lei si impegnava al meglio delle sue forze.
Quindi annuì decisa. “Certo!”

Krystel l'aveva condotta nella grande cucina della locanda: solo quella a Dora sembrava grande come casa sua. Forse c’entrava la magia, o i grandi soffitti con le volte a botte - si vedeva proprio che la locanda un tempo era stata un monastero.
La cucina era il regno di Krystel; la donna la teneva in perfetto ordine e in continua funzione. Dora si era avvicinata al fuoco per controllare cosa stesse bollendo e la donna l’aveva lasciata gironzolare per qualche minuto, presa a star dietro alla più piccola delle sue figlie. Poi le aveva chiesto - non ordinava mai, ma nemmeno Randall si azzardava a disobbedirle come faceva a casa - di occuparsi di pelare patate per il piatto principale del pranzo. Le aveva recuperato uno sgabello e le aveva porto un coltello e Dora aveva cominciato a lavorare con lena.

“Ti piace stare qui?” le chiese a bruciapelo. Dora, che non si era aspettata di sentirsi rivolgere la parola, rimase un attimo presa in contropiede.
“Sì, ovvio,” rispose perplessa.
“Bene,” rispose Krystel, “te l’ho domandato perché non sembra così.”
“Non è vero…” non era brava a dire le bugie, non lo era mai stata. Poi, mentire ad una strega era proprio una cosa stupida da fare a prescindere, e Krystel aveva sempre l’aria di chi ti leggeva dentro. I suoi fratelli ne erano convinti e per questo sfoggiavano sempre il loro lato migliore quando la drow era nei paraggi. Fosse mai che venissero tramutati in polli, come qualcuno dei ragazzi più grandi aveva raccontato loro facesse Krystel ai ragazzini disubbidienti.
Dora la guardò di sottecchi preoccupata: “Mi piace stare qui… io e la mia famiglia ti siamo grati,” concluse con la formula che la mamma aveva detto loro di imparare a memoria. “Solo che…”
“Solo che?”
“Non vuoi niente in cambio?” domandò tutto d'un fiato. “Cioè, qui mangiamo il tuo cibo, e dormiamo nei tuoi letti, ma non…”
“Non mi date niente in cambio, è questo che ti preoccupa?” Krystel spostò l’attenzione da un momentaneo capriccio di Geyla, che sembrava non aver voglia di mangiare la propria pappa da come agitava la testolina riccioluta di qua e di là, e la contemplò confusa. “I tuoi genitori mi pagheranno per il vostro soggiorno. Miele e formaggio, quando arriverà la Primavera salderemo il conto.”
“Sì, ma quest’anno il miele non è stato tanto e le pecore hanno fatto pochi agnelli… e noi siamo in quattro, e tu ci tieni tutto l’inverno…”
“Non sei un po’ troppo piccola per preoccuparti di cosa fanno o non fanno i tuoi genitori per assicurare che passiate l’inverno?” la domanda era stata posta con tono ironico ma gli occhi di Krystel erano gentili, e un po’ preoccupati.
“Beh, non è che Randall, o Stedd… o tantomeno Rupert si preoccupino di ‘ste cose. Bruce poi è appena nato. E anche papà è un po’...” esitò, perché non si parlava mai male dei genitori, li si rispettava, come Lathander insegnava. Però Dora aveva le orecchie e un cervello, e una memoria, e sapeva che suo padre a volte con i pagamenti ai fornitori era un po’… discontinuo. “Vorrei che tu fossi pagata giustamente.”
“Per questo non fai altro che cercare di lavorare per me?” Krystel suonava divertita e Dora era arrossita di rabbia.
Lo diceva come se fosse una cosa sbagliata!
Krystel sospirò. “Non devi lavorare per me. Sei una bambina e peraltro sei stata malata.”
“Ma ora sto bene! Come ve lo devo dire!” sbottò Dora senza riuscire a frenare l’esasperazione. “Potrei dare una mano, mi farebbe piacere!”
“O senti che è il tuo dovere, visto che hai paura che tuo padre non mi paghi?”
Dora rimase in silenzio, senza sapere cosa rispondere. Non era la stessa cosa? Volere qualcosa era certo un verbo diverso dal dover fare qualcosa. Rupert lo metteva in chiaro ogni singola volta che apriva bocca.
Però lei quello che doveva fare voleva davvero farlo, perché era una brava bambina, e le brave bambine facevano quello che gli veniva detto. Lavorare era come le brave bambine diventavano brave bambine. Aveva cercato di esprimere quel pensiero un po’ confuso alla drow, inciampando nelle parole e le era anche un po’ venuto da piangere per la frustrazione.
“Il tuo lavoro è dare una mano quando serve, e non serve sempre perché ci sono altre persone che possono e devono farlo al posto tuo,” le spiegò Krystel porgendole un fazzoletto di stoffa. “Il tuo lavoro, se vogliamo chiamarlo così, è imparare da Tek’ryn. Mi hai detto che sei passata ad imparare con i ragazzi più grandi, è un buon risultato. Questo non ti rende forse una brava bambina?”
“Non lo so…” ammise Dora. “Mi piace imparare, ma non è che mi servirà a molto conoscere quelle cose. E se disimparo a fare ciò che è importante per la fattoria?”
“Lo trovo improbabile,” rispose Krystel tornando a dare attenzioni alla figlia che reclamava con un pianto piuttosto robusto. “Inoltre, credo che quello che ti sta insegnando mio figlio potrebbe servirti in futuro,” continuò la drow tirando fuori Geyla dal seggiolone per poggiarla a terra. Dora non aveva ancora esperienza di bambini piccoli e non si aspettava che Geyla facesse uno scatto e corresse sotto il tavolo. Krystel non sembrò dare peso alla cosa, lasciando la figlia ai suoi giochi. “Magari diventerai un'avventuriera come vuol fare tuo fratello.”
“Chi, Rupert?” Dora fece una smorfia, riprendendo a pelare le patate. Era rimasta indietro. “Rupert potrà farlo forse, io dovrò rimanere alla fattoria. La erediterò io. Devo imparare adesso tutto quello che c’è da sapere per mandarla avanti, papà dice sempre che lui e la mamma non ci saranno per sempre.”
“Sì, ho sentito dire che la tua famiglia eredita per linea femminile…” annuì Krystel con un’espressione pensierosa. “È strano per gli umani.”
“Non lo è per i drow?”
“Per i drow è la norma,” Krystel le rivolse un sorriso che però non raggiunse gli occhi. “L’eredità nella mia razza è sempre matrilineare.”
“Le donne hanno più cervello, dice sempre papà,” convenne Dora. “È per questo?”
“No,” rispose Krystel, mentre con un gesto esperto faceva scivolare le bucce delle patate verso il bordo del tavolo e le versava tutte in un secchio.
“Comunque, tornando al nostro discorso… non dovresti preoccuparti così tanto del futuro. Non è scritto.”
“Per me lo è in realtà. Erediterò la fattoria e mi sposerò, e avrò dei bambini.”
“È quello che vuoi fare da grande?”
Dora aggrottò le sopracciglia. Era una domanda senza senso. “È quello che devo fare.”
“Ma ti piace l’idea?”
“No.” La risposta le era uscita dalle labbra prima che potesse fermarla e Dora aveva sgranato gli occhi inorridita. “Cioè, sì… sì mi piace! Scusa!”
“Non c’è nulla di cui scusarsi,” rispose Krystel pacata. “Il mondo è molto più vasto dei campi di fronte alla tua fattoria, Dora. Per qualcuno può andare bene vedere un solo orizzonte per tutta la vita, ma per altri no… Un giorno crescerai, capirai cosa vuoi davvero e allora dai retta ad una strega: ascolta il tuo cuore, raramente si sbaglia.”
Dora non aveva risposto, la testa che le ronzava di pensieri, così forti e numerosi da non darle il tempo di tradurli in parole. Erano rimaste in silenzio a preparare il pranzo nella calda luce del mattino.
“Penso che comunque dovrò badare tutta la vita a Rupert, perché senza di me muore di sicuro…” borbottò dopo un po’, mentre l’esercito di patate e l’agnello rosolavano in forno spandendo un delizioso odorino per tutto l’ambiente. “Siamo gemelli, ma lui è un po’ come un neonato… mica posso abbandonarlo.”
“Tu e tuo fratello non potete separarvi facilmente, non preoccuparti.”
“Che vuoi dire?” Dora scoccò un’occhiata perplessa alla donna, ma questa non aggiunse altro.
“Quindi vuoi dirmi la verità sul perché non sei andata a pattinare?” le domandò invece.
“Non avevo voglia. Fa freddo,” ammise con un sospiro. “Preferisco stare in infermeria a dare una mano a Tinefein o nel letto a leggere al calduccio.” Esitò. “Forse sono un po’ pigra.”
Krystel le rivolse un gran sorriso. “Forse ogni tanto va bene così?”
Dora contraccambiò. “Forse sì.”

***


   
 
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