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Autore: Il_Signore_Oscuro    18/12/2021    1 recensioni
"Nelle complesse fila che compongono la Trama e la storia del mondo, esiste un'unica costante che - col volgere delle epoche - si ripete, pur con esiti diversi.
L'Ikvalibriam, la battaglia dell'equilibrio, è lo scontro finale fra il Bene e il Male reincarnato. Una battaglia in cui regni, nazioni, imperi si schierani in favore dell'uno o dell'altro.
Nella notte che precede l'ultimo di questi Ikvalibriam, Kudai viene convocato dalla Sua Signora. E scoprirà di rivestire nella Trama un ruolo molto più importante di quanto non abbia mai creduto..."
Se siete alla ricerca di un'epica saga fantasy d'ampio respiro, questa è la storia che fa per voi. Epiche battaglie, personaggi complessi e ricchi di fascino, ambientazioni magiche. Se per un attimo vuoi evadere dal mondo e dalle sue brutture, dammi la mano e segui con me questo viaggio...
[Aggiornamento: ogni domenica]
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
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CAPITOLO I


 
La Casa del Ceppo era in fermento quella sera. Situata su di un breve altopiano, nel villaggio di Fonderadici, le luci delle sue finestre parevano sfidare la lugubre oscurità che permeava il bosco di salici dirimpetto. La musica, le risa, le grida sgretolavano il silenzio della notte e le sue inquietudini.   
All’interno della sala il fumo di pipa risaliva fino al soffitto, miscelando le fragranze del tabacco combusto all’esalazione dolciastra della birra di resina, distillata dai migliori alchimisti birrai del paesello. Ai tavoli, ricavati da ceppi tagliati, si radunava la più varia umanità: gente del posto, dalla pelle scura, con vesti leggere e usitate, scolorite dal tempo e dal sole. Erano per la gran parte taglialegna dalle braccia inspessite un colpo d’accetta dopo l’altro.
C’erano gli uomini della guarnigione, con la giubba recante il lupo rampante in campo cobalto. Rappresentanza in luogo del Barone Luperini. Fra loro spiccava Ygris, il capitano di guarnigione, la cui chioma era rossa fiamma e gli occhi gelido acciaio. Ogni giovanotto di Fonderadici se ne era infatuato almeno una volta, ma – come si diceva – il suo carattere era più da lupo dell’emblema sul suo petto.
Vi erano poi i musicanti, i saltimbanchi e i giocolieri d’ogni razza, etnia e provenienza. Mezz’uomini dai cappelli piumati e i piedi bitorzoluti; nani dal naso rubicondo e le lunghe barbe intrecciate; elfi silvani, il cui cipiglio era più fiero dei signorotti che di tanto in tanto erano lì di passaggio.       
E, infine, in un angolo all’ombra della balconata, una masnada di uomini dalle facce lunghe e il viso austero, tutti differenti per tratti e carnagione, ma accomunati da un ricamo sulle vesti: una linea in fil di ferro che attraversava da parte a parte un cerchio appena visibile di tessuto.

Al centro della sala, un ceppo ben più ampio degli altri, quindici passi per quindici passi, rilevato di mezzo metro rispetto al pavimento, fungeva da palco per gli artisti che da ogni dove accorrevano ad accompagnare le serate degli avventori, presso la Casa del Ceppo. La corteccia era grigia come il fumo, scavata da profonde rughe; sul bordo, lì dove la lama aveva trapassato la corteccia, un anello di fuliggine delimitava il legno pallido del tronco. Legno solcato da innumerevoli anelli: seimilaseicentonove, stando alle più recenti stime dei pochi, pazienti, che si davano pena di contarli.           

Astoria posò il piatto di peltro sul bancone, prima di raccogliere in un ultimo sguardo la folla di avventori e rivolgersi a Tomujiin.        
L’oste de la Casa del Ceppo era un orco con ormai metà della vita alle spalle, alto una volta e mezzo un uomo di media statura e largo almeno il doppio. Un corpo nerboruto, a stento contenuto dietro il grembiule ingiallito dalle macchie e dal fumo.
Una chioma color del carbone, striata d’argento, scendeva dalla nuca sino alle spalle, mentre un’alta crocchia coronava il capo glabro. Dalla bocca, lievemente prognata, sporgevano due minacciose zanne giallastre, una delle quali doveva esser stata tagliata di netto. Mentre sul viso figuravano un paio d’occhi ambrati.   
«C’è parecchio movimento stasera, vero?» Disse Astoria, dopo aver riferito l’ordine per il tavolo di boscaioli.         
Tomujiin spillò la birra dai barilotti accomodati dietro il bancone, con un gesto deciso, e commentò le parole della ragazza con un mezzo grugnito.
«Fin troppo, così la vedo io. Tutta questa gentaglia non ha niente di meglio da fare che starsene qui a gozzovigliare?!»        
Astoria non avrebbe mai capito perché Tomu sembrasse sempre così scontento di avere clienti a foderargli le tasche di monete. 
«A proposito, occhi aperti al ritorno. Ci sono un sacco di forestieri in giro per le strade.» Continuò l’orco, riponendo i boccali schiumanti sul vassoio.       
«Non preoccuparti, Tomu.» Replicò lei. «Anidai si offre sempre di accompagnarmi, anche a tarda ora.»   
L’orco grugnì nuovamente, e con più rumore, cavandosi dalla veste uno straccio di iuta e passandolo sui boccali ancora da pulire.           
«Come ti fidi di quel barbone, proprio non lo so.» Schioccò la mascella prominente. «È più losco dei dannati forestieri.» Non fosse stata la sua locanda, avrebbe chiosato la frase sputando in terra.           
Astoria si girò, vassoio alla mano, perché non la vedesse ridere.           
A suo modo Tomu si preoccupava per lei. “Grazie agli dei non ha figli, sarebbe la loro condanna.”           
Con passi leggeri e sorriso di cortesia, Astoria si accostò al tavolo dei taglialegna.        
Mentre posava le pinte, seguì con lo sguardo uno zufoliere, dal pastrano a toppe variopinte, lasciare il palco con un paio di inchini, cedendo il posto al prossimo artista.     
Era quest’ultimo un menestrello dal corpo longilineo, la cui chioma pareva oro filato. Astoria lo giudicò come venuto dalle Terre dei Nor e ne ebbe ulteriore conferma quando lo udì parlare.   
Aveva l’accento spigoloso di quelle terre, sebbene parlasse la lingua comune con una certa scioltezza.       
«È un onore far la vostra conoscenza, brava gente di Fonderadici. Il mio nome è Ulfar, musico, cantastorie e poeta errante.» Si prodigò in un inchino, mentre dalla mezza-mantella faceva capolino una cetra.
Lo strumento era assai sobrio nella fattura, l’unico dettaglio di rilievo, era la figurina di donna intagliata su una delle estremità, che si nascondeva il seno col braccio. Le corde della cetra mandavano riflessi d’iride, alla luce delle lanterne.      
«Forse qualcuno avrà già udito, le buone nuove dal nord, signori miei. Falchi bianchi, candidi come neve, hanno spiccato il volo, diretti verso le principali enclave del Circolo. La voce già serpeggia fra la gente, nelle città la gente canta e danza per le strade. Gilmorgen, luce reincarnata, s’è ridestato dal suo lungo sonno!» 
Qualche mormorio d’incredulità venne dagli avventori. Altri innalzarono i boccali, augurando al dio e ai suoi servitori una lunga vita.         
«E quale miglior modo, signori miei, di celebrare la lieta novella, se non un canto che ricordi l’ultima delle sue reincarnazioni?»      
Il menestrello, veduto che il suo pubblico apprezzava, prese a diteggiare i primi accordi de Le Lacrime di Aniku mentre le sale della Casa si facevano silenziose.        
Astoria, tornata al bancone, si fermò ad ascoltare. Persino Tomu lasciò da parte le sue faccende per un momento.  

Vi canto compagni, di un tempo non troppo lontano      
quando Gilmorgen’Aniku, fronteggiò della notte il Sovrano.      
Il Citra osservava silente, dell’Ikvalibriam la tenzone    
a me non rimane, che ripeterne la canzone.


Galoppava Aniku, solitaria nella ressa. 
Diritta dinanzi, la lancia in resta.         
Si fece Nakhtife di contro, sul nero destriero,    
con cuore crudele e cipiglio fiero.        


Tosto lo colpì, Aniku alla testa 
e il Nakhtife ricadde, ma senz’aria mesta.         
“Non così finisce il nostro duello, signora del bene       
sulla punta della mia spada, sconterai le tue pene.”      


Aniku smontò, prode e spavalda,          
che mai e poi mai, la dicesse codarda.  
“Ti fronteggio e t’abbatto, nel cuor non ho timore.       
Vieni alla morte, della notte Signore.”  


Acciaio contro acciaio, lama contro lama         
di nuove cose, s’intesse la Trama.        
Lento fu il passo indietro e ben congeniato,      
poiché al fendente, Nakhtife fu decapitato.        


Tremò la terra, gioì il cielo.     
Gilmorgen aveva trionfato, contro il Re Nero.   
Ma non è storia felice, ahimè, quella che narro 
e alla vostra gioia tocca far sgarro.      


Librò una freccia silente, crudele come gelo     
e di Aniku trafisse, il petto fiero.           
Ricadde alla terra, non fece rumore      
è la fine di Aniku, ma Gilmorgen mai muore.    


Lacrime e singhiozzi le chiudon la gola,
mentre alla morte guarda, ormai sola.  
“Dove sei Kudai? Ahimè, m’hai tradito…         
e in questo giorno per l’eterno, il tuo nome maledico.”


Gli accordi di cetra accompagnarono la canzone verso il silenzio, lentamente, come una vecchia nenia intonata a bocca chiusa. Dai tavoli, qualcuno applaudì, qualcun altro lanciò sul ceppo soldi d’argento e di rame, per mostrare il proprio apprezzamento.     
Soldi che il menestrello non tardò a raccogliere nelle tasche sgualcite, prima di rimettersi a suonare.           
Astoria si asciugò le guance, con il risvolto della manica di lino. Tante volte aveva udito quella triste canzone, e tutte le volte se ne scopriva commossa come la prima. Era curioso come – nonostante quel canto si addicesse assai poco alle atmosfere di taverna – pure ogni volta riscuoteva successo. Che nel pubblico vi fossero nobili signori o gli ultimi fra i contadini.
«Per te è vero ciò che ha detto, Tomu? Il Gilmorgen è di nuovo fra noi?» Chiese la ragazza.    
L’orco, che intanto era tornato alle sue faccende, rispose.        
«Vero o meno, per noi conta poco. Il Gilmorgen e quelli al suo seguito non si interessano dei villaggi o di paesucoli come Fonderadici. Lui guarda ai regni, agli imperi, alle nazioni. Non darti di questi pensieri.»          
«Forse hai ragione.» Mugugnò Astoria, seguendo con lo sguardo il menestrello che si dava a pizzicare una ballata ben più allegra. Ora che la solennità della sua canzone si era dissipata, insieme con la melanconia.

Un rumore secco alle sue spalle la ridestò. Voltandosi, Astoria vide Marion che, posato il vassoio, si prendeva un attimo di respiro, poggiandosi al bancone.
Coi suoi diciotto anni, uno solo in più di lei, Marion era già una donna fatta e finita: il seno ampio e i fianchi larghi promettevano una prole numerosa. Anche se quel sorriso da volpe, incorniciato da boccoli bruni, per Astoria mal si sposavano al viso rassicurante di una madre.  
«A chi importa di Gilmorgen, con un uomo del genere? Potrebbe dirmi che gli asini volano o che i cani si accoppiano coi maiali, gli crederei.» Il sorriso le si allargò, pericoloso sulle labbra. «Che ne dici Astoria, la sua stanza ha bisogno di un’accurata pulizia stanotte, magari fuori orario?»     
«Marion!» Rise lei, sentendo le guance avvampare.     
Lei arcuò un sopracciglio, con una scintilla negli occhi scuri.  
«Cosa c’è, monachella? Non tutte abbiamo un fienile a disposizione per-»       
«Vuoi stare zitta?» Le intimò Astoria, piantandole giocosamente un gomito al fianco. 
«Torniamo al lavoro, signorinelle?!» Tuonò l’orco alle loro spalle. «Non vi pago per passare la serata a chiocciare come galline!»      
«Agli ordini, grande capo.» Rispose Marion, facendogli il verso e allontanandosi prima che Tomu potesse replicare.         
Un sospiro e una scrollata di spalle, anche Astoria si rimise al lavoro.

 
   
 
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