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Autore: Swan_Time_Traveller    19/12/2021    0 recensioni
Il professor D. se ne stava tranquillamente seduto nel suo studio provvisorio, ritagliato maldestramente dall'Ateneo nella vecchia caffetteria della facoltà.
Molto più preoccupata di lui, esordii: "Professore, perdoni la mia impazienza: posso considerare con certezza lei come relatore?" Srotolai rapidamente quelle parole, con un tremolio nella voce che tradiva il mio timore.
"Senza dubbio. Personalmente lo consideravo già scontato. Errore mio. Come anticipatole però, ho pensato di parlarle di un progetto ... Specialmente dopo un confronto coi colleghi, che mi hanno confermato quanto sospettavo: lei è una delle studentesse più brillanti del suo corso di laurea, e per questo motivo ci tenevo molto ad invitarla al mio laboratorio di metà semestre, di cui forse lei ha già sentito parlare."
Annuii, sebbene fossi ancora confusa.
"La partecipazione però richiede massima discrezione, glielo dico molto schiettamente: non le sarà possibile raccontare del laboratorio a nessuno." Aggiunse. Annuii di nuovo, ancor più disorientata di poco prima.
"Mi rendo conto che sto chiedendo un atto di fede, ma lei mi dà modo di credere che sia disposta a farlo, per questo le faccio una domanda."
Proseguì: "Se lei avesse modo di tornare nel 1963, sarebbe in grado di cambiare le sorti a Dallas?"
Genere: Avventura, Malinconico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento, Dopoguerra
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Prologo

 
Il tempo passa inesorabile: spesso è difficile accorgersene, perché troppo occupati a lavorare, ad occuparsi della propria casa o a studiare. Il calendario diventa un oggetto accessorio, consultato solo per timore di aver dimenticato un appuntamento o una faccenda importante. Ma comunque il tempo scorre, e la gente dorme.
Non avevo mai prestato tanta attenzione alle ore che corrono, ai giorni che volano via, ai minuti che costringono l’orologio a ticchettare: fino a quel momento però, in cui la convinzione di non aver avuto sufficiente tempo sembrava sovrastare lo scorrere stesso di questo. I miei passi, veloci e meccanici, sembravano dare una concretezza ad una giostra veloce, troppo veloce, sulla quale ero salita quasi per caso, ma con estrema convinzione. Il pavimento di quel corridoio, così ben curato e rivestito da una moquette panna, appariva indifferente ai miei passi, alla mia fretta: arrivai alla porta in fondo, semichiusa, all’interno della quale poteva intravedersi una luce fioca, artificiale. La spinsi timidamente, ed entrai.

Lì, dove chiunque al posto mio avrebbe osservato l’ambiente con l’emozione di un bambino curioso, io restavo impietrita, col cuore che invece battendo così forte, interrompeva quel silenzio che altrimenti mi avrebbe avvolta. Dalle tre finestre lunghe a semicerchio di fronte entrava una timida illuminazione lunare, che contrastava nettamente con la tonalità calda della lampada sulla scrivania, accesa. Rivolto con lo sguardo all’esterno c’era poi lui, in silenzio: la tensione che faceva trasparire quasi sembrava obbligarlo a stare eretto, non permettendo alla sua schiena di incurvarsi, come invece era solita fare. Il suo respiro era però regolare, certamente più del mio: provai a trattenerlo, perché quel silenzio rendeva cuore e polmoni estremamente chiassosi. Mi fermai di fronte alla scrivania, mentre lui continuava a rimanere nella stessa posizione, senza cedere ad alcun tipo di movimento: continuavo a restare zitta, perché improvvisamente nessuna parola appariva adatta a interrompere quel precario equilibrio.


“Non dovresti essere qui.” Fu lui il primo a parlare, scandendo perfettamente ogni sillaba, quasi per assicurarsi che io comprendessi al meglio la mia inadeguatezza, la mia scelta sbagliata: arrivata a quel punto le mie convinzioni avevano iniziato a vacillare. I dubbi che stavano avvolgendo la mia mente, annebbiandola, insinuavano solo una cosa: che io non avessi fatto abbastanza, e che ormai era realmente troppo tardi per poter ritrarre le carte già in tavola. Dall’altra parte però, contrariamente a quanto mi era appena stato detto, ero assolutamente convinta di essere nel posto giusto, in un momento non troppo perfetto: perché ormai il tempo era agli sgoccioli, e nessuno a parte me poteva comprenderlo. Dopo pochi secondi di silenzio, si voltò e sussultai: la luce lunare, combinata a quella calda della lampada, investivano il suo volto di un riflesso disumano, quasi profetico. Gli occhi azzurri apparivano stanchi, solcati dalle occhiaie che avevano assunto un colore grigiastro, pesante: come sempre però si concentravano su di me, sfruttando le ultime energie di quella giornata che era corsa inesorabile verso la sua fine per tutto il tempo, e che improvvisamente quello sguardo aveva temporaneamente bloccato.
La scrivania tra me e lui sembrava essere un muro che mi impediva di fare un qualsiasi altro passo verso di lui: fino a quel momento non avevo incontrato barriere sufficientemente alte da bloccarmi, ma quella sera un blocco di legno era diventato un ostacolo troppo difficile da abbattere, perciò restai ferma a guardarlo. Anche le parole sembravano ferme e congelate in gola, perché pur pensando di sceglierne alcune, nessuna si concretizzava in un suono: continuavo a deglutire nella speranza di ricacciare in profondità quel senso di malinconia e magone che stavano rendendo tutto ancor più difficile.

“Voglio che tu sappia che questo non cambia nulla. Non posso venire meno al mio compito, ai miei doveri: il resto aspetterà.” Anche la sua voce, seppur ferma, appariva velata da un profondo senso di smarrimento. Fino a quel momento ero stata solita analizzare ogni parola, in cerca di eventuali significati che apparentemente potevano sfuggire; senza dubbio in quel momento, il resto ero io. E no, non sarebbe stato possibile per me aspettare. Ma rispondergli in questo modo appariva solo egoistico, impossibile altrettanto dare una spiegazione che fosse specchio della verità. Ero in trappola.

“Lo so. Ma se tu rispetti i tuoi obblighi e doveri, porterai me a venir meno ai miei. E dopo per me non ci sarà altro da aspettare.” Fu repentina la mia risposta, non pensata, uscita dirompente come un fiume che abbatte gli argini in piena alluvione: ma era quello che pensavo, e giunti a quell’istante non c’era più alcun calcolo che potessi fare, prima di dare voce al mio pensiero.
“Io non posso stare qui ad aspettare.” Corressi quanto detto pochi secondi prima, ad alta voce, sebbene in realtà volessi parlare con me stessa: spostai il mio sguardo direttamente su di lui, attenta a comprendere che reazione avevo scaturito. Sul suo viso apparve una smorfia di preoccupazione, che gli fece curvare le labbra all’ingiù: i suoi occhi però avevano continuato a guardare me, imperterriti, in attesa forse di scrutare qualcosa che fino a quel momento non erano stati in grado di trovare. Ma appunto il tempo era scaduto.
Non parlò comunque, ed io non riuscii ad abbattere quel muro che si era creato in quell’ambiente: non era la scrivania il mio ostacolo, bensì gli eventi, quelli passati e quelli che di lì a poco si sarebbero srotolati davanti a tutti. L’unico riflesso spontaneo a cui fui capace di dare spazio, mi permise di avvicinare le mie mani alle sue, fisse sulla scrivania: riuscii a sfiorarle, ma non a stringerle. Perché in quel momento non mi stava chiedendo di trattenerlo, ma di lasciarlo andare: eppure la questione era molto più complessa, più articolata di così. E non avrei avuto modo di spiegarlo.

Ritirai immediatamente le mani, abbassando lo sguardo per non incrociare il suo: così mi voltai e velocemente, come si fa al binario giusto davanti al treno che fischia e parte, mi allontanai, andando nella direzione opposta.
Perché quello era palesemente il treno sul quale non sarei mai potuta salire. E la sua figura illuminata dalla luna fu l’ultima immagine che la mia mente continuò a mostrarmi per tutta la notte, e per quelle a venire.
   
 
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