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Autore: Adeia Di Elferas    01/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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La servitù della villa di Castello era ormai ridotta al minimo, perciò per Caterina, a quell'ora tarda, non fu difficilissimo uscire senza essere vista da nessuno.

Il suo stato d'animo era tale da far sì che la donna, di solito molto attenta a certi dettagli, non si preoccupasse minimamente di quella mancanza di sorveglianza che, invece, tutto calcolato, avrebbe dovuto esserci anche per difendere lei stessa e i suoi figli da possibili pericoli esterni.

Tutto quello che le importava, in quel momento, era allontanarsi da tutti e immergersi nel bosco. La neve cedeva a tratti sotto ai suoi passi, ma non la infastidiva. L'aria era gelida e, malgrado la luce tenue della luna, era difficile vedere a un palmo dal naso.

La Tigre sapeva che quel bosco era diverso da quello che aveva imparato a conoscere a Forlì e sapeva anche che era differente da quelli di Milano e Pavia. Anche solo i profili delle piante, austeri e scuri, non era come quelli della sua infanzia, più arruffati e frastagliati. Eppure la forza silenziosa che l'attirava era la medesima che, nel corso della sua, l'aveva portata centinaia di volte a inoltrarsi nel fitto della vegetazione.

Il silenzio era quasi perfetto, ma Caterina sentiva un'infinità di rumori. I suoi passi facevano scricchiolare la neve, congelata e secca, il suo respiro, reso irregolare dalla fatica, le rimbombava nelle orecchie, il suo cuore l'assordava e i suoni fini e misteriosi del bosco di notte l'attorniavano come il canto di una sirena.

Arrivata sul limitare, lanciò una breve occhiata alle sue spalle, cercando nel buio il profilo della villa, quasi illudendosi di poter così prendere un punto di riferimento per poi rientrare facilmente, una volta che fossero sbolliti del tutto sia la rabbia, sia il nervosismo.

Con un respiro fondo, si voltò di nuovo e cominciò a inoltrarsi nel bosco. Le prime piante erano rade e le permettevano di vedere abbastanza dove metteva i piedi, ma più avanzava, più aveva la sensazione di essere diventata di colpo cieca. Era sudata, smaniosa e confusa. Non si sentiva tanto male da anni, e non sapeva come uscirne.

L'odore pungente del sottobosco, ben avvertibile, malgrado la coltre bianca che copriva tutto, l'inebriava. Ricordava le battute di caccia, le notti passate alla Casina, le cavalcate assieme al padre, i lunghi momenti di solitudine che si era concessa quando era la signora indiscussa di Imola e Forlì...

Senza averne coscienza, la donna si era spinta troppo oltre. Ormai non aveva punti di riferimento e, più si appoggiava a questo o quel tronco, più la ruvidezza delle cortecce e il sentore ligneo le risultavano estranei, quasi ostili.

La sua mente vagava impelagata nei suoi pensieri, mentre i suoi polmoni si riempivano di aria fredda, restituendola sotto forma di denso vapore. Sentiva il volto, le orecchie e le mani perdere via via sensibilità per colpa del gelo della notte e anche i piedi, seppur protetti dagli stivali di cuoio, rispondevano meno ai suoi comandi, facendosi goffi e incerti sul terreno irregolare.

Senza accorgersene, la Leonessa si trovò gli occhi lucidi, la gola riarsa e il petto scosso da pesanti singhiozzi. Il pianto che l'aveva colta all'improvviso era sgorgato dal profondo, come un'eruzione tremenda, qualcosa di irrefrenabile e distruttivo. Fermandosi subito, si accasciò in terra, senza nemmeno sentire fastidio, nel contatto freddo tra le ginocchia e la neve.

Pianse e pianse per infiniti minuti. Le mancava il fiato, e i rantoli che le raspavano la gola erano sempre più violenti. Non sapeva dire nemmeno lei cosa avesse scatenato davvero quella reazione, ma era come fosse l'epilogo di qualcosa durato mesi, se non anni. Sentiva di nuovo il freddo della cella di Castel Sant'Angelo, la presa volgare e arrogante del Valentino, le urla di paura e dolore dei suoi uomini che venivano uccisi in massa dai soldati francesi, il fragore delle mura di Ravaldino che schiantavano al suolo, e poi la voce di Girolamo, mai dimenticata, che la minacciava, lei, ancora ragazzina, e l'umiliava per farla sentire ancora più piccola e avere così la meglio su di lei.

Sentiva ancora bruciare la ferita alla gamba che l'aveva condannata alla resa di Giovanni da Casale, il respiro del suo terzo marito, Giovanni, affievolirsi e spegnersi, l'odore pungente del sangue del suo amatissimo Giacomo, sventrato e dilaniato dai congiurati che Ottaviano aveva sobillato per mesi senza che lei si accorgesse di nulla...

Rivide suo padre, il Duca Galeazzo Maria, steso in terra, all'ingresso della chiesa di Santo Stefano, e sua madre, la bellissima Lucrezia, immobile nel suo letto, vittima delle febbri. Rivide suo figlio Livio, risentì il suo abbraccio disperato e il suo respiro agonico. Sentì le proprie mani sporche, intrise di sangue degli uomini che lei stessa aveva ucciso nei sotterranei della sua rocca, annebbiata dalle droghe e dal dolore.

E poi, prepotente come poche altre immagini nella sua memoria, si ritrovò davanti una volta di più il suo primo marito, Girolamo, il suo volto beffardo, il suo fisico imponente, per una bambina di appena nove anni, la sua morsa letale, la sopraffazione, il dolore, la paura, la confusione...

Mentre si asciugava con un gesto secco il naso, la Sforza smise per un istante di singhiozzare.

Aveva sentito un odore che non le quadrava. Era puzza di pelo bagnato... Si impose di non piangere più. Spalancò gli occhi, per vedere meglio nel buio, ma le pungevano ed erano così gonfi da farle male. Tese l'orecchio e poi sentì proprio quello che temeva di sentire: un respiro profondo, veloce e caldo.

Non sapeva dire se fosse un lupo, un cinghiale, un orso o cos'altro, ma di certo nel fitto del bosco c'era qualche bestia selvatica che la stava tenendo d'occhio, decidendo se attaccarla o meno.

Le ci vollero tre secondi per decidere che fare. Il suo vecchio istinto le disse di scappare: non era armata e non poteva sperare che l'animale se ne andasse di sua iniziativa, tanto meno poteva spaventarlo gridando, perché aveva la bocca secca e la gola riarsa e non sarebbe riuscita nemmeno a parlare, figurarsi cacciare un urlo.

A fatica, ma cercando di essere rapida, si alzò in piedi e, sperando di aver imboccato la strada giusta, iniziò a correre. All'inizio riuscì a tenere una linea abbastanza dritta, ma poi, complice il buio e il terreno, si trovò a ruzzolare più volte. Si rialzò, sempre, sistematicamente, graffiandosi contro le sterpaglie e contro i sassi in cui inciampava, ma senza mai fermarsi. A un certo punto, perdendo aderenza su quello che doveva essere un piccolo fosso, si ritrovò con il viso in terra. Sputò la neve e il terriccio che si ritrovò in bocca, si passò sommariamente una mano sulle labbra, sentendole pulsare e, forse, sanguinare, e ricominciò a correre.

Perse l'orientamento e il senso del tempo. Correva e sentiva qualcosa correrle alle spalle. Si chiese come mai non fosse già morta, come potesse, una belva feroce, non essere abbastanza veloce da catturarla e sbranarla.

Quando ormai non respirava quasi più e stava per arrendersi e lasciarsi prendere, cadde una volta in più e, non sapendo come, si trovò fuori dal fitto delle piante. Era come se il bosco l'avesse risputata fuori, come se le volesse dire che, ormai, non era più un posto adatto a lei.

La donna guardò tra le ombre della vegetazione, domandandosi all'improvviso cosa mai l'avesse spinta davvero ad avventurarvisi. Le pareva qualcosa di ostile e ignoto, ora, qualcosa che non aveva e mai avrebbe avuto nulla a che spartire con i boschi che aveva conosciuto e amato nel corso della sua vita.

Mentre si specchiava nel buio, intravide un luccichio strano, doppio. Capì con un secondo di ritardo che si trattava degli occhi di un animale, verosimilmente, proprio di quello che l'aveva inseguita fino a qualche istante prima. La bestia, sbuffando silenziosamente, lasciando che il proprio fiato caldo ne denunciasse l'esatta posizione, rimase immobile un momento e poi, con un movimento repentino, che fece vibrare qualche arbusto e scricchiolare la neve, si voltò e scappò via.

'Se avesse voluto uccidermi – si disse Caterina, valutando, a spanne, le dimensioni dell'animale – lo avrebbe fatto senza problemi...'

La consapevolezza di essere appena scampata a un grande pericolo si mescolò alla sensazione che quella bestia fosse stata come un emissario del bosco stesso, deputato a costringerla a uscirne, ma senza farle del male.

Infreddolita, spaventata e incredibilmente avvilita da quella fallimentare uscita in notturna, Caterina rimase seduta sulla neve ancora un po', sforzandosi di smettere di piangere e cercando di valutare quanto fosse grave il colpo al volto preso con l'ultima caduta. Aveva un taglio sul labbro, ma non era nulla di profondo. Anche gli altri graffi sembravano minimi, per quanto bruciassero moltissimo.

Tossicchiando, con passo incerto, le membra rese rigide dal freddo e dalla stanchezza, la Sforza si decise a tornare alla villa. Non voleva far sapere alla servitù del suo giro nei boschi senza permesso, tuttavia non aveva nemmeno voglia di essere furtiva e nascondersi come una ladra in casa propria.

Perciò, affidandosi alla sorte, andò al portone, l'aprì senza fatica, e andò verso la sua stanza, senza incontrare nessuno. Ancora una volta, si trovò a pensare che quell'assenza totale di servitù fosse una gravissima pecca nella sicurezza della villa, ma al momento le interessava relativamente.

Era quasi arrivata alla sua porta, camminando quasi al buio, quando incrociò una delle serve più giovani, che, invece, portava con sé una candela di sego. Era vestita come sempre, ma portava i capelli sciolti e aveva uno strano rossore in viso. La Tigre non avrebbe voluto farsi troppo domande, ma con un paio di calcoli, intuì che la ragazza arrivasse direttamente dalla stanza di Ottaviano.

Pur provando per lei una certa commiserazione, non ebbe lo spirito di usarle troppa gentilezza, e, anzi, quando le parlò, lo fece con più aggressività del dovuto: “Voglio fare un bagno caldo, subito.”

“A... Adesso?” chiese la serve, attonita sia dalla richiesta stravagante, sia dallo stato in cui si trovava la sua padrona, arruffata, umida di neve e con gli occhi rossi e gonfi.

“Ho detto subito.” ribadì Caterina e poi, prima che la serva andasse a preparare quanto richiesto, aggiunse, perentoria: “Dammi la candela, c'è buio e non voglio inciampare.”

La ragazza obbedì, anche se a malincuore e poi, dopo un mezzo inchino, si scusò e passò oltre, prima di ricevere altri ordini spiacevoli.

“Sveglia Creobola – fece in tempo a dirle la Leonessa – lei sa come voglio il bagno.”

 

Bianca, intravista la madre parlare con una delle serve, finalmente si acquietò e, dopo essere rimasta nel buio il tempo necessario per essere certa che la Tigre non l'avesse vista, tornò nelle sue stanze.

Forse, si diceva, era stata l'unica ad accorgersi che la Leonessa di Romagna, ufficialmente una sorvegliata speciale dei francesi e, di rimando, anche dei fiorentini, era uscita dalla villa senza permesso, in piena notte, e si era addentrata nel bosco.

La Riario, tornata nella sua camera e chiusasi dentro si domandò cosa mai avesse potuto portare la milanese a comportarsi così. Seguendola molto da lontano, non aveva capito bene cosa avesse fatto tra il fitto degli alberi e, anzi, dopo averla vista sparire per un po', la ragazza era stata quasi sul punto di andarla a cercare.

Sapeva che la madre era più che esperta, nell'andare per boschi, ma quello le era sconosciuto, e in più faceva buio e la Tigre... Inutile negarlo: la Tigre non era più quella di un tempo. Restava una donna come poche, ma per molti versi era cambiata irrimediabilmente, dopo la caduta di Forlì.

Dunque, quando Bianca l'aveva vista finalmente rispuntare dal bosco, seppur visibilmente scossa e in difficoltà, era rimasta in disparte, rientrando prima di lei alla villa, in modo da seguirla con lo sguardo fino a che non fosse stata certa di saperla di nuovo al sicuro.

Rabbrividendo, per colpa del freddo che lei stessa aveva preso e dei calzari che, nella neve, si erano inzuppati poco per volta, la giovane si cambiò in fretta e cercò di scaldarsi come poteva. Non aveva voglia di coricarsi subito, perché troppi pensieri la tenevano sveglia ogni notte e così, mossa da un desiderio che considerava quasi puerile, si mise al suo tavolinetto e cominciò a scrivere una lettera per Troilo.

Lo faceva, ormai, da qualche sera. Le dava l'illusione di averlo vicino. Gli raccontava la sua giornata o lo implorava di tornare da lei. A volte gli descriveva minuziosamente le sensazioni che il suo corpo le dava, man mano che il figlio che portava in grembo – benché fosse a mala pena certa di essere davvero incinta, era sicurissima di aspettare un maschio – cresceva dentro di lei.

Poi, però, strappava tutto e dava fuoco ai frammenti di lettera, osservandoli in silenzio mentre si accartocciavano e scomparivano. Lo faceva solo per impedirsi di cedere alla tentazione di inviare davvero quelle missive ricolme di argomenti e informazioni sensibili, che sarebbero stati oro nelle mani di qualche delatore prezzolato.

Anche quella notte, scrisse profusamente al De Rossi, ripercorrendo anche un paio di notte trascorse assieme, ma poi, con un sospiro triste, diede alle fiamme tutto ciò che aveva messo nero su bianco.

Stava per decidersi a coricarsi, quando tornò con il pensiero alla madre. Doveva tenere per sé quello che aveva visto o era meglio avvisare qualcuno? Quanto aveva rischiato, di preciso, la Leonessa, comportandosi a quel modo?

Con l'apprensione che vinceva sul resto, la ragazza prese una pagina pulita e iniziò a vergare un breve messaggio per Fortunati. Non gli scrisse apertamente cosa fosse accaduto, ma scelse delle oculate parole che, ne era sicura, l'uomo avrebbe interpretato nel modo giusto. Chiuse la lettera augurandosi in modo plateale che il piovano tornasse presto alla villa, per regalare alla madre un po' di serenità a qualche serata tranquilla in sua compagnia.

Firmò e chiuse il messaggio, poi, dopo una brevissima indecisione, si infilò la sopravveste e uscì dalla sua stanza, diretta ai locali della servitù. Purtroppo quasi ogni lettera passava dalle mani delle stesse persone, ma la Riario era sicura che la sua, anche se fosse stata aperta, non avrebbe destato nessun dubbio nelle eventuali spie. Inoltre, Fortunati era uno dei pochi destinatari che fossero loro ufficialmente permessi.

Arrivata quasi ai locali della servitù, sentì due serve parlare tra loro e riconobbe distintamente la voce di Creobola, che incitava l'altra a sbrigarsi.

“Un bagno caldo... A quest'ora, poi..!” si lamentò la serva più giovane: “Dicevano di lei che fosse una donna strana, ma non credevo così tanto..!”

Creobola, a voce più bassa, ma concitata, la riprese subito: “Tu devi solo tacere e fare quello che ti viene ordinato! Non ti pagano certo per fare valutazioni sulle abitudini della nostra signora!”

Bianca restava fuori dalla stanza, ma poteva sentire lo scrosciò dell'acqua che, probabilmente, da una pentola veniva passato nelle grosse caraffe con cui poi, una volta nella camera di sua madre, le serve avrebbero riempito la tinozza da bagno.

Nostra signora...” sbuffò la domestica più giovane, con tono canzonatorio: “Comunque non mi pagano per sottostare agli ordini di una pazza... Pensa che suo figlio Ottaviano mi ha raccontato che...”

Creobola non le diede il tempo di continuare, rimproverandola con tono più duro: “Taci e lavora, ingrata che non sei altro... Non mi interessa cosa dice Messer Ottaviano, né il fatto che tu passi con lui anche troppo tempo, la notte!” poi, come colta da un dubbio repentino, le chiese: “Per essere tanto scontenta di servire Madonna Sforza, si può sapere cosa credi di essere qui a fare? Sei forse tu la spia pagata dal Medici, per farsi dire tutto quello che succede in questa casa?”

La Riario, tanto immobile da non respirare quasi, sgranò gli occhi, in attesa di sentire la risposta dell'altra serva. Sapeva bene che sua madre aveva avuto spesso il sospetto che ci fossero delle spie tra la servitù, e Fortunati non aveva mai escluso esplicitamente quella possibilità. Vedere che anche Creobola ne pareva convinta per lei suonava come una conferma ineluttabile.

“Ma che dici...” fece la giovane serva, seppur con qualche secondo di troppo di esitazione e poi, con una risatina forzata, disse, dimostrando una solerzia che fino a poco prima le era mancata del tutto: “Anche quell'acqua è pronta, avanti, versala così andiamo...”

Capendo che non avrebbe potuto origliare null'altro di interessante, Bianca si decise a entrare nella stanza e, trovando le due donne intente a caricarsi con le brocche di acqua bollente, chiese loro, con tono casuale: “Qualcuno vuole fare un bagno?”

“Vostra madre – rispose subito Creobola, con un mezzo inchino – e l'ha richiesto con una certa urgenza... Quindi, se ci volete scusare...”

La Riario le lasciò passare, senza dire altro e poi, indecisa se seguirle o meno fin nella stanza della madre, per non lasciarle sole con lei, si guardò attorno, in cerca di una risposta. I locali della servitù della villa erano molto più ariosi e comodi di quelli di Ravaldino, che, invece, erano sotterranei, umidi e abbastanza cupi. Tuttavia nelle pareti pulite e nel camino acceso e molto grande, Bianca trovava ci fosse qualcosa di deprimente.

Con una stretta al cuore, lasciando per un attimo i problemi della madre al secondo posto e rinunciando a seguire Creobola e l'altra serva, si ritrovò a ricordare la fine della sua infanzia e la sua prima giovinezza. Aveva trascorso così tante ore coi servi e nelle cucine... Aveva amato il calore che aveva provato, quando stava con le cuoche o con le domestiche, e parimenti le era piaciuto a dismisura imparare a cucire, a cucinare, a pulire la selvaggina, a tagliare le verdure nel modo giusto, a usare le mani non solo per girare le pagine di un libro o scrivere una lettera...

Era sicura che aver passato tutti quegli anni in quel modo le sarebbe servito, nella vita. Così come era certa che Galeazzo, che fin da bambino aveva respirato la vita del soldato, ne avrebbe tratto vantaggio, e allo stesso modo Bernardino, che aveva imparato fin da piccolo a regolarsi con la vita della strada e a farsi rispettare malgrado tutto. Perfino Sforzino, che aveva avuto modo di frequentare religiosi, servi, ricchi, poveri e chiunque volesse, e che aveva potuto studiare quello che preferiva, senza troppe imposizioni, capendo, nel contempo, cosa significava il sacrificio di una vita tutto sommato semplice, avrebbe ringraziato la loro madre per quello che aveva imparato.

Di Cesare e Ottaviano, Bianca invece non sapeva che pensare. Loro, si disse, potevano solo ringraziare di essere ancora vivi, perché altre donne, al posto della Tigre, li avrebbero uccisi senza il minimo rimorso, dopo quello che avevano fatto a Giacomo Feo.

Cercando di sciogliere il nodo che le stringeva la gola nel fare quelle valutazioni, la Riario si inoltrò ulteriormente nei locali della servitù e alla fine trovò il domestico che era addetto alla gestione della corrispondenza. Gli spiegò che quella missiva era per Fortunati e che, pur non trattandosi di un affare troppo urgente, sarebbe stata felice di saperla partita prima dell'alba.

Il ragazzo – perché tale le sembrava, con gli occhi ancora annebbiati dal sonno interrotto all'improvviso e i capelli scompigliati – annuì in silenzio e poi, con un mezzo sbadiglio, si premurò di chiedere: “L'avete scritta voi?”

“Sì.” rispose, un po' infastidita la Riario: “Leggetela pure, se volete – sbottò, perdendo di colpo la pazienza, trovando all'improvviso tutta quella situazione insostenibile – tanto lo so che non siete analfabeta, benché fingiate di esserlo per farci credere che non leggiate tutto quello che esce da questa casa! Se volete leggere un bel resoconto di quanto faccia freddo e di quanto scarse siano le doti culinarie delle cuoche che abbiamo a stipendio, vi basta aprirla: non ho nemmeno la cera adatta a sigillarla, quindi non farete nemmeno fatica!”

Il servo non ebbe la lingua abbastanza pronta per ribattere, tuttavia, mentre Bianca girava i tacchi per andarsene, il giovane si trovò subito a rinunciare all'idea di aprire la lettera e leggerla, convinto, dalle parole stizzite della figlia della Sforza, che davvero non vi fosse scritto nulla di interessante.

 

Era un'alba gelida, per essere già fine febbraio. Troilo teneva sulle spalle un mantello di pelliccia d'orso che era stato di suo padre.

Sua madre, che da quando era rimasta vedova era molto provata, dormiva ancora. Il resto della rocca di San Secondo, in realtà, sembrava dormire ancora.

Il De Rossi aveva visto, nel cortile, un paio dei suoi uomini far sgambare un cavallo che in quei giorni era molto irrequieto, ma, per il resto, la nebbia e il silenzio parevano gli unici veri signori di San Secondo.

Troilo aveva trascurato la corrispondenza da tutta la settimana e ora si trovava una dozzina di lettere a cui dare risposta. Illuminato dalla candela – perché non faceva ancora abbastanza chiaro da potersene privare – se le passò tutte tra le mani, indeciso su quale affrontare per prima. Le aveva lette tutte, in realtà, anche se frettolosamente, ma non aveva ancora avuto voglia di dare loro risposta solo perché tra di esse mancava quella che aspettava con più trepidazione: quella della sua Bianca.

Cominciava a essere preoccupato e stanco, si chiedeva che cosa avesse portato la giovane a quel silenzio protratto. A volte si dimenticava perfino della promessa che si erano fatti e così, invece di credere che, semplicemente, non essendo successo nulla di grave o eclatante, la Riario volesse ridurre i contatti per paura di qualche spia, si trovava a dirsi che una donna così giovane, bella e disinibita, doveva aver trovato qualcuno di migliore con cui passare le sue giornate, finendo per dimenticarlo.

Gli bastava poco per rinsavire e ricordarsi i giuramenti che si erano scambiati e tutti i progetti fatti assieme per il futuro. Una volta che riportava alla mente le parole di Bianca, la sua voce, il profumo della sua pelle e il blu profondo dei suoi occhi, tornava ad acquietarsi, sicuro che lei lo stesse aspettando, e che, non scrivendogli, stesse solo dando grande prova della sua forza e del suo buon senso.

Aprendo una missiva a caso, non avendo più voglia di scegliere in modo senziente, Troilo si trovò a rileggere una lettera di un suo delatore, che lo metteva a parte delle mire sempre più evidenti di Filippo De Rossi, suo cugino, sulle sue terre. Era un problema non da poco, ma non era una novità.

Molti suoi parenti, specie i suoi cugini, vedevano come un'ingiustizia il fatto che San Secondo e altri paesi vicini fossero tornati nelle sue mani. Per i suoi parenti lui era il Diseredato, figlio un Diseredato e perciò ogni sua pretesa era assurda e confutabile. Se non avevano ancora imbracciato davvero le picche contro di lui era stato perché i francesi, alle sue spalle, facevano ancora paura.

Grattandosi la tempia con la punta delle dita e poi la barba rossiccia e folta, l'uomo sentì il cuore perdere un colpo, nel pensare che, presto, re Luigi avrebbe potuto perdere la sua aura di terrore, e i suoi cugini avrebbero ripreso la loro personale guerra contro di lui. Dipendeva tutto da come il papa avrebbe gestito la sua alleanza con la Francia e dal grado di disinteresse dell'Imperatore verso una possibile seconda campagna di conquista da parte dei Borja.

Era tutto così confuso che il De Rossi cominciò a sentire il mal di testa crescere, tanto che dovette smettere per qualche minuto di leggere, per premersi gli occhi. Era convinto, nel profondo, che se Bianca fosse stata lì con lui, avrebbe potuto chiederle consiglio, e avrebbe ottenuto una via sicura da seguire con cieca fiducia. In fondo la Riario era figlia della Tigre di Forlì e lui stesso aveva avuto modo di vedere quanto avesse imparato da lei...

Imponendosi di non tormentarsi oltre, l'uomo scrisse una breve risposta al suo delatore e poi passò oltre. Tra lettere commerciali e cattive notizie, arrivò al messaggio del suo amico Gian Giacomo da Trivulzio.

Non lo vedeva da tempo, ormai, e gli mancava la sua sicurezza in sé e i suoi modi pacati, ma decisi. La loro amicizia, malgrado la loro forte differenza d'età, era stata solida fin dal principio e anche la distanza sembrava non andare a scalfirla.

Il milanese lo informava del fatto che, forse, in primavera o più probabilmente in estate, il re di Francia sarebbe sceso in Italia, per rimettere ordine, così diceva, nella confusione che il Valentino aveva fatto in Romagna.

Il condottiero non si mostrava né felice né infastidito da quella prospettiva, ma raccomandava a Troilo di non dimenticarsi che re Luigi presto sarebbe stato in Italia e che, probabilmente, sarebbe passato dall'Emilia, prima di scendere in Romagna.

Dopodiché l'uomo gli scriveva che, con ogni probabilità, nel giro di un mese o anche meno, sarebbe stato insignorito di Castell'Arquato proprio dal sovrano d'Oltralpe. In quel modo, sottolineava, sarebbero stati più vicini l'uno all'altro, in caso di bisogno, e anche nel caso avessero voluto trovarsi anche solo per una battuta di caccia o un calice di vino davanti al fuoco.

Partendo da ciò, il Trivulzio ricordò al De Rossi quanto fosse importante fare quadrato perché, seppur araldi del re di Francia, avrebbero avuto terre molto vicine a quelle agognate dal papa per dare un impero al figlio.

Troilo, prendendo il foglio per rispondere all'amico, però, non pensò né al Valentino, né a una battuta di caccia tra amici. Il suo pensiero era uno e uno soltanto: Gian Giacomo era influente e saggio, avrebbe saputo cosa consigliargli, per far sì che lui e Bianca potessero stare vicini senza pericolo, o, ancora meglio, sposarsi anche prima che Astorre Manfredi morisse.

“Sempre che non sia già morto...” borbottò tra sé Troilo, cominciando a scrivere e domandandosi se, in effetti, non fosse un'idea così strampalata.

Un ragazzino, nelle celle di Castel Sant'Angelo ormai da più o meno due anni... Chi poteva essere sicuro che il papa non avesse semplicemente deciso di non dire a nessuno che il giovane signore di Faenza aveva terminato la sua avventura terrena?

Di certo, tramite il Trivulzio, avrebbe scoperto qualcosa. Fu perciò con grande urgenza che scrisse, a fondo pagina un accorato appello: se Gian Giacomo aveva cuore, diceva, non appena fosse stato insignorito di Castell'Arquato, sarebbe stato con lui, per ragionare assieme di cose di importanza vitale.

 

   
 
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