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Autore: settembre17    07/01/2022    15 recensioni
“Nessuno mai sulla terra
ha scoperto da parte d’un dio
un segno certo di ciò che sarà;
la cognizione del futuro è cieca.
Molte cose succedono agli uomini
contro il piacere; altri s’imbattono
in un vortice di pene
e mutano in breve il male
in un bene profondo”
(Pindaro, Olimpica XII)
Il temutissimo (per chi scrive) finale dell’episodio 28 e l’inizio dell’episodio 29. Da qui parte questa piccola storia. Nei primi capitoli il tempo scorre molto lentamente, più all’indietro che in avanti, poi la vicenda procederà secondo una strada diversa da quella originale.
Come sempre nei miei racconti, più introspezione che avventura.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, André Grandier, Oscar François de Jarjayes
Note: Missing Moments, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Buon anno a tutti!
Questo capitolo, a differenza dei due precedenti, è tripartito: Oscar, André, Oscar.
Sempre grazie a chi legge, davvero grazie.
 

CAP. 6 Un altro attendente, un’altra amica

 
La mattina dopo, finalmente ristorata da un sonno mai interrotto, mentre con un insolito buonumore faceva colazione al tavolo della sua camera, sentì uno scalpicciare di zoccoli di cavallo sul viale: non riuscì a controllare l’emozione e si chiese se… forse… Si precipitò fuori alla balconata che dava sull’atrio d’ingresso e vide entrare un uomo in uniforme seguito da un’altra persona. Non distingueva chi fossero per la luce del sole che li avvolgeva, ma poi, quando entrarono nel cono d’ombra della stanza, con delusione riconobbe Girodelle e il suo attendente.
“Girodelle, a cosa devo questa visita?” reagì alla delusione con un mezzo sorriso, stupendosi di quanto si sentisse accomodante e...
“Madamigella Oscar, sono passato da voi prima di recarmi a corte per porgervi un saluto e anche per…”
“Aspettate, scendo.” … ospitale, ecco, si sentiva ospitale.
Girodelle la osservò scalino dopo scalino e intanto la immaginò avvolta di seta, con i capelli raccolti e un ventaglio tra le mani: sarebbe stata meravigliosa, si disse prima che lei si parasse davanti a lui e nel suo tipico tono secco, ma velato di una insolita gentilezza, domandasse:
“Dicevate?”
Allora lui imitò il suo tono, gentile ma formale, e rispose:
“Ecco, ho saputo che il vostro attendente non è più al vostro servizio e così ho pensato che posso lasciare a voi Jacques, che voi ben conoscete e che sarà onorato di servirvi come a voi parrà più opportuno.”
“Vi ringrazio Girodelle, ma non mi…”
“Non dite di no, madamigella, avrete bisogno di qualcuno che si occupi delle vostre necessità e non potete certo allenarvi alla spada da sola. Fintanto che non troverete un sostituto al vostro attendente, contate su Jacques come se fosse un servo vostro. A presto madamigella, il mio dovere mi chiama.”
Lei non ebbe tempo di replicare che lui le aveva dato le spalle e in pochi istanti era già montato a cavallo e galoppava fuori dal cancello.
Rimase con gli occhi sgranati a fissare il punto dell’orizzonte in cui Girodelle era sparito non sapendo se essere più arrabbiata o più sconcertata da quell’iniziativa presa da un uomo al quale aveva sempre dato ordini. Da quando Girodelle le faceva visita a casa? Da quando si preoccupava che lei fosse o meno da sola? E, soprattutto, che se ne faceva ora di Jacques?
 
Eppure quel calore che avvertiva da quando si era svegliata e, ancora in camicia da notte, aveva guardato la sua forcina sul camino non si era raffreddato e le veniva quasi voglia di farsi una risata.
Guardò Jacques da dietro la spalla e lo vide che fissava il pavimento in attesa di ordini, allora si piantò di fronte a lui e, quasi per non fargli un dispiacere, indicando l’edificio dall’altro capo del viale, gli diede il primo compito di quella strana giornata:
“Bene Jacques, prepara il mio cavallo. Ti raggiungo alle scuderie tra pochi minuti.”
Jacques batté i tacchi chinando la testa e poi si diresse fuori verso le scuderie.
 
“Ho sentito delle voci, Oscar, chi era?” la nonna era apparsa nell’atrio e la stava guardando con aria interrogativa.
“Niente… era Girodelle…” rispose tenendo lo sguardo fisso davanti a sé senza guardarla.
“Oh… si fa vedere spesso ultimamente…”
Lei si riscosse, intuendo che in quella frase ci fosse un sottinteso che però non riusciva proprio ad interpretare e così guardò la nonna con aria interrogativa.
Ma lei sembrava divertita e senza aggiungere altro si avviò verso la cucina. Allora, vincendo anche l’ultima esitazione, prima che la nonna sparisse dietro la porta, buttò fuori:
“Hai avuto notizie di… André?”
Non vedeva l’ora di farle quella domanda, da quando si era svegliata aveva provato mentalmente mille modi per chiederle se lui avesse scritto, da quando si era svegliata sentiva che ogni pensiero la portava a lui, che una specie di calore si diffondeva nel suo corpo solo evocando il suo nome, e non avrebbe saputo dire quante volte quella mattina il suo sguardo era stato attratto dalla forcina appoggiata sulla mensola del camino. Ma sopra ogni cosa, da quando si era alzata, aveva sentito il desiderio irresistibile di pronunciare a voce alta il suo nome in presenza di qualcuno, di rendere vero l’esistere di lui nel suo stesso mondo nominandolo. E quando il nome era uscito dalle sue labbra, nella domanda invero insignificante che aveva rivolto alla nonna, aveva sentito qualcosa di indefinibile rimescolarsi dentro di lei, come se quel nome non l’avesse mai pronunciato prima. E così, un istante dopo aver formulato la sua domanda, fu costretta a dare le spalle alla nonna, perché sentì di essere arrossita.
“No, cara, nessuna notizia… ma forse ha scritto a tuo padre…”
La delusione, la seconda delusione della giornata, non scalfì il suo buonumore e lei si avviò verso la sua camera:
“Vado a cambiarmi e poi esco a cavallo, non aspettarmi a pranzo. E voglio che nella mia stanza non sia toccato niente.”
“Come vuoi, Oscar.”
 
Quando fu nella sua camera, dopo essersi cambiata, si avvicinò alla finestra che dava sul viale d’ingresso e vide Jacques che l’attendeva reggendo le briglie di entrambi i cavalli. Lo soppesò con lo sguardo a lungo: era quello che molte a corte avevano definito “un bell’uomo”: alto, i lineamenti regolari, elegante nei modi, sempre impeccabile nell’abbigliamento e nel portamento. Eppure nel guardarlo le scappò da ridere; ma da dove arrivava tutto quel buonumore? si chiese per un attimo, ma lei lo sapeva da dove arrivava:
 
“Girodelle ha un nuovo attendente” lui la guarda con aria divertita dondolandosi sulla sedia.
“Ah sì?” a lei proprio non interessa, si è svegliata di malumore. La sera prima all’ennesimo ballo a corte ha sentito che La Fayette è stato ferito in battaglia e che la guerra in America sarà tutt’altro che breve.
“Si chiama Jacques. Vuoi sapere che cosa distingue Jacques? Che cosa lo rende così… Jacquerelle?” a lui viene proprio da ridere ed è inutile, quando fa così è contagioso.
Jacquerelle?” lo guarda e, contro ogni sua volontà, le viene da ridere, anche se vorrebbe continuare a mantenere un contegno serioso, adatto alle sue preoccupazioni, ma è che… proprio non ci riesce e lui se ne accorge e allora comincia a ridere e anche lei, che ancora non ha capito niente, ride con lui, prima nascondendo il sorriso nel bavero della giacca, poi non ce la fa più:
“Smettila, André!”, ormai ride apertamente e allora lui, tra una risata e l’altra, le dice:
“Ma sì… ahah, Girodelle ha scelto Jacques perché… gli assomiglia! Fisicamente, intendo! È un alter-Girodelle, un… Jacquerelle!!”
 
E così, con gli occhi che ancora luccicavano di ilarità, guardò Jacques che la aspettava: le onde castane dei capelli chiuse dal solito nastro celeste, la postura impeccabile, come si conviene all’uomo che deve fare da sfondo alle apparizioni di Victor Clément Florian de Girodelle.
Si voltò un’ultima volta verso il camino, sentì ancora quello strano calore nella pancia e poi uscì.
 
**************
 
“Vi ringrazio, Monsieur Grandier”, lo sguardo di Honorine Mabeuf era diretto e franco.
“Sono contento del nostro chiarimento, mademoiselle, farò il possibile per voi e per Monsieur Durand, è una promessa.”
Sorrise a entrambi e poi li guidò verso l’uscita.
“Speriamo di rivedervi presto, Monsieur Grandier, quando ripartirete?” chiese Durand.
“Al massimo fra tre giorni, vi farò avere presto notizie, non temete.”
“Allora fate buon viaggio e grazie ancora per la vostra comprensione, è raro trovare una persona così diretta e così disponibile, monsieur. E vi ringrazio anche a nome del mio povero padre che, credetemi, non avrebbe potuto comportarsi diversamente. Gli eventi l’hanno costretto a fare quello che ha fatto e…”
“Lasciate stare, davvero, mademoiselle, è tutto chiaro.”
Li salutò e rimase a guardare il calesse che si allontanava, mentre Honorine si teneva con la mano il largo cappello di paglia e Durand incitava il cavallo.
 
“Bene, André, ora non puoi più rimandare”, si disse, “è ora di pensare al tuo futuro.”
Prese il cavallo e lo lanciò al galoppo verso le dune di sabbia che lo dividevano dal mare. L’aria gli entrava nei polmoni, gli liberava la fronte dai capelli, gli solleticava le ciglia, gli gonfiava il mantello sulla schiena. Allora chiuse gli occhi e stringendo le cosce sui fianchi del cavallo abbandonò le mani sulle gambe facendosi investire dal vento. Capì che cosa volesse dire “essere libero come l’aria” e si accorse con struggimento che in quella assoluta libertà era ancora prigioniero. Prigioniero di un unico pensiero.
Poi, una volta sulla riva, scese da cavallo e si mise a camminare sulla battigia. Raccolse un ciottolo levigato e, mentre lo accarezzava nella mano, tornò con la mente a qualche tempo prima. Al tempo in cui Fersen era ospite a palazzo e lui trovava sollievo al tormento nei pochi momenti in cui poteva godere della compagnia di Léonie.
 
Léonie, seduta su uno sgabello, nel cortile sul retro pulisce una gigantesca pentola incrostata di unto: ha le maniche rimboccate e in mezzo alle gambe aperte ha la pentola che tiene ferma con le ginocchia e che sfrega energicamente con una pezza.
“Senti, la vuoi smettere di guardarmi con quel sorrisino e darmi una mano?”
“Oh, no, non mi permetterei mai di darti una mano. Tu sai fare tutto no?”
“Sei un idiota, André. Quando ho finito con questa maledetta liscivia ti faccio una carezza, vuoi? Sentirai che manina morbida!”
“E dai, scherzavo. Dammi quella pezza, vado un po’ avanti io.”
“Grazie, non mi sento più le braccia. È la quinta che pulisco. Guarda, io te lo dico, quello svedese lo odio”.
“Léonie…” dice lui con tono di rimprovero ma con il sorriso che guizza negli occhi.
“No, sentimi, non scherzo. Ti rendi conto che è qui a fare il parassita da dieci giorni? E sono dieci giorni che noi si cucina come se dovessimo sfamare un reggimento! Che poi, mi ha detto Juliette, che quello neanche mangia di gusto. Dice che sta lì, con la forchetta a mezz’aria, sospira, gli vengono gli occhi lucidi… e poi manda indietro il piatto ancora pieno! Ma ti rendi conto? C’è gente in cucina che comincia a credere di non saper più preparare un piatto decente, eh!”
Lui non riesce a trattenere una risata.
“E poi non ti dico lavare le lenzuola, a quello lì. Ogni tre giorni, dico, ma siamo matti? Tanto lavo io, no? Che poi portasse almeno un po’ di allegria, quello stoccafisso!”
“Beh, Léonie, non essere ingiusta, è considerato uno degli uomini più affascinanti di…”
“Ma chi? Quello lì? A me proprio non mi fa sangue… gli ho visto le mani, l’altro giorno mentre rientrava a cavallo: tiene le redini in punta di dita, fa così – e mima lo svedese con la bocca all’ingiù, gli occhi socchiusi e le punte delle dita unite a reggere briglie immaginarie - Io quelli che toccano le cose come se avessero solo il pezzo di dito dell’unghia…”
“l’ultima falange…” dice lui chino sulla pentola,
“… ecco, che bravo che sei tu, bravo ragazzo istruito! – gli dà una pacca sulla spalla - Comunque, dicevo, quelli che toccano le cose come se avessero solo l’ultima falange e che non toccano con tutta la mano, capisci?, dita e palma…
“palmo…”
“La smetti? E poi sono sicura che si dice ‘portare in palma di mano’…”
Lui alza gli occhi al cielo e tace continuando a sfregare.
“E comunque, se tanto mi dà tanto, quello svedese lì non sa nemmeno che cosa vuol dire allargare bene la mano sul didietro di una donn…”
“Ma Léonie, ti prego! Possiamo cambiare discorso? Ecco, ho finito, la lascio qui ad asciugare?”
“Sì, grazie. Ti va una pausa?”
Lui non dice niente e sorride, poi con le mani in tasca si incammina verso l’argine del canale che costeggia la proprietà. Si siedono sulla sponda, all’ombra di un tiglio.
“André?” lei guarda lontano, è diventata seria.
“Sì?”
“Tu pensi mai al tuo futuro?”
“Cerco di farlo il meno possibile” dice con sincerità.
“Ma tu… pensi di morire da servo? Io no, André. Io non voglio.”
Raccoglie le ginocchia al petto e ci appoggia sopra una guancia, poi prosegue:
“Non fraintendere, sono riconoscente al generale e voglio bene a tua nonna. E so che tra tutte le famiglie nobili che ci sono a noi è andata bene. Ma… io sogno di essere una donna libera, un giorno, André.”
“Libera da chi?”
“Libera! Da tutto! Libera dai nobili, libera dal generale, che può disporre di ogni ora della mia giornata, che può decidere della mia vita in un battito di ciglia, che può decidere se mi sposerò e con chi. Non è giusto, e tu lo sai.”
“Se il generale non mi avesse accolto, la mia vita sarebbe stata molto più triste e vuota.”
“Questo non lo puoi sapere, André.”
“Fidati, lo so.”
Poi, allungando le gambe sull’erba, lui le chiede pensieroso:
“Léonie… pensi davvero che sia possibile essere liberi? Se tu potessi venire con me a Versailles… A volte guardo tutti quei nobili e mi sembrano più servi di me, sai? Servi del re, dell’adulazione, del potere, della ricchezza, dell’ostentazione… A volte mi sembrano creature così infelici, Léonie…”
Lei scuote la testa sorridendo, si alza rassettandosi il grembiule e scende al canale a sciacquarsi le mani. Lui la segue, poi le porge il fazzoletto per asciugarsi e lei lo stropiccia tra le dita energicamente, poi dice:
“Io odio i nobili. I nobili hanno un servo per tutto. Un nobile non sa fare nulla di pratico da solo. Persino se piange ha un servo che gli porge il fazzoletto, ti rendi conto? Santiddio, tieni un fazzoletto in tasca, no? Invece sai per cosa usano i loro preziosi fazzoletti? Per scambiarli di nascosto con le dame o per sventolarli sotto al naso della gente, così mettono in mostra pizzi e ricami. Oppure li imbevono di profumo e se li premono sul naso per non essere costretti a sentire gli odori della plebe o lo sterco di cavallo. Poi però quando devono riempirlo del loro schifoso moccio o delle loro lacrime, indovina? Chiedono il fazzoletto al cameriere! Dio che parassiti, non li sopporto!”
Si inerpica sull’argine alzando la gonna sopra le caviglie con entrambe le mani e ignorando la mano che lui le porge per aiutarla a salire.
“Faccio da sola, grazie.”
Lui è ancora pensieroso, concentrato.
“Ci sono molti tipi di servitù, Léonie e alcuni sono così puri… Mio padre avrebbe sacrificato sé stesso per me e per mia madre… al Café Procope a volte ho sentito i discorsi di persone che sarebbero disposte a morire per i loro ideali… Rosalie si sarebbe prostituita pur di dar da mangiare a sua madre… Siamo tutti servi di qualcuno o di qualcosa, Léonie, è solo una questione di prospettiva.”
Lei allora sposta lo sguardo nel suo e con decisione dice:
“Sai cosa ti dico, André? Io non so se ho capito quello che hai detto, parli troppo difficile per me a volte. O forse mi reputi più intelligente di quello che sono. Ma io ti dico questo: se è come dici tu e siamo tutti servi di qualcuno o di qualcosa, io voglio essere libera di decidere di chi o di che cosa essere serva, allora. Poi magari, da donna libera bada bene, deciderò - calca sulle parole tenendo il dito medio alzato verso la punta del naso di André - di venire a servizio dal generale lo stesso, perché… – abbassa l’indice e con entrambe le mani si aggiusta il fiocco del grembiule sulla schiena con fare fintamente distratto - stare qui mi piace… e tu alla fine sei un ragazzotto simpatico, sai?”
Poi gli strizza l’occhio con fare impertinente e lui scuote la testa fingendo rassegnazione.
“Ma da donna libera, André.”
Poi lei gli dà un bacio sulla guancia, gli sorride e nell’allontanarsi grida:
“Ah, che cosa faresti senza di me! E domani mi devi aiutare con i vetri del salone! Sai com’è, abbiamo ospitiiii!!!”
Lui ride di cuore e la vede sparire nella porta sul retro.
 
Allora André, nella luce di un pomeriggio normanno di marzo, sentì che ogni cosa andava a posto, che sapeva esattamente quello che avrebbe fatto e che lo sapeva con una tale chiarezza che non avvertiva alcun tumulto nel cuore, solo la calma che deriva dalle decisioni definitive.
Essere libero di decidere di chi o di che cosa essere servo
“Torno da te, Oscar. Torno da te.”
La immaginò fredda, glaciale, altera come solo lei sapeva essere.
“Non ti chiederò niente. Non avanzerò alcuna pretesa. Manterrò la distanza che tu vorrai impormi. Ma torno da te.”
La immaginò nella sua uniforme, il passo marziale, la spada agganciata sul fianco.
“Non importa se non vuoi più pensare all’amore. Non importa se non è me che ami. Non importa se dovrò vederti convinta di poter vivere come un uomo. Torno da te.”
La immaginò a Parigi, in mezzo ai rozzi e brutali soldati della Guardia.
“Credi che non l’abbia saputo? La nonna mi ha scritto apposta per dirmelo. Tu sai in che posto stai andando? Lo sai quanto ti metteranno alla prova quei soldati? Potrebbero anche rifiutarsi di obbedirti. E so che tu pensi di farcela da sola, e forse è vero. So che pensi di non aver bisogno di me, e forse è vero. Ma io sarò lì, per te, per quella parte di te che in mezzo a tante facce sconosciute, cercherà il conforto di un amico. Torno da te, torno da te.”
La immaginò furente di fronte alla sua scelta di seguirla comunque, nonostante lei l’abbia congedato.
“Mi hai dato tu la libertà, Oscar. Potrei fare molte altre cose, sai? Potrei quasi vivere di rendita con i miei risparmi. Potrei trovare un lavoro in città e comprare un piccolo appartamento per me e per la nonna. Bernard mi ha offerto di aiutarlo più di una volta, in effetti… Potrei partire da Parigi, dalla Francia e vivere dove voglio: qui in Normandia, in Provenza, a Venezia o a Firenze… Potrei fare l’amministratore di questa proprietà, potrei allevare cavalli, potrei fare il giornalista, potrei salire su una nave e attraversare l’Oceano… Potrei mettermi un sacco sulle spalle e non tornare più… Potrei essere amato, Oscar. Potrei trovare una donna, potrei avere una famiglia. È questa la libertà, Oscar?”
Prese il sasso che lisciava tra le mani da quando era smontato da cavallo. Era piatto, liscio, grande quasi come il suo palmo: lo posizionò tra il pollice e l’indice della mano destra, poi curvò leggermente il busto e con un movimento secco del polso lanciò il sasso sul pelo dell’acqua. Al quarto balzo il sasso affondò. Lui sorrise.
“Torno da te, torno da te, amore mio.”
 
****************
 
Tornò in camera sua sconvolta: la mente che velocissima esaminava pensieri, parole, ricordi, il cuore messo a tacere con la forza della volontà. Fece sbattere la porta alle sue spalle e si diresse alla porta finestra. La rabbia, - ma verso chi di preciso? verso Jacques? o verso sé stessa? -  l’aiutava a controllare le lacrime, a non piangere.
Non voleva piangere.
Uscì sul terrazzino e allargò le mani sulla balaustra, cercando di controllare un tremito che non accennava a diminuire. L’orizzonte mostrava i colori del crepuscolo e, sul retro del palazzo, il sole moriva nell’aria tersa di marzo.
Nulla di quella bellezza la colpiva. Non la vedeva nemmeno, quella bellezza.
 
Era andato tutto storto: la giornata che lei aveva iniziato con una leggerezza nuova si era progressivamente trasformata in un crescendo di sofferenza.
 
Si era illusa che lui fosse tornato: invece si era trovata davanti Girodelle e Jacques.
Aveva chiesto alla nonna notizie di lui: non c’erano notizie di lui.
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui!
 
Era uscita a cavalcare: non sapeva dove andare. Qualunque posto le ricordava lui e portare Jacques in uno di quei posti le sembrava una… profanazione.
Allora erano finiti nella radura dove lei e Girodelle si erano battuti la prima volta, Jacques nemmeno lo sapeva, e lì lei gli aveva chiesto di duellare.
Lui, obbediente, si era preparato all’allenamento.
E come era stato quel duello?
“Perfetto, naturalmente”, si disse. Poteva Girodelle scegliere come attendente uno spadaccino meno abile? Certo che no.
Ma.
Ma lei non si era divertita. Per niente.
Duellare con Jacques era divertente come ripetere le cinque declinazioni, i paradigmi dei verbi irregolari.
Duellare con André… era… emozionante. Come tradurre Virgilio e Orazio, come leggere Shakespeare e il Don Chisciotte!
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui! Vieni a duellare con me!
 
Poi aveva voluto andare a Parigi.
“Portami a bere, Jacques!”
Lui l’aveva guardata, interdetto:
“Madamigella, io vi seguo e vi aspetto fuori. Non mi permetterei di accompagnarvi in un café o in una taverna…, non sarebbe… appropriato…”
Lei l’aveva fulminato con lo sguardo e aveva sentito con insofferenza che la presenza di Jacques le era di peso anziché di aiuto. Si sentiva in dovere di includerlo nella sua giornata, di coinvolgerlo in quello che desiderava fare, ma…
Ma a lui non importava niente di quello che lei faceva o che lei voleva fare! Lui… obbediva!
Non sapeva che farsene di un accompagnatore ubbidiente!
E così aveva chiaramente capito che fare l’attendente era per Jacques un lavoro, un lavoro che certamente lui svolgeva con encomiabile zelo, ma comunque un lavoro.
Che cosa stai facendo in Normandia, André! Torna qui! Portami a bere, André!
 
E allora, mentre procedevano al passo verso Parigi, lei, con gli ultimi brandelli di buonumore che le erano rimasti e che ormai si stavano sfilacciando sempre più, aveva voluto indagare un po’ sul “mestiere dell’attendente”, del quale si era accorta di sapere ben poco, visto che non si era mai sentita in dovere di mettere confini tra la vita di André e il suo incarico come attendente.
Così aveva chiesto, con un finto distacco:
“Quali incombenze svolgi di solito per il capitano Girodelle, Jacques?”
“Oh, madamigella Oscar, la mia giornata inizia al mattino presto, preparo i cavalli e attendo il capitano, poi ci rechiamo alla reggia. Nel tardo pomeriggio, dopo un allenamento alla spada nella palestra di palazzo Girodelle, pulisco le armi e ne controllo l’efficienza, sistemo i cavalli nella scuderia, lucido gli stivali in modo che siano pronti per il giorno successivo…”
“E poi?” l’aveva interrotto, era sovrappensiero.
“E poi… sono libero… fino alla mattina successiva.”
 
Sono libero. Sono libero. Sono libero.
André non era mai libero. Non ufficialmente libero.
Si sentì una tiranna senza cuore. Un’egoista. Un’approfittatrice.
 
Ma proseguì, perché aveva intuito che c’era dell’altro con cui farsi davvero male:
“Hai mai pensato al tuo… futuro, Jacques?”, eccola, la domanda che mai aveva fatto ad André. La domanda che a volte le era arrivata sulle labbra e che lei aveva sempre ricacciato giù perché aveva troppa paura della risposta.
 
Ricordava una volta che era stata a un passo dal chiederglielo, in una bettola di Parigi.
L’obiettivo non dichiarato della serata è ubriacarsi: lei è tristissima, lui pare aver esaurito il repertorio con cui farla divertire. Fissano i boccali di birra davanti a loro, ciascuno perso nei suoi pensieri; lei si allontana con la mente sempre di più e a un certo punto si immagina Fersen che, tornato dalla guerra, arriva in quel posto lungo la Senna, fende la folla di distratti avventori, la prende per mano, la fa alzare e le dice: “Madamigella Oscar, io vi amo!” e poi la porta via sul suo cavallo.
“Cose degne di mia nipote Marguerite… ma davvero c’è stato un tempo che fantasticavo in modo così… dozzinale?” si era chiesta per un attimo.
Ad ogni modo, quando si ridesta da quella fantasticheria, vede André perso in chissà quali pensieri e si sente un po’ in colpa per quella sua rêverie, che prevede appunto di lasciare lì André senza nemmeno un saluto. Così, per farsi perdonare il suo non-comportamento nella non-realtà che aveva immaginato e non-vissuto, avverte il bisogno di rompere il silenzio e le sale alle labbra quella domanda: Hai mai pensato al tuo futuro, André?
E invece, con un’improvvisa istintiva paura di quello che lui potrebbe rispondere, chiede: “E se passassimo al vino, André?”.
 
Intanto Jacques, che nemmeno si era accorto di quanto lei si fosse allontanata dalla conversazione per seguire il filo della memoria, dopo aver cacciato con il frustino due cani randagi che gli sembrava avessero la schiuma alla bocca e che si erano avvicinati troppo ai cavalli, aveva ripreso la conversazione:
“Il mio futuro… Oh, sì, certo, madamigella. L’incarico di attendente è la migliore opportunità che mi potesse capitare. Ho un buono stipendio e sto risparmiando perché…” si era interrotto arrossendo e chiedendosi se quella conversazione non stesse diventando troppo… amichevole.
“Perché…?” lei aveva provato una strana curiosità.
“Vedete… c’è una signorina… una cameriera di palazzo Girodelle… e… mi piacerebbe avere una famiglia, ecco. Forse tra un paio d’anni riusciremo ad affittare una piccola casa nelle proprietà del capitano e allora…”
Era andato avanti a raccontare, per la prima volta in quella giornata infervorato e accalorato.
 
Lei aveva forzato un sorriso, ma qualcosa la trascinava sempre più giù, più giù.
Come aveva potuto ritenere ovvio che ad André andasse bene dedicare la sua vita a lei?
Che presunzione, che arroganza!
Girodelle sì che rispettava le persone al suo servizio! Si preoccupava del loro futuro! Lei invece che cosa era stata per anni? Una padrona senza cuore, ecco che cosa era stata! Come se André fosse cosa sua! Come un servo! Anzi no, come uno schiavo!
Si odiò ferocemente.
 
Ma ancora non era finita. C’era ancora un mare di dolore in cui affondare, un mare che lei conosceva e che stava scientemente ignorando dal giorno precedente, un mare dal quale nessun ricordo dell’infanzia, nessun duello di mezzanotte, nessuna sbronza parigina, nessuna forcina d’argento avrebbero potuto salvarla.
E allora lei aveva sentito dentro di sé che era un bene che André quella mattina non fosse tornato, che non avesse incontrato quella lei allegra e leggera. Che non si poteva risolvere tutto con un sorriso e con un “André credo di aver capito di amarti”, dio che stupida! Come poteva anche solo averlo vagamente pensato!
C’erano cose che lei ancora doveva affrontare, c’era ancora quella scatola sul suo pianoforte!
 
Stava già pensando di congedare Jacques con una scusa e di tornare a casa, quando aveva afferrato una frase nelle parole dell’ormai loquace Jacques:
“… certo che André, poveretto…”
Poveretto?
“… una disgrazia così…”
Lo aveva guardato con lo sguardo interrogativo, gli occhi sbarrati, le palpebre che avevano dimenticato il loro ritmico movimento:
“Che cosa hai detto?” la voce incolore.
“Dicevo che tutti noi, noi attendenti intendo, siamo molto dispiaciuti per André. L’avevamo già avvertito quel giorno che si è presentato in caserma con i capelli corti, Alphonse lo diceva sempre: tagliarsi la coda equivale a una dichiarazione di guerra a Versailles! Insomma, come poteva pensare di restare in servizio pettinato come quel ladro mascherato?”
Lei lo aveva guardato inebetita, ma non lo aveva interrotto, troppo interessata a quello che evidentemente lui aveva ancora da dire.
“E poi… beh… quando abbiamo visto…” e Jacques aveva abbassato lo sguardo con evidente commozione “quando abbiamo visto… la cicatrice…”
Lei aveva avuto un capogiro e aveva stretto involontariamente le cosce sui fianchi del cavallo,
“… ecco, era evidente che si trattava del taglio di una lama… di una spada…”
“Ve l’ha detto lui?” aveva chiesto con la voce bassa, grave come l’ultimo tasto del suo pianoforte.
“Oh, no. Lui non ha mai detto niente. Né dei capelli né dell’occhio. Ma non è più venuto a bere con noi. Mai più. Forse non voleva che noi facessimo domande… lo capisco. Immagino che dolore anche per voi, madamigella…”
“… per me?”
“Dover rinunciare a un uomo che vi è stato fedele per anni… ma del resto come può restare a servizio della casa di un generale un uomo che ha l’aspetto di un rivoluzionario? E come può continuare a fare l’attendente un uomo ormai guerc… ah!”
Il sangue le era arrivato all’improvviso, tutto insieme alla testa, lo aveva sentito formicolare al di sotto dei capelli, poi era piombato giù, fino ai suoi piedi lasciandola con le labbra livide, dello stesso colore della pelle del viso. L’aveva preso per il bavero e lo fissava, occhi negli occhi, i nasi che quasi si toccavano, poi la voce era uscita, un sibilo tagliente:
“Non azzardarti mai più a pronunciare quella parola riferendoti ad André. E non presumere di sapere quello che non sai. Ora puoi andare, la tua giornata al mio servizio è terminata. Non tornare domani.”
“Ma madamigella, il mio padrone…”, lui era paralizzato da quella reazione, la versione più violenta e agghiacciante che si fosse mai vista della celeberrima “glacial furia” del colonnello, come la chiamavano in caserma.
“Scriverò io a Girodelle, e non preoccuparti, questa conversazione non rientra nelle cose che intendo riferire a lui.”
Poi aveva tirato le briglie ed era corsa indietro, verso casa, incitando il cavallo con una violenza che il povero animale subiva senza colpa alcuna; avvertiva che la luce del mattino si era ormai trasformata nelle tenebre della sera.
 
E mentre cavalcava i ricordi, muti, di una notte che mai, mai avrebbe voluto rivivere ma che ora doveva rivivere.
Loro due euforici cavalcano nella notte. All’improvviso un uomo avvolto in un mantello nero. Indossa una maschera. Lei è trionfante: eccolo, finalmente! Caduto nella trappola!
Ma lui non è affatto interessato a lei, lui vuole giustizia, lui vuole vendetta, lui vuole André.
Inizia il duello: quello attacca senza pietà e con notevole tecnica, André si difende. Non vuole ferirlo. Lei non capisce più chi sia uno e chi sia l’altro.
La soddisfazione di averlo stanato scivola sempre più verso una indefinita paura, un senso di tragedia incombente non le dà scampo.
E poi in quel ricordo senza suoni, un grido assordante che strappa l’aria, il cielo e le stelle tutte.
 
Aveva incassato il collo nel bavero mentre il cavallo galoppava, come se il colletto della giacca potesse arrivare a tapparle le orecchie per non sentire il suo nome “Oscaaar” graffiato dalla voce di lui distorta dal dolore.
 
E allora lei lascia cadere la pistola, dimentica il cavallo, la spada, quel maledetto ladro, perché può fare solo una cosa.
Corre, corre verso di lui, corre e non riesce a respirare
Credo… di averti sempre amato, André
Gli prende la mano che lui contorce nell’aria
Credo di averti sempre amato
Riesce solo a dire il suo nome mentre guarda il sangue scendere sulla sua guancia
Credo di averti sempre amato
Raccoglie la maschera da terra e la fissa stranita. La mette in tasca.
Credo di averti sempre amato, André.
 
E così era arrivata a casa mentre ancora ripeteva quella frase, credo di averti sempre amato, così semplice e così vera, roccia immobile nella bufera che era il suo cuore, ed era balzata giù da cavallo e volata nella sua stanza.
 
Allargò le mani sulla balaustra e piegò la testa fino a toccare il petto con il mento.
E lo sapevo, lo sapevo che tu mi avevi sempre amata. Lo sapevo, André.
“Sono contento di essere stato ferito io e non tu, davvero.”
Lo sapevo ma ho preferito ignorarlo.
 
Sentì che doveva andare avanti a ricordare. Che doveva affrontare la sua colpa, la sua responsabilità.
Lo rivede entrare nella sua cella al Palais Royal
“André!”
Lo vede galoppare nella notte, dopo che l’ha liberata, dopo che hanno catturato il Cavaliere Nero, per l’ultima volta spensierato
Lo vede paralizzarsi all’improvviso per il terrore della cecità
Ti accechi
Le parole del dottore
Ti accechi
“Sono contento di essere stato ferito io e non tu, davvero”
Ti accechi
Lei che corre in cerca di vendetta
Lei che rinuncia alla vendetta
Ti accechi
Lei che invece di vendicarsi corre in biblioteca e apre la scatola color carta da zucchero: la forcina di Marte e la maschera nera, eccole lì
Due regali di André che lei ha rovinato.
 
Strinse i pugni ormai ghiacciati sulla pietra della balaustra e poi entrò in camera; non guardò il camino e si diresse al pianoforte, chiuso da giorni, sul quale era ancora appoggiata la scatola color carta da zucchero.
La aprì.
Prese l’unica cosa rimasta sul fondo, la stese tra le mani e la guardò: un pezzo di stoffa chiuso da un fiocco ancora stretto in modo da formare una fascia. Un pezzo di stoffa lungo, rettangolare, nero; sul lato opposto al nodo un foro da un lato, dall’altro un altro foro reciso a metà. I bordi del taglio erano slabbrati e al tatto sentiva che in alcuni punti la parte liscia di raso si trasformava in una superficie più in rilievo e più ruvida… grumi di sangue.
Del sangue di André.
Crollò a terra, seduta tra le sue ginocchia, le spalle scosse dal pianto più violento che era mai uscito dal suo corpo.
Piangeva.
Piangeva e teneva sul petto quella maschera imbrattata di sangue.
Piangeva e avrebbe voluto piangere per sempre.
 
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So che il pianoforte è un anacronismo per l’epoca di Oscar, ma fingo di non saperlo come Dezaki.
   
 
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