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Autore: JSGilmore    07/01/2022    1 recensioni
Rachele ha sedici anni e due fratelli, Elia e Filippo, che non potrebbero essere più diversi tra loro. Elia è avventuroso, indipendente, un viaggiatore con l'ossessione per il mare, e dopo la morte del padre gli hanno affibbiato il ruolo scomodo di capofamiglia, forse è per questo che ha sempre quel fastidioso atteggiamento paternalistico. Filippo, d'altro canto, è legato visceralmente alla terra ferma, alla sua casa, alla famiglia. Entrambi hanno una passione in comune: Rachele, la sorella, che di sorella sembra aver ben poco. Tutto comincia quando Elia torna a casa dopo tre anni passati in mare a girare il mondo in barca a vela, le cose a casa sono cambiate, Rachele è cresciuta e Filippo è diventato più possessivo nei suoi confronti...Quasi quanto lui.
Qual è il mistero che si cela dietro la loro famiglia? Di quali segreti Rachele sembra essere all'oscuro?
Un'avventura, un segreto, un mistero, un amore impossibile. Sullo sfondo una meravigliosa Isola d’Elba.
"E ricordati di non avere paura del vento, perché muove il mare e lo preserva dal diventare melma".
Escape vi aspetta in questa versione "inedita" con contenuti extra non presenti su Wattpad.
(Crediti: storia Liberamente ispirata a Georgie e Outer Banks)
Genere: Avventura, Romantico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: Incest | Contesto: Contesto generale/vago
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Il boschetto di querce sopra di noi era invaso dagli insetti. La luce obliqua del pomeriggio rifletteva il biancore della ghiaia.

Sorseggiavo un succo di frutta alle more, in equilibrio sull’amaca e poggiate sul mio grembo c’erano le gambe di Filippo. Mio fratello aveva i palmi dietro la nuca, una spiga di grano incastrata tra le labbra e gli occhi incontenibili e azzurri. Dalla tasca gli penzolava la catenella della vecchia bussola di rame di nostro padre.

Davanti a me l’erba incolta, una siepe di rododendri, un sentiero selciato, il terriccio di ghiaia, le raffinate venature sui tronchi di quercia e un cespuglio di rose, piantato anni prima da Elia.

Il momento esatto in cui le sue mani robuste erano affondate nella terra lo ricordavo più come un sogno, appartenente a un’epoca vaga e profondamente tranquilla. Mani tenaci e forti, così sensibili che quando stringevano qualcosa se ne poteva quasi avvertire il tocco, così autoritarie che donavano un’aura di padronanza a tutti gli attrezzi di cui si serviva. Nelle sue mani c’era qualcosa di unico e splendido, penetrato nella profondità della carne, qualcosa che lo rendeva solido e compatto. Riusciva a far crescere qualunque tipo di pianta e lui fioriva insieme a loro.

In quel periodo, il sogno di Elia di viaggiare per il mondo su una nave mercantile aveva creato una disarmonia cronica tra lui e Filippo.

Elia era diventato presto un nomade. Come nostro padre, che se ne andava, riappariva e ci raccontava di tempeste devastanti, spedizioni sventurate, marinai naufragati e capitani pazzoidi. Il mare per loro era come un territorio vibrante e selvaggio, popolato da indomite canaglie. Ricordavo di una storia sussurrata quando noi tre figli eravamo sotto il dolce tepore delle coperte. Quella di una nave di morti che andava alla deriva con le vele nere stracciate e penzolanti. Scivolava nei gelidi fondali dell’oceano e noi nel sonno.

Mio fratello aveva inseguito le orme di nostro padre.

Quando tornava a casa dopo le sue piccole trasferte in Europa, il racconto dei tristi episodi accaduti durante i suoi viaggi veniva accolto da Filippo con uno scuotimento e dondolamento affranto della testa, e non ero affatto sicura se quel che provava era dolore per la tristezza della storia, oppure invidia perché si trattava di episodi ben più drammatici di quelli che poteva riferire lui.

Gli era sempre piaciuto a Elia tornare a casa, sostare la sera in terrazzo a conversare, tutti e tre, con l’odore dello zampirone, posaceneri traboccanti di sigarette e qualche liquore rubato dalla vecchia dispensa di nostro padre.

Si abbandonava sulla sedia, si portava alle labbra un calice di Merlot e mi riservava occhiate complici: gli occhi scuri sbocciavano dall'ombra dei suoi capelli castani e luccicavano come monete. Dopo una sorsata di vino, tra le labbra screpolate gli si formava un alone violaceo che inumidiva con la lingua e si perdeva a guardare le stelle. Se solo avesse potuto avrebbe navigato anche in mezzo a quelle.

Una volta Elia disse che attraversare le tempeste violente in mare era una forma brutale di claustrofobia, un po’ come essere intrappolati dentro una scatola che rotola. La vera claustrofobia io l’avevo provata quando era partito. L’unico momento della giornata in cui respiravo era quando mi sedevo sugli scogli da sola, di sera, avvolta in un sacco a pelo, nel vento invernale pieno di iodio. Il lento boato delle onde che si abbattevano ai miei piedi. Il sibilo effervescente dell’acqua che si spandeva sulla sabbia e si ritirava. E pensavo che forse oltre i flutti nebbiosi c’era davvero un ragazzo in mezzo a una tempesta; entrambi cercavamo di sopravvivere a solo a un mare di distanza, sul ciglio di un orizzonte nero, rinnegati dallo stesso sole.

Prima di partire Elia non aveva tutta quell’aria vissuta. Non aveva tutto quel mistero negli occhi. Il suo aspetto non era stato ancora stravolto dal disordine crescente dell’esistenza.

Oltre il verde lattiginoso delle chiome degli alberi, gli uccelli volteggiavano sopra di noi nel cielo terso. Il profumo d’erba e il caldo che risaliva dalle pietre erano abbracci cordiali.

Lo zio aveva la faccia incartapecorita, era a torso nudo, pozze di sudore negli incunei del torace, seduto di fronte a noi sul tavolo rotondo di pietra con una bandana azzurra sulla fronte. Beveva vino fatto in casa e fumava la pipa. La sua pelle bagnata, lucida e vagamente rossa ricordava la buccia di una susina raggrinzita. Il suo cane, Isidoro, un vecchio meticcio color panna, era spalmato sul terreno circondato da un piccolo sciame di moscerini. Era il cane più pigro del mondo.

Eravamo in giardino, sul retro del villino di nostro zio: aveva commissionato la schiaccia briaca a nostra madre e noi, da beneducati, gliel’avevamo portata di persona, per rimediarne una fetta.

«Allora, dimmi un po’ Rachele, cosa avete pescato tu ed Elia stamani?», domandò lo zio.

Il silenzio attorno a noi era assoluto: il canto degli uccelli si era disciolto nell’aria e il vento aveva smesso di soffiare, imponendo la presenza di un ancor più calda e soffocante aria ferma.

«Nulla, zio, abbiamo visto uno Yacht a un certo punto; Elia lo ha inseguito, così ci hanno fatti salire a bordo e abbiamo mangiato del caviale.»

«Con Elia non ci si annoia mai, vero?», gli occhi chiari e curiosi scintillarono, «Ma dov’è adesso, il ragazzo?»

«A dormire, suppongo», disse Filippo, «O forse con Angelica Giordani, la vipera

Lo zio aggrottò la fronte, tra il sospettoso e il divertito. Adesso Filippo si tastò i bermuda di tela, alla ricerca delle cartine e del tabacco. Avvertii il crescente e disperato bisogno di una sigaretta.

«Ha fatto ubriacare Rachele alla festa a Marina, di proposito. È una vipera egocentrica, zio, vuole tutte le attenzioni su di sé, e il problema sai qual è? Che Elia gliele da. Lui lo nega, ma so che si frequentano.»

Lo zio puntò gli occhi nella mia direzione, come per ricevere conferma ma io non ne sapevo niente. Erano anni che Elia mi teneva fuori dalle sue questioni. «Per quel che mi riguarda, Elia può fare ciò che vuole. Angelica non è così male, in fondo.»

Filippo serrò la mandibola e tirò un sospiro di bruta sopportazione. «No, infatti, non è così male per essere la figlia del demonio.»

Ci fu un acceso scambio di sguardi. Filippo si fece vedere sovrappensiero mentre fumava la sigaretta e lo zio sorrise con amabile stanchezza. A parlare di Elia si finiva sempre con un umiliante silenzio, con teste che si voltavano dalle parti opposte come vittime di un campo magnetico troppo intenso.

«Questa sera c’è la corsa in paese», disse lo zio, «Ci andrete?»

San Piero sorgeva su un ammasso di pietre dall’elevata sporgenza granitica e ogni anno, verso metà luglio, organizzavamo la corsa: una gara spericolata, la cui partenza si trovava accanto al tendone sozzo e sfilacciato del giornalaio, sulla cima di una strada ripidissima che portava alla spiaggia. L'arrivo era contrassegnato in prossimità di una piazza, tristemente nota come il parcheggio: non era un vero parcheggio ma i motorini dei ragazzi erano eternamente accatastati vicino alle rocce o ai pali della luce. Per scendere fino a laggiù non erano ammesse né macchine né moto, i partecipanti dovevano pilotare una sottospecie di Go-Kart, che da queste parti significa ammasso di ferro arrugginito privo di qualsiasi motore se non l’accumulo folle di energia cinetica.

«Andremo a dare un’occhiata, ci sarà parecchia gente», disse Filippo e mi passò una sigaretta.


Quella sera, la luna non era la solita pietra incastonata nel cielo ma piuttosto una tonda vescica purulenta sospesa nell’oscurità, in procinto di scoppiare. I forestieri erano accalcati in una fila disordinata al Bar Centrale, sotto gli ombrelloni della Sammontana. In piazza c’era un vago odore di pannocchie bruciate, mandorle e cioccolato fuso.

Massimo, Alice e Dumbo mangiavano un cono gelato su una panchina. «Quest’anno, finalmente, mi sono iscritto anch’io», disse Massimo, «Si vocifera che in palio ci sia un premio speciale, ma acqua in bocca.»

«Tu che partecipi alla corsa? Ma guardati, non sai nemmeno annodarti un paio di scarpe!», esclamò Alice e gli occhi di tutti caddero sulle sue converse nere i cui lacci erano infilati dentro i calzini alla rinfusa.

La strada era macchiata da pozze giallastre di luce proveniente dai lampioni. I Go-Kart erano schierati sulla linea di partenza, pronti per essere montati, i tecnici stavano controllando le gomme e i manubri.

Tom, il proprietario del Bar Centrale, uno scapolo appena sotto la mezz’età che l’anno precedente aveva organizzato un Amleto in versione rock all’aperto, in piazza, provava le casse e il microfono per la telecronaca di quella sera. Mi fece un occhiolino.

Ci conoscevamo da quando ero una nanetta, parole sue, e mi teneva in custodia mentre i miei fratelli scorrazzavano in branco con le biciclette. Filippo poggiò un braccio sulla mia spalla e lasciò penzolare in aria la sigaretta incastrata tra le dita. Qualcosa nel suo viso, tra la delicatezza della linea della sua mascella o tra le sopracciglia sottili e alte, esprimeva annichilimento.

Sentivo tutto il peso del suo corpo sul mio, era ceduto come una valanga, la pelle carne sotto gli zigomi correva ripida e incavata verso la bocca carnosa che ora era schiusa dallo stupore. Di fronte a noi, a pochi metri, si stagliava una vecchia casa dalla facciata di nudo cemento e dai balconi di ferro. Sui gradini fatiscenti era seduto un ragazzo, coperto dall’ombra di una notte che doveva ancora arrivare.
Elia.
La sua postura formale, gambe divaricate e capo lievemente inclinato all’indietro, era tradita da una sincerità disarmante del corpo che trionfava tumultuosa in tutti i vibranti, impercettibili movimenti. A partire dal sorriso. Una piena, umida, cedevole, sprofondata curvatura delle labbra che nel buio non somigliava affatto al solito ghigno irritante che indossava alla luce del sole. Ma era nitido, inciso nel viso in una piega calda che si propagava con una specie di timidezza che non gli avevo quasi mai visto.

Inossava una camicia bianca e una giacca di pelle lucida. I gomiti erano conficcati nelle cosce e aveva le mani incrociate.

«Allora, ti sei degnato di venire, eh!», esclamò Filippo.

Elia si alzò dai gradini con umile lentezza. «Non potevo perdermi la gara.»

«Parteciperai?», domandò Filippo quando si fu avvicinato.

«No, sono anni che non corro e sono diventato troppo grosso per quelle macchinette delle barbie.»

Massimo aveva teso l’orecchio nella direzione della concorrenza. «Meglio così, senza di te avrò la vittoria in tasca»

Elia assunse una smorfia divertita. «Ciò che dovresti avere in tasca è un santino di Padre Pio.»

Lui e Filippo si guardarono a lungo e con oculatezza, poi scoppiarono a ridere. Massimo li osservava come se gli avessero appena offerto un fazzoletto sporco. Filippo si finse dispiaciuto per la battuta di cattivo gusto. «Dai, su, stiamo scherzando, quest’anno tutti a fare il tifo per te.»

«Lo scorso anno non c’era la corsa», disse Dumbo, «l’avevano sospesa, vi ricordate? In compenso però hanno organizzato la pesca di paperelle di gomma, peccato che quest’anno non abbiano replicato.»

Dalle partenze si levò un fischio. Era Tom. «Ehi, Rachele! Vieni qui un momento, ho un favore da chiederti.» Sgusciai tra i miei fratelli e raggiunsi il barista, che aveva la fronte rossa dall’imbarazzo e non faceva altro che schiarirsi la gola.

Gli occhi dei miei fratelli erano puntati sulla mia schiena, li avvertivo perforanti come proiettili. «Senti, Rally…»

«Rachele», precisai.

Tom non mi guardava, maneggiava accucciato con i cavi. «Rachele, puoi farmi un favore gigante? Del tipo che ti sarò debitore per sempre?»

«Di che si tratta?»

«Mi servi agli arrivi. Sai, ho avuto un piccolo contrattempo con la precedente addetta al premio e…»

In un certo senso mi sentivo in debito con lui, se ripensavo a quanti pacchetti di patatine, negli anni, mi ero concessa di sottrargli. Sommati tutti insieme avrebbero pagato un paio di casse nuove, a sostituire quelle che adesso cercava di far funzionare, spaccandosi la schiena. «…Ma sì, qual è il problema…»

«…Il problema effettivamente c’è», collegò il microfono allo spinotto, si alzò e fissò un punto indefinito dietro di me, «Boia deh! Quello lì è il tu fratellone?»

Elia e Filippo si stavano scambiando il pugnetto. Elia aveva i denti conficcati nel labbro inferiore e la sagoma del mento era ancora più pronunciata del solito; sollevò lo sguardo verso di me con un'espressione di sfolgorante trionfo; le sopracciglia erano leggermente alzate come per suggerire sconforto, come per dire che non era colpa sua se non riusciva mai a dissimulare la propria, irrimediabile superiorità. Chissà cosa stavano tramando.

«È tornato da pochi giorni», spiegai. È tornato da pochi giorni e ha già cominciato con i guai.

«Comunque», fece Tom, «dicevo, il problema c’è.»

«Ma no, Tom, te lo sto dicendo, nessun problema, garantito.»

«Rally… Ehm, Rachele. Dovresti dare, ehm, il premio al vincitore di persona.»

«Sì, Tom, ho capito.»

«Il premio, ehm, non so se hai sentito ma, ehm, il premio sarebbe un bacio.»


*

Le stelle erano appese al cielo e la notte era liscia. Le colline imbrunite dietro i palazzi erano delle grosse, scure e immobili presenze fantasma. Ero impalata sulla sommità dell’isola dietro la linea di partenza dei Go-Kart, dal quale presto degli individui senza il minimo spirito di autoconservazione sarebbero scivolati giù dal mondo. Tom avrebbe dovuto fermarli, invece accese il microfono.

Gli avevo detto di sì. Gli avevo detto che avrei baciato il vincitore, allora i miei fratelli si iscrissero immediatamente alla corsa, per impedirmi di baciare effettivamente qualcuno.

Era stata un’idea di Elia.

Non riuscivo ancora a capire da quale punto di vista quella trovata mi disturbasse. «Geniale. Posso farti una domanda? Se vincerai la…»

La sua fossetta si accentuò. «Leva il “se”.»

«Quando vincerai la gara, non avrai nessun premio, perché non ti aspetterai mica che ti dia…»

«Il premio, sorellina, sarà la gloria eterna, grazie che ti preoccupi per me.»

«Sai che c’è? Il premio dovrebbe essere un funerale gratuito, dato che morirete tutti quanti in quella diavolo di corsa!»

A dar loro fastidio, comunque, erano stati i forestieri: Cosenza, incredibilmente soprannominato tale perché originario di Cosenza, dietro la lente spessa dei suoi occhiali, mi aveva elargito un'occhiata di spassosa magnificenza. «Il premio sei tu, allora, ho capito bene?»

Filippo gli aveva tirato il laccetto del casco e gli occhiali erano caduti per terra. «Il premio è un calcio sul sedere se non te ne vai.»

Un ragazzo dal braccio ingessato mi aveva spudoratamente guardato le tette. «Peccato io sia infortunato per partecipare.»

Elia aveva piegato le labbra in un sorriso intollerante. «Un’altra parola e ti spezzo anche l'altro braccio, e ti avverto: sarebbe davvero brutto alzarsi dal cesso senza potersi pulire.»

Filippo si era sbellicato, io mi ero finta indignata: era più saggio concedere ai miei fratelli il giusto tempo per elaborare, ed eventualmente superare, le loro evidenti crisi esistenziali. «“Cesso”, “cesso” … Ma come parli?»

Elia e Filippo seppellirono per un po’ il loro sorrisetto fastidioso sotto il casco integrale e fissai le loro schiene robuste. In quell'angoletto di silenzio i grilli frinivano.

Non avevo mai dato un bacio a qualcuno, le mie labbra non avevano mai sfiorato altre labbra, non avevo mai provato l’inverosimile soddisfazione del contatto con una pelle nuova, diversa, sconosciuta, non avevo mai sperimentato il sottile piacere di una bocca dolente d’amore.

Un ragazzo biondo corse flessuoso verso la linea di partenza: aveva un sorriso luminoso oltre la notte. Si scostò i capelli dorati dagli occhi e mi fissò con ostinata calma; correva con eterea eleganza e la sensuale disposizione dei suoi tratti aggraziati era sconvolgente. C'era qualcosa di nobile nelle sue labbra rosse e piene, nel profilo vellutato delle sue spalle larghe, nel modo in cui i ciuffi biondi gli sfioravano la nuca, nel modo in cui sbatteva le ciglia come se fossero ali di una fenice. Edoardo. Prese un casco e mi salutò da lontano. Un cenno solenne della testa e un sorriso accentuato.

Filippo disse qualcosa a Elia, tramite la visiera di plastica trasparente del casco, con aria competitiva. Le nocche delle loro mani, che stringevano barbaramente il volante, erano rosse e i muscoli del loro volto, delle loro spalle e delle loro gambe incastrate sopra i pedali erano tesi come quelli di un felino. Elia a malapena ci entrava in quel coso.

Alcune ragazze parlottavano e producevano risatine asmatiche, indicando mio fratello Elia. Le loro voci divennero cuscinetti di sottofondo che mi aiutarono a isolarmi. Edoardo avrebbe partecipato alla corsa, ma era statisticamente improbabile che vincesse. Elia era il più veloce, e neanche Filippo scherzava.

Tom mi pregò di arrivare alle partenze e lungo la discesa incrociai Alice. Aveva un’aria affranta, le guance rosse e i sandali scuciti. «Mio fratello è un babbeo. Mi ha fatta tornare di fretta a casa perché si era dimenticato il suo braccialetto portafortuna. Mi si sono anche aperte le scarpe! Se scende giù da quella discesa vivo lo picchio.»

Mi arrotolai la felpa in vita. Quando arrivammo al parcheggio l'aria si fece densa e umida, sulla pelle era morbida come il gelato. Sullo sfondo buio, roccioso e fremente era stagliato un piccolo campanile.

Angelica parlava con le sue amiche e le sue labbra spruzzavano veleno; Nicole e Alessia mi sorpresero nell’atto di sbirciarle e quegli sguardi erano così ostili che mi chiesi se fosse legale guardarle. Angelica si avvicinò con andatura ancheggiante. «La sorellina è tanto preoccupata?»

Avevo commesso un errore al Garden Beach: portando via da una festa uno come mio fratello Elia mi ero praticamente macchiata di un crimine vergognoso. «Sanno il fatto loro, se la caveranno.»

Angelica mise in mostra i suoi lunghi denti in un sorriso studiato, ma il suo viso era troppo teso per nascondere gli scrosci di insofferenza. «Che tenera, ecco perché piaci tanto a Elia. Sai, non fa che parlarmi di te quando siamo insieme.»

«Sì, be', noi siamo parecchio legati»

L’espressione di meraviglia che le deturpò la faccia fu come un lampo in una radura isolata, e il tremolio fioco di quella scossa di luce si trasformò in un brivido lungo la mia schiena. «Ah, ma davvero? E ti ha lasciata qui da sola per anni?»

«Ora è tornato, è questo ciò che conta, giusto?»

I suoi zigomi brillavano nel buio della sera e i suoi occhi verdi erano affilati come mai prima. «Sì, sono d’accordo, bisogna sempre cercare il lato positivo in ogni cosa, e poi con lui non è difficile: ha così tanti pregi, non so se mi spiego.»

Cercavo di mantenere un profilo basso. «Ti sei spiegata.»

«Ottimo. Allora, spero anche ti sia chiaro che io e tuo fratello stiamo insieme. Sarebbe davvero carino se evitassi di metterti in mezzo come l’altra sera. È davvero scortese da parte tua, sai, impedire a tuo fratello di passare del tempo con la sua ragazza in santa pace.»

Un lieve ronzio nella testa annullava pian piano le voci intorno. «Hai ragione. Scusa.»

La vidi sorridere e poi… Le grida. La gara era ufficialmente cominciata e il mio cuore iniziò a battere come un allarme antincendio. Il parcheggio divenne rumoroso come uno stadio affollato. La voce di Tom rimbombò nel buio, mi penetrò in testa in una raffica di colpi sonori.

«Che inizio sensazionale amici! Una partenza davvero da brividi...»

Angelica tirò fuori da una borsa con le frange il telefonino e lo puntò verso la ripida discesa.

«Sta iniziando la curva amici, i nostri piloti sono più agguerriti che mai»

«Attenzione! C'è uno scontro bello acceso tra due piloti! Sembra che Ferrazza stia prendendo di mira Ercolani...»

«Ercolani e Ferrazza sono entrambi spariti dietro la curva amici, mentre Massimo Raimondi è l'ultimo della fila. Forza amici non vi sento urlare abbastanza!»

Alice socchiuse gli occhi. «Ma quello non è Elia?»

Due Go-Kart scendevano in picchiata a una vertiginosa velocità e si strusciavano lungo la fiancata. Uno dei due, in vantaggio per un pelo, era proprio Elia. La mia testa era in procinto di esplodere come un’autocisterna che prende fuoco.

Ci furono applausi e grida entusiaste: tutti trovavano emozionante quella che per me era soltanto una crudele e protratta prova di sopportazione.

Il secondo Go-Kart lo affiancò e poi, pochi centimetri prima dell’arrivo, lo superò. Elia si schiantò contro un masso. Uscì tossendo e fumante. Si tolse il casco e mostrò tutti i segni della fatica: gli zigomi lividi, la pelle madida di sudore, lo sguardo prosciugato dalla tensione fisica. Teneva una mano premuta all’altezza del gomito e il sangue gli colava tra le dita. «Merda, altro che per le barbie, quegli affari sono per i lillipuziani.»

La ferita era rossa e profonda, gli aveva aperto la pelle. «Mio dio, Elia, devi disinfettarla quella…»

«Non è niente, Lele», mi guardò divertito, «si tratta solo di un graffio.»

Filippo mi riservò un sorriso stanco e fiero, gettò il casco dentro il suo Go-Kart. «Per quanto possa valere, ti dedico il mio terzo posto.»

Edoardo era intonso, i suoi capelli erano ancora lucidi e compatti e gli abiti lustri. Le dita di madreperla cadenti, appese alle braccia, sussultarono appena. Il verde sconfinato dei suoi occhi era così tranquillo, così angosciante. Aveva vinto.  Filippo mi sganciò dallo stordimento. «Secondo me quello là usa uno shampoo speciale, tipo Boccolo splendido splendente…», lasciò andare il discorso con fiacco avvilimento, ma ci pensò Elia a risollevarlo con entusiasmo. «Ti stai confondendo, è Broccolo splendido splendente», aveva un tono cavernoso, «Riccioli d'Oro ci ha battuto, ma se spera in qualcosa da Rally è un morto che cammina.»

Edoardo avanzò verso di noi, un sorriso appena accennato. Non osai muovere un muscolo. Mi chiesi se avesse intenzione di riscattare il suo premio oppure no. Elia e Filippo mi circondavano, sembravano pronti a scattare come lupi davanti a un cacciatore.

«Complimenti», disse l’olandese con garbo, «La vostra è stata una prestazione eccellente. Questa sera, se vi va, c’è un evento sul mio Yacht. Ercolani Crociere vi aspetta. Tanto non avete bisogno dell’invito, giusto?», si soffermò su Elia, «Buona serata», e le sue labbra, di solito sempre delicate e composte, guizzarono come petali impertinenti in uno sfacciato sorriso di vittoria.


Note.
Ahia. Edoardo pare avere qalità inaspettate! Secondo voi, ci andranno asullo Yacht o Elia lo ammazza prima?
Vi ringrazio per aver letto, ci vediamo presto con un nuovo capitolo.
Con tantissimo affetto,
JSGilmore
   
 
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