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Autore: Adeia Di Elferas    10/01/2022    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
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Caterina era stata tra i primi a lasciare la tavola. Subito dopo che Ottaviano, indispettito da un battibecco con Bernardino, si era congedato bruscamente, la donna aveva atteso che anche Galeazzo e Bianca si ritirassero, e poi si era alzata, augurando a tutti una buona notte. Aveva lanciato uno sguardo ricco di sottintesi a Fortunati, e l'uomo aveva colto il suo tacito invito ad attendere un attimo, prima di arrivare nella sua stanza.

Francesco, così, aveva sorbito ancora un mezzo bicchiere di vino – non aveva ecceduto, sia per restare il più possibile lucido, sia perché aveva lo stomaco tanto chiuso da riuscire a fatica a mandar giù qualcosa – fingendo di ascoltare il discorso tra Sforzino e frate Lauro. Non gli interessava ciò di cui parlavano, o, meglio, non aveva seguito nemmeno una parola, quindi non avrebbe neppur saputo dire quale fosse l'argomento di discussione.

Anche Bernardino, che invece aveva provato a seguire all'inizio, aveva perso in fretta il filo, non sapendo quasi nulla di teologia e così si era messo a giocherellare con il piatto vuoto che aveva davanti e, eludendo la sorveglianza sia di Bossi, troppo preso dalla diatriba con Sforzino, sia del piovano, che pareva immerso in un mondo parallelo, di tanto in tanto beveva un po' di vino da calici lasciati a metà dagli altri. In realtà sua madre non gli impediva di servirsi come i suoi fratelli più grandi, ma bere qualcosa in più di nascosto gli dava un brivido che gli piaceva. Anche se ridimensionato, gli ricordava quello che provava a Forlì, quando usciva di soppiatto di notte per andare a fare confusione con i suoi amici nei bassifondi.

A un certo punto, calcolando che dovesse essere trascorso un giusto intervallo di tempo, Fortunati si alzò. Provò a dire qualcosa, ma si accorse di avere la bocca troppo secca, per parlare. Fece allora solo un cenno con la mano, ma il frate quasi non se ne accorse e così Sforzino, mentre Bernardino ricambiò, ma senza troppo interesse, troppo concentrato nel cercare di capire se nel calice del piovano fosse rimasto ancora del vino.

Francesco aveva pensato a come muoversi, una volta finita la cena e così seguì pedissequamente il piccolo piano che aveva in mente. Prima di tutto voleva cambiarsi d'abito, dato che quello che indossava l'aveva tenuto per tutto il pomeriggio... Ne aveva uno di ricambio che sarebbe stato molto più in ordine, e poi l'avrebbe anche profumato con qualche goccia di un'essenza che gli aveva donato tempo addietro la stessa Caterina. Dopodiché avrebbe cercato di chiamare a sé tutta la calma possibile, e poi sarebbe andato dalla Tigre. Da quel punto in poi, però, il suo progetto diventava nebuloso e vago, decisamente bisognoso dell'intervento attivo della Sforza.

Soprappensiero, Fortunati si tolse l'abito scuro, le brachette e i calzari e cominciò a cercare i vestiti di ricambio. Quando li trovò, però, tentennò qualche istante, prima di infilarli. Gli era caduto lo sguardo sul piccolo specchio appoggiato sopra il cassettone e il suo riflesso, reso tremulo dalla luce delle candele, aveva catturato la sua attenzione.

Lasciando un attimo da parte gli abiti, l'uomo si dedicò alla propria immagine. Non era abituato a guardarsi nudo e farlo gli dava una strana sensazione. Tuttavia, c'era come una forza irrefrenabile che lo portava ad analizzare ogni dettaglio del proprio corpo.

Si chiese se Caterina sarebbe stata delusa. Non aveva i muscoli tesi e giovani dei soldati per cui lei aveva nutrito una vera passione per tanto tempo. Non aveva le loro gambe forti...

Si passò una mano sul petto e poi sul ventre. Aveva pochi peli radi e che tendevano ormai al grigio, e ricordava bene il commento che una volta la Leonessa aveva fatto, intravedendoli. Solo che non aveva mai capito se quella costatazione, ossia che per via della sua barba fitta, lei lo avesse sempre pensato più villoso, fosse positiva o negativa.

Francesco si osservò per un altro lungo istante e poi, con un sospiro quasi rassegnato, riprese a vestirsi. Non avrebbe saputo, pensò, cosa lei ne pensava davvero finché non glielo avesse chiesto in modo aperto. E l'idea di chiederglielo davvero lo spaventava troppo, quindi, probabilmente, non l'avrebbe mai saputo...

Quando fu pronto, prese il pettine d'osso che teneva sempre nel suo bagaglio e si ravviò con cura i corti capelli scuri. Si passò le mani sulle guance, trovandole ruvide, ma sapeva che non era il caso di cercare qualcuno che lo radesse a regola d'arte: non poteva far aspettare oltre Caterina. E in più, si consolò, da quello che ne sapeva lei aveva sempre apprezzato gli uomini dal tratto rustico e quindi una barba non fatta non le sarebbe dispiaciuta troppo.

Prese infine l'essenza di erbe che la donna gli aveva regalato qualche tempo prima e ne fece cadere qualche goccia sul giubbone nero e una sul collo, chiedendosi se quella fragranza le sarebbe piaciuta o l'avrebbe infastidita.

Deglutendo un paio di volte, spianò le ultime pieghe del vestito e poi, con passo quasi marziale, andò alla porta e si affidò a Dio.

 

Il cielo si stava a poco a poco rasserenando. La notte era ormai arrivata e faceva molto buio, ma sulla galea tutti iniziavano a tirare un sospiro di sollievo. Le onde si facevano meno impetuose, il vento si calmava, l'odore del mare tornava a essere piacevole e restare in piedi non era più così difficile. Perfino la luna, ancora timida, sembrava intenzionata a uscire a momenti dal suo nascondiglio.

Poco per volta, tutti quelli che si erano coricati sul ponte si alzarono, chi ringraziando Dio, chi la buona sorte, chi piangendo per via della tensione che, finalmente, si allentava.

Alessandro VI, che era rimasto fino a quel momento seduto sul suo scranno, nei suoi alloggi di poppa, si rese conto che la tempesta stava passando con un lieve ritardo. Rimase infatti stupito di veder arrivare due dei suoi servi, i volto verde e le gambe ancora molli, a chiedergli cosa volesse mangiare.

Quella domanda lo svegliò dai suoi pensieri e gli permise anche d'accorgersi che la galea non rollava più e che la pioggia non batteva più contro il legno della nave, né i lampi accendevano il cielo.

“Frittura di pesce.” rispose, con voce roca: “E appena avrò finito, salperemo e torneremo verso Porto Ercole.”

Quella decisione sorprese i due uomini. Il papa aveva ragionato a lungo su cosa fare, una volta che fosse tornato il sereno, e si era convinto che fosse più prudente rifare quel tratto di mare, tutto sommato breve, piuttosto che arrischiarsi a navigare fino a Corneto.

“Domattina – riprese il pontefice, per far capire che la sua idea di ripartire subito, benché fosse notte e il tempo fosse ancora incerto, era indiscutibile – voglio essere presente alla Messa nella chiesa parrocchiale di Porto Ercole, e non ho intenzione di presentarmi in ritardo.”

“Ma Vostra Santità...” provò a opporsi uno: “Ormai è notte e...”

“A maggior ragione – lo frenò all'istante Alessandro VI – si dovrà partire subito. Come ho detto: non ho intenzione di presentarmi in ritardo alla Messa.”

Nessuno osò discutere l'ordine e così, mentre la luna tornava a presentarsi in un cielo ormai sereno, le galee pontificie ripartirono, invertendo la loro rotta.

 

Caterina cominciava a essere in ansia. Aveva lasciato la tavola della cena ormai da parecchio, ma Francesco ancora non si vedeva. Era possibile che avesse avuto un ripensamento dell'ultimo minuto e avesse deciso di non raggiungerla, o, peggio ancora, avesse ben pensato di ripartire immediatamente alla volta di Cascina?

La donna, che da quando era arrivata in camera non aveva fatto altro che stringersi le mani l'una nell'altra e camminare nervosamente avanti e indietro, poteva quasi sentire gli zoccoli del cavallo del piovano allontanarsi sullo strato di neve che ancora ricopriva il terreno.

Ormai l'attesa stava lasciando spazio alla delusione, quando due colpi alla porta le ridiedero speranza. Con pochi velocissimi passi, la Leonessa andò ad aprire e lasciò subito che Fortunati entrasse. Richiuse con cura e poi si voltò a guardarlo.

Il fiorentino era incerto, ma le sorrideva. Aveva messo abiti puliti e aveva addosso un buon profumo, che la Sforza riconobbe subito.

“Hai usato gli olii che ti avevo regalato...” sussurrò, sia per fargli capire che l'aveva notato, sia per rompere il silenzio.

Francesco annuì, senza riuscire a dire nulla. Si chiedeva se la Tigre sarebbe subito passata alle vie di fatto o se prima gli avrebbe lasciato il tempo di calmarsi e mettersi a proprio agio. Lui stesso non sapeva dire quale delle due cose avrebbe preferito.

Caterina aveva intuito le tribolazioni interiori del piovano e così, per cercare di stemperarne un po' la tensione, gli prese una mano e gli disse: “Ti sei messo elegante, per me... Io non... Sono vestita com'eravamo a cena...”

“Sei bellissima.” le assicurò Fortunati, riuscendo a fatica a muovere la lingua, per quanto aveva la bocca secca.

Sospinta da un desiderio di tenerezza che di rado l'aveva animata, nell'avvicinare un uomo, la Tigre lo abbracciò e appoggiò la testa alla sua spalla, respirando il profumo pieno delle essenze di cui era intriso il suo giubbone.

“Spero solo di non deluderti...” fece l'uomo, apprezzando quel contatto fisico e aspettando che fosse lei a mostrargli come andare oltre.

“Non potresti mai.” lo rassicurò lei e poi, dopo avergli dato un breve bacio, gli assicurò: “Faremo con calma, te lo prometto... Una cosa alla volta.”

La donna lo baciò di nuovo, stavolta con più decisione. Per quanto avesse appena promesso di fare con calma, era come se qualcosa dentro di lei stesse per esplodere. Tutto quello che sentiva e vedeva la confondeva, l'infiammava e le toglieva lucidità.

Francesco si accorse in fretta di come le mani della Leonessa avessero cominciato a cercarlo con più insistenza e di come il suo respiro si stesse facendo più veloce. Capì al volo che non gli sarebbe stato concesso troppo tempo per pensare e fare salotto e, in fondo, ne era felice.

L'uomo si lasciò svestire docilmente, come se all'improvviso non ci fosse più nulla di cui vergognarsi. Non gli importava più sapere che nessuna donna l'avesse mai visto nudo, a parte sua madre e la sua balia, quando era bambino. Era qualcosa di cui aveva un disperato bisogno, e il tocco caldo e sicuro di Caterina dava sicurezza anche a lui.

Quando al piovano restarono addosso solo le brachette di lana, la donna ebbe una piccola esitazione. Smise di baciarlo e lo guardò, come a chiedergli un tacito assenso. Lui annuì subito, ma la Tigre non si mosse.

“Prima spogliami tu.” lo incitò.

Non fu semplice, per il fiorentino, fare quanto gli era stato ordinato. Caterina portava un vestito semplice, quasi adatto più a una serva che a una signora, eppure l'uomo si incartò con lacci e nodi e fu necessario in più occasioni un intervento della Sforza, per arrivare a un dunque. Alla fine, però, il corpo della milanese si mostrò in tutta la sua bellezza, reso ancora più morbido e avvolgente dalla luce tiepida che arrivava dal camino acceso.

A sorpresa, fu il turno della Leonessa di sentirsi sotto giudizio. Anche se Francesco la osservava rapito, trovandola l'immagine vivente della sensualità e della perfezione, lei cominciava a chiedersi se forse non fosse cambiata troppo, rispetto a quando era più giovane. Dopo la prigionia a Roma aveva cambiato in parte forma, aveva perso la sua tonicità e ciò che un tempo le aveva dato un aspetto giunonico, ora, a suo avviso, la faceva solo sembrare più vecchia e fuori forma.

Aspettando ancora a togliere le brachette al piovano, Caterina lo baciò di nuovo, e poi, passandogli una mano sul petto gli chiese, in un sussurro: “Mi trovi bella?”

Francesco, così frastornato da tutto quello che vedeva e sentiva, non riuscì a rispondere subito. La Tigre lo prese per una mano, tirandolo un po' verso il letto e solo allora l'uomo riuscì a balbettare che sì, la trovava bella, anzi, bellissima.

Rinfrancata da quella dichiarazione, che le sembrava molto sincera, la donna, sfiorandogli le brachette di lana, disse, in un soffio che suonava come un ordine: “Stenditi a letto e levati queste...”

Fortunati, ormai preso da un gorgo da cui non voleva affatto liberarsi, fece come gli era stato chiesto. Si sentiva indifeso e un po' ridicolo a starsene lì, supino, nudo a lasciarsi guardare. Però il modo in cui Caterina lo stava guardando gli bastava a dimenticare tutto il resto.

Mentre il piovano non riusciva a non guardare le forme morbide e calde della Tigre, desiderandole fin quasi a provare dolore fisico per colpa dell'attesa, così la milanese aveva voluto prendersi un momento per osservarlo.

Era da tanto, ormai, che non divideva il letto con un uomo e, per quanto ne avesse voglia, sentì crescere dentro di sé una strana ansia. Fece un breve confronto tra il corpo maturo di Francesco, trovando differenze e somiglianze con quelli più giovani e freschi dei soldati che aveva avuto come amanti a Ravaldino, e poi richiamò alla mente l'immagine di Giacomo che, in un tempo molto lontano, l'aveva aspettata più o meno allo stesso modo, titubante e bramoso, steso sul suo letto in attesa che lei gli insegnasse quello che doveva fare.

Quel parallelismo, così bello e allo stesso tempo così crudele, le fece fare una smorfia involontaria, che Fortunati fraintese.

“So di non essere giovane e prestante come gli uomini che di solito tu...” cominciò a dire il fiorentino, ma Caterina si affrettò ad avvicinarglisi e a zittirlo con un bacio.

La pressione, decisa e imperiosa, che esercitò sulle labbra del piovano lo indusse a tacere una volta per tutte. Mentre si sistemava sopra di lui, con lentezza, la Tigre gli prese una mano, portandosela al seno, e fece altrettanto con l'altra, posandola sul fianco.

“Adesso – gli bisbigliò all'orecchio, riversandosi appena su di lui, guidandolo come aveva fatto un tempo con il suo amatissimo Giacomo – non pensare più a niente...”

E mentre la Leonessa di Romagna ricominciava a baciarlo, traghettandolo altrove con il calore del suo corpo e la padronanza dei suoi gesti, Francesco seguì davvero il suo ordine e svuotò la mente, lasciandosi libero, veramente libero, per la prima volta da che aveva memoria, di seguire solo ed esclusivamente ciò che gli suggeriva il suo corpo.

 

“Non ti aspettavo qui prima di lunedì...” disse Troilo, accogliendo subito l'amico, Gian Giacomo da Trivulzio.

Questi, infreddolito dalla serata nebbiosa, fece un mezzo sorriso e, congedando momentaneamente la sua scorta, rispose: “Sono stato fatto signore di Castell'Arquato ieri... San Secondo è a mezza giornata scarsa di cammino e tu mi avevi chiesto di vederci il prima possibile, se non erro... E poi volevo farti di persona le condoglianze per la morte di tuo padre. Giovanni era un uomo di valore.”

Il De Rossi lo ringraziò di cuore e poi, invitandolo a mettersi comodo e a stare vicino al camino, gli chiese se avesse voglia di mangiare qualcosa.

“Ho cenato lungo la via.” rese noto il condottiero, levandosi il mantello e allungando poi le mani verso le fiamme: “Allora, di cosa volevi parlarmi con tanta urgenza e segretezza?”

Troilo guardò il profilo severo del suo amico. In quel momento gli occhi saggi di Gian Giacomo erano rivolti al fuoco, ma poteva ben sentire l'attenzione che gli stava rivolgendo. Evidentemente il milanese doveva aver intuito che la questione era delicata e per quello si era precipitato a San Secondo già quel sabato sera, senza attendere che passasse almeno la domenica. Era quel genere di slanci che faceva capire al De Rossi come mai il Trivulzio fosse un generale così abile: sapeva quando agire e quando, invece, attendere.

“Dimmi bene di cosa si tratta. Ti ascolto.” lo incoraggiò Gian Giacomo, questa volta rivolgendo il naso aquilino verso di lui: “Ne abbiamo passate tante, assieme... Capisco quando c'è qualcosa che ti tormenta.”

Voltandosi un momento verso la porta del salone, Troilo si assicurò che non ci fosse nessuno in ascolto e poi, affiancandosi all'amico, gli sussurrò: “I miei parenti mi vogliono fare la guerra e questa rocca cade a pezzi e si sgretola appena proviamo a spostare anche solo una pietra.”

Il Trivulzio, sollevando una delle sottili sopracciglia, stava già per ribattere in qualche modo, magari dicendosi meravigliato che quel genere di problemi richiedessero un suo urgente consiglio, dato che reputava l'emiliano un uomo più che capace di farvi fronte anche da solo.

Il milanese però tacque, quando Troilo riprese, a voce ancora più bassa: “Questo, però, per me al momento è il minore dei guai.”

“Parla, non tenermi sulle spine, lo sai che non sono adatto a risolvere le sciarade.” fece Gian Giacomo, cercando di sciogliere le ultime riserve dell'amico, che pareva improvvisamente restio a confidarsi con lui.

“Voglio prendere moglie.” esordì il De Rossi, fermandosi subito.

Seppur sorpreso, il Trivulzio sorrise subito e, dandogli una pacca sulla spalla, commentò: “Evviva, amico mio! Finalmente hai deciso che la vita da monaco non fa da te! E dimmi, vuoi che sia io a cercarti una sposa?”

Troilo si morse il labbro e poi, massaggiandosi la barba rossiccia, rispose: “No, la sposa l'ho già trovata. Voglio che mi aiuti a far sì che diventi davvero mia moglie.”

“Se si tratta di rapire qualche giovane nobildonna, mi spiace, ma...” iniziò a dire il Trivulzio, accigliandosi.

“No, no, nulla di tutto questo...” lo interruppe l'emiliano e poi, dopo due profondi sospiri, gli raccontò tutto.

Il milanese ascoltava in religioso silenzio, facendo giusto qualche domanda di quando in quando, al solo scopo di avere un quadro esatto della situazione. Troilo non volle scendere in dettagli troppo privati, ma dovette ammettere con il Trivulzio che lui e Bianca avevano anche sperato di poter concepire subito un figlio.

A quella rivelazione, Gian Giacomo aveva assunto un'espressione torva e non si era trattenuto dal dire: “Per Dio, Troilo... Nemmeno fossi un ragazzino... Avere un figlio, per voi due, adesso, sarebbe un gran rischio...”

L'emiliano, però, continuò imperterrito il suo racconto e finì per riversare sull'altro tutti i suoi dubbi e le sue paure, spiegando tutti gli impedimenti a quell'unione, nonché la delicatezza della situazione in cui si trovava quella che lui sperava diventasse presto sua suocera, ossia Caterina Sforza.

Quando il discorso arrivò alla sua conclusione, il Trivulzio diede dapprima qualche direttiva di ordine generale, poi passò a qualche consiglio fraterno, e infine raccontò all'altro che cosa si stava agitando davvero in Francia, a Firenze e a Roma.

“Per come la vedo io – concluse – la prima cosa che dovresti fare sarebbe convincere la Sforza a mandare al nord almeno il suo figlio più grande. Finché Ottaviano Riario resterà a Firenze, è un pericolo per tutti.”

“In che senso?” si informò il De Rossi, che non aveva mai davvero calcolato Ottaviano come un problema, dato che quasi non aveva avuto modo di conoscerlo.

“Per i fiorentini lui rappresenta il possibile braccio armato dei Della Rovere, e sai che sono in conflitto con il papa e Firenze non vuole essere in conflitto con il papa.” riassunse il Trivulzio: “Poi Roma calcola il Riario come il possibile braccio armato della madre, come qualcuno, insomma, che lei potrebbe usare per riprendersi la Romagna. E la Francia lo vede come una possibile merce di scambio che non deve finire in mano altrui.”

“Da quello che so, Ottaviano Riario non ha affinità con le armi.” fece Troilo, ripensando ai pochi aneddoti che Bianca gli aveva raccontato.

“Ottaviano Riario...” sbuffò Gian Giacomo: “Me lo ricordo da bambino... L'ho conosciuto nell'Ottantasei, se non erro... Sbruffone e inetto come il padre! Da quello che so non è cambiato affatto. Anche anni dopo, quando ho incontrato a Imola sua madre... La Tigre di Forlì ha sempre avuto un grande cruccio per colpa sua, e credo che anche ora che è un uomo adulto lo sia... Tutti si ingannano, a crederlo un possibile condottiero per conto della madre, ma questo è.”

Troilo fece un cenno con il capo: “Se ne avrò l'opportunità in tempi utili, dirò a Madonna Sforza di far partire il figlio... Per dove?”

“Milano, ovviamente.” rispose Gian Giacomo: “Se non erro hanno anche dei parenti lì. E presto il Cardinale Sansoni Riario rientrerà dalla Francia e passerà da Milano... Lui saprà come aiutarlo a star fuori dai guai.”

“E per me, cosa mi dici? Come posso fare per uscire da questa bonaccia?” chiese il De Rossi, tornando al punto dolente.

“Intanto indagherò sulla questione di Astorre Manfredi...” soffiò il milanese: “E poi... Te lo dico io, come faremo.”

L'emiliano si mise in ascolto, aggrappandosi a ogni parola dell'amico come fosse una fune tesa in mezzo al mare in tempesta. Sapeva che Gian Giacomo sarebbe stato in grado di aiutarlo. Tutto ciò che gli stava dicendo gli pareva assennato e corretto. Gli stava offrendo non solo la sua visione, ma anche il suo appoggio, il suo sostegno e la sua autorevolezza.

Quando il Trivulzio ebbe finito la sua dissertazione, il De Rossi lo strinse a sé, colmo di riconoscenza.

“Ci vorrà pazienza, però.” gli fece presente l'anziano: “Se non vuoi rovinare tutto, dobbiamo fare una cosa alla volta.”

“E così faremo.” concordò Troilo, il petto che si scaldava, acceso da un entusiasmo nuovo e pieno di speranza.

Gian Giacomo annuì, con fare paterno e poi, lasciandosi andare a una brevissima risata che assomigliava quasi all'abbaiare roco di un cane, sbottò: “Chi l'avrebbe mai detto che proprio tu ti saresti messo nei guai per una donna tanto più giovane di te...”

 

Caterina si era addormentata in fretta, sfinita e soddisfatta, dopo aver dato buona battaglia a Fortunati che, malgrado tutto, era riuscito a barcamenarsi più che bene, anche grazie alla sua costante guida. L'entusiasmo del principiante, aveva pensato la Tigre, mentre si accoccolava sotto le lenzuola, calma come non la era da tempo, era sottovalutato dai più, ma non da lei.

Francesco, invece, aveva fatto fatica a prendere sonno. Anche se ormai anche lui era senza forze, la confusione che gli albergava nell'animo gli impediva di chiudere occhio. Continuava a ripensare a quello che era successo, a ciò che aveva provato, alla semplicità con cui Caterina l'aveva amato, senza mai farlo sentire inadeguato o imbranato... Aveva lasciato che lei gli si addormentasse accanto e poi l'aveva guardata a lungo, ascoltando il suo respiro che solo a tratti si faceva più veloce, sospinto, forse, da qualche brutto sogno.

Così, quando si avvicinò l'alba, il piovano era ancora insonne, mentre la Leonessa si agitava imbrigliata in qualche incubo. L'uomo non sapeva cosa fare, se svegliarla o aspettare, come aveva fatto prima, che il brutto sogno passasse da solo.

Quando la sentì mormorare il nome di Giacomo Feo e quello di Ludovico Marcobelli, capì che fosse meglio strapparla ai suoi tormenti e così la scosse appena per la spalla, chiamandola con un filo di voce: “Caterina... Caterina...”

La Tigre si destò di colpo, gli occhi sgranati, il fiato corto e il cuore che batteva all'impazzata, mentre la sua memoria cercava di cancellare l'immagine vivida del suo Giacomo trucidato dai congiurati e di Ludovico Marcobelli ucciso a mani nude da lei stessa.

Un po' rallentata da quel risveglio traumatico, la donna ci mise qualche secondo per ricordarsi come mai Fortunati fosse sotto le lenzuola con lei. Quando se ne ricordò, gli si aggrappò, premendo il viso contro il suo petto, respirando il suo odore e cercando di trarre beneficio dal ritmo calmo del suo respiro.

Mentre l'uomo, mostrando una dolcezza nuova, ma che prendeva forza dalla profonda tenerezza che aveva sempre riservato alla milanese, le accarezzava lentamente i capelli, la Sforza si calmò.

Quasi si commosse pensando al conforto che le dava avere qualcuno così vicino, e si trovò infinitamente grata a Francesco, per aver calpestato i suoi voti, pur di donarle tutto se stesso, permettendole di passare oltre, di archiviare almeno in parte ciò che il Valentino le aveva fatto e far pace con un lato di se stessa – lo stesso lato che l'aveva portata ad addentrarsi in un bosco sconosciuto da sola e in piena notte – che spesso prendeva il sopravvento, facendola quasi sragionare.

“Scusami, non volevo svegliarti per colpa dei miei incubi...” si schermì Caterina, scostandosi un po', per guardare il volto del piovano.

L'uomo, sollevando le sopracciglia, invece di rivelarle le ore passate insonne, abbozzò un sorriso e ribatté, come se vi fosse un chiaro nesso logico: “Ti amo.”

La Leonessa sentì per un attimo i propri muscoli irrigidirsi, ma si sciolse subito. Si era attesa, in realtà, che prima o poi il fiorentino le avrebbe espresso in modo franco i suoi sentimenti, e lei aveva ben immaginato quali fossero. Dal canto suo non sapeva dire cosa provasse nei suoi confronti e non voleva né mentirgli, ripetendo quella formula svuotandola del suo significato, né spegnere il suo entusiasmo dicendogli che lei non lo amava.

Così, sperando che al piovano bastasse, gli diede un lungo bacio e poi, restando tra le sue braccia, gli disse: “Grazie, per stanotte. Grazie per tutto, anzi...”

Francesco, che aveva capito bene come la donna avesse svicolato la sua dichiarazione d'amore, sollevò l'angolo della bocca e cambiò argomento: “Ieri mi sono dimenticato di riferirti un paio di cose, su Benedetto Balear Riario e anche su tuo cognato Lorenzo, ma forse vuoi parlarne più tardi...”

Caterina, che aveva sempre cercato con scarso successo di non far entrare la politica in camera da letto, scosse il capo e lo incalzò: “Dimmi tutto.”

Con un sospiro, felice di poter comunque continuare a tenersi addosso la Tigre, che non accennava a volersi staccare da lui, Francesco cominciò a esporre il suo resoconto. Fu abbastanza sintetico, avendoci ragionato sopra durante la sua veglia e riuscì a toccare tutti i punti che riteneva interessanti.

Le spiegò delle ultime due lettere di Benedetto Balear Sforza Riario, con cui l'uomo la ringraziava per le camicie e spiegava di essere a Blois, alla corte del re, e di star facendo tutto il suo possibile per favorirla. Caterina si mostrò poco incline a credere che il sedicente parente si stesse prodigando davvero per lei, ma non volle polemizzare oltre.

Fortunati le raccontò poi di come anche il Cardinale Sansoni Riario fosse in Francia e che da lui, invece, ci si poteva aspettare davvero un aiuto concreto. Presto avrebbe accompagnato Luigi XII in Italia e avrebbe fatto in modo di convincerlo ad allentare la sorveglianza su di lei, rendendola di nuovo una donna libera a tutti gli effetti.

Nel sentir parlare in tono tanto entusiasta di Raffaele, Caterina si spazientì. Malgrado tutte le mani che il il Cardinale le aveva teso negli anni, lei non poteva scordare il suo ruolo nella congiura in cui era morto Giacomo.

Alzandosi di scatto dal letto, lasciando interdetto Francesco, la donna cominciò ad aggirarsi per la stanza, cercando teoricamente ora il vaso da notte, ora i propri abiti e ora la bacchetta d'osso per pulirsi i denti, senza, di fatto, riuscire a trovare nulla, presa com'era dalle proprie parole.

Infatti, nel momento stesso in cui aveva lasciato le coperte calde, aveva cominciato una filippica un po' inconcludente, ma molto accorata: “I Riario! Tutti uguali! Parole, parole, parole!” escalamava, guardandosi attorno accigliata: “Tante parole, tantissime parole! E poi non sanno nemmeno trovarsi il fondoschiena nelle brache! Uno più inetto dell'altro! Maledizione a me e al giorno in cui i Riario sono entrati nella mia vita!”

Francesco, nel vederla aggirarsi nuda con tanta naturalezza davanti a lui, era rimasto senza parole, intento a fissarla. Quella mattina, nella luce fioca che precedeva l'alba, davanti al camino morente, gli sembrava ancora più bella che la sera prima, come una statua di marmo candido, ma vivente e vibrante, calda come l'inferno e dolce come il miele...

“Che c'è?” chiese lei dopo un po', vedendolo rosso in viso e con gli occhi spersi.

“Come..?” domandò lui, che aveva smesso da un po' di ascoltarla.

“Sei arrossito e...” fece lei, scuotendo appena la testa, i lunghi capelli bianchi che le incorniciavano il volto, ricadendo sul petto, portando il piovano a distrarsi ancora di più.

“Non... Non sono abituato a vederti così...” si scusò lui, puntellandosi un po' sui gomiti e distogliendo istintivamente lo sguardo.

La Leonessa sorrise, andandosi a sedere sul letto e allungando una mano verso di lui, cercando di togliergli di dosso le lenzuola: “Tu invece ti vergogni ancora a lasciarti guardare, malgrado stanotte...” scherzò.

Come a volerla smentire, l'uomo si lasciò scoprire senza opporsi e poi, guardandola, serio, riprese il suo discorso: “Riario a parte – le disse – c'è la questione di Lorenzo.”

“Che cosa vuole fare?” chiese la Sforza, mentre anche sul suo volto spariva il sorriso giocoso di poco prima.

“Lui nulla... Una sua figlia, Laudomia, si sta per sposare, con un Salviati.” spiegò il piovano: “Io credo entro fine mese.”

“E questo dovrebbe interessarci..?” domandò di rimando Caterina, in attesa di una spiegazione più approfondita, visto anche il cognome dello sposo.

“Relativamente.” concesse il piovano, ma poi aggiunse: “Ma è utile saperlo, perché spiega come mai in queste settimane Lorenzo sembra distratto. Appena sua figlia sarà sposata, temo che dovremo aspettarci qualche sorpresa.”

“E non bella, immagino...” soffiò la Tigre.

Fortunati annuì, allungando una mano verso quella della donna e stringendola: “Ma affronteremo tutto insieme.”

La milanese fece un sorriso triste, ricordandosi quante altre volte altri uomini le avevano detto qualcosa di simile, e, alla fine, per un motivo o per l'altro, aveva finito invece sempre per affrontare il suo destino da sola.

Evitando di mettere a parte il fiorentino dei suoi pensieri, gli si avvicinò, lo baciò, lasciò che lui la stringesse tra le braccia, e la facesse poi rotolare sulla schiena, tra le coperte aggrovigliate.

“Hai imparato in fretta...” sospirò lei, di nuovo sorridente, mentre l'uomo le faceva capire che voleva provare a mettere in pratica quanto sperimentato quella notte, ma che voleva farlo, questa volta, di sua iniziativa.

Francesco, sopra di lei, sorpreso da se stesso per la propria intraprendenza, annuì, l'animo di nuovo sopraffatto dai propri sensi e poi, appena prima di mostrare quello che sapeva fare, sussurrò, con un filo di voce: “Solo se tu vuoi, però...”

“Voglio, eccome... Ho aspettato anche troppo, adesso devo recuperare...” gli assicurò lei, con una sottile risata, e, azzardando un piccolo morso al lobo dell'orecchio di lui, lo lasciò libero di ricominciare, incurante dell'alba che squarciava la fredda notte di marzo appena finita.

   
 
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