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Autore: Padme Mercury    19/01/2022    0 recensioni
Una serie di brutali omicidi solletica l'interesse di Sherlock Holmes e del suo amico John Watson. All'apparenza slegati l'uno dall'altro, sono dei biglietti molto particolari che li uniscono sotto il nome di un unico assassino.
I segreti si estendono a tutta la famiglia Holmes: l'entrata in scena della giovane Charlotte cambia gli equilibri dell'appartamento al 221B di Baker Street, forse per sempre.
Sherlock si troverà davanti ad una scelta difficile che aveva sempre cercato di evitare: cuore o cervello? A cosa darà ascolto il detective?
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[N/A
La timeline è modificata rispetto alla serie originale. John è sposato con Mary anche se Moriarty è ancora vivo. Reichenbach non è ancora successo. L'età dei personaggi è leggermente modificata, così che Sherlock, John e Mycroft si trovino tutti tra i trentadue e i quarant'anni]
Genere: Mistero, Sentimentale, Thriller | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: John Watson, Mycroft Holmes, Nuovo personaggio, Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: AU, What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Capitolo dieci


La convivenza fu più semplice di quello che John si aspettava. Charlotte faceva di tutto per farlo sentire a suo agio, arrivando a modificare le proprie abitudini per accomodare le sue. Per Sherlock non si sforzava così tanto, probabilmente la familiarità era più forte rispetto all'ospitalità. Ma Holmes sembrava non curarsene né accorgersene, dopotutto era quasi sempre fuori e spesso in casa rimanevano solo John e Charlotte.
Furono entrambi piacevolmente sorpresi nel vedere quanto facile fosse coordinarsi. I primi tempi in casa con Sherlock erano stati difficili, adattarsi al suo modo di vivere non era stata una passeggiata. Lei, invece, era molto più aperta e disposta a collaborare per rendere agevole il soggiorno anche a John. Certo, il medico a volte si trovava spiazzato di fronte a sbalzi d'umore improvvisi e cambi di idee repentini, ma riusciva a schivare il dardo avvelenato ed evitare il disastro.

Il medico aveva osservato con divertimento il comportamento di Charlotte e Sherlock nei confronti l'uno dell'altra. Sembrava che si percepissero a vicenda, evitandosi all'ultimo momento anche quando avevano il naso sepolto in qualche libro o risultato. Con mezza parola si trasmettevano discorsi lunghi ore e spesso anticipavano i bisogno dell'altro dandosi un bicchiere d'acqua o una penna o qualsiasi cosa avessero bisogno. Si erano ritrovati ogni tanto ad ignorare John involontariamente, troppo presi dai loro compiti e i loro scambi incomprensibili a tutti gli altri per rendersi conto di ciò che li circondava.
Più li osservava, più si rendeva conto di quanto fossero simili. Avevano lo stesso modo di camminare quando erano diretti con sicurezza verso un obiettivo, lo stesso modo di tenere la sigaretta tra le labbra - il filtro era sempre pieno di piccoli solchi provocati dai loro denti, si distinguevano solo dalle leggere tracce di rossetto o burrocacao di Charlotte. Quando riuscivano a sciogliere un nodo che li teneva occupati, avevano entrambi la stessa espressione soddisfatta e la stessa luce negli occhi, che in pochi secondi li spingeva a correre e mettere in pratica le loro idee. A John sarebbe piaciuto sapere se anche loro vedevano tutte queste somiglianze. Se Sherlock fosse in grado di notare quanto brillante e sveglia fosse in realtà la nipote e se Charlotte si rendesse conto che non era poi così diversa dalla sua famiglia come credeva. Ma allo stesso tempo si chiedeva quanto avesse dovuto soffrire quella ragazza per arrivare a quel punto, a quanto aveva dovuto rinunciare, a come si fosse costretta a lottare contro i suoi istinti più basilari. Certo, a giudicare dalle fotografie che teneva sul mobile non era mai stata completamente sola, ma non era circondata di persone. Due amici, un fidanzato e la sua famiglia. Un mondo ristretto, sicuro, che adesso l'aveva lasciata da parte per seguire le proprie ambizioni o semplicemente perché la vita li aveva portati lontani. Chissà quei due ragazzi che aveva visto sorridere con lei dove si trovavano. Di sicuro non erano a Londra, perché mentre lei era lì non li aveva mai incontrati o nominati.
Forse era una prerogativa degli Holmes, pensava John. Non formavano legami e vedevano i sentimenti come una debolezza. Forse era una forma di protezione: avere meno persone che si amano, voleva dire rischiare la vita di meno persone. Dopotutto anche Sherlock non aveva molti amici. Oltre a lui e Mary, c'erano solo Molly, Lestrade e la signora Hudson. Certo, aveva anche tutta la rete di senzatetto che lo aiutava, ma più che amici sembravano collaboratori. Mycroft invece pareva non avere affetti all'infuori della famiglia, e l'unica con cui si poteva vedere un rapporto quasi umano di amore era proprio con sua figlia. Anche Charlotte doveva essere stata condizionata da questi esempi, tanto che la sua vita si era ridotta a girare attorno a pochissime persone.
A pochissimi uomini, volle puntualizzare John. Era una donna sola in un mondo di uomini, e non riusciva neanche ad immaginare quanto difficile potesse essere per lei riuscire ad adattarsi a quell'universo.

Spesso, in quei giorni, l'aveva vista perdere lo sguardo nel cielo. Che fosse giorno o sera, lei cercava qualcosa oltre le nubi e le stelle. Una sera si era seduto a terra in giardino assieme a lei, avvolto nel suo giubbotto. Le aveva portato una coperta che aveva posato sulle sue spalle, notando che con la sua felpa bordeaux ormai aveva troppo freddo, e si era accomodato di fianco a lei. Non aveva detto una parola e si era limitato a seguire il suo sguardo. Il libro di testo era abbandonato sulle sue ginocchia, le pagine aperte sulla teoria filosofica di Aristotele sembravano aspettare un lettore che non sarebbe arrivato per tanto tempo.

"Sto cercando i miei genitori." aveva detto lei all'improvviso. Niente più che un sussurro, così leggero da confondersi con le ombre della sera e così dolce da ricordargli i fiori di maggio.

John distolse per un istante lo sguardo dal cielo per posarlo su di lei. La luce che arrivava dalla cucina la colpiva debolmente, unendosi a quella dei lampioni che illuminavano la strada. Quel riverbero arancione donava un'intensità dorata ai suoi occhi, che in quel momento sembravano due pozze di miele pronte a sciogliersi. Era bellissima, quasi un angelo che aveva perso le ali e soffriva nel non poter tornare a casa sua. Il medico abbassò la testa, poi tornò a puntare lo sguardo sulla volta celeste. Già... anche lui ogni tanto si era trovato a cercare risposte lassù. A cercare gli occhi di suo padre, che aveva visto per l'ultima volta a sette anni prima che partisse per la guerra, destinato a tornare in una bara di legno coperta dalla bandiera inglese. Scandagliava il cielo per ritrovare il sorriso e l'abbraccio di sua madre, morta d'infarto (è morta di dolore, stupido di un John Watson, perché tu l'hai abbandonata) mentre lui stesso era in Afghanistan a combattere per la patria - o forse solo per seguire le orme di un uomo che aveva idolatrato e che vedeva come un eroe?

"Cosa sai di loro?" le chiese con dolcezza, nascondendo i suoi stessi sentimenti. La vide con l'angolo dell'occhio sorridere mestamente e giocherellare con l'orlo della coperta.

"Poco. So solo che erano gli unici amici di papà. Lui... Aveva iniziato l'università prima del tempo, a sedici anni, e loro due avevano preso le sue difese quando un'altra matricola lo aveva preso di mira. Poi lo avevano visto sempre da solo, sempre a schivare le persone, e allora hanno cominciato a parlare con lui ogni volta che lo vedevano, a coinvolgerlo nei loro piani. A trattarlo da amico, da persona alla pari, senza aver paura della sua intelligenza. All'inizio papà cercava di allontanarli, ma col tempo si è affezionato. Dice..." si fermò un attimo, si schiarì la gola e prese un grosso respiro. "Dice che sono uguale a mia madre. Stesso sguardo, stesso sorriso, stessa irruenza. Anche loro non avevano più nessuno, erano da soli e si tenevano compagnia. Papà dice che non aveva mai visto due persone così innamorate l'uno dell'altra, innamorate della vita. Amavano senza chiedere niente in cambio. Forse era questo che aveva affascinato papà, era questo che li rendeva così interessanti e degni di nota per lui."

Poggiò il libro sull'erba di fianco a lei e tirò su le ginocchia. Si circondò le gambe con le braccia e appoggiò il mento, sospirando.

"E... Cosa è successo?" chiese John dopo qualche istante di silenzio, temendo però in quel modo di rovinare l'atmosfera. Il suo cuore martellava nel petto, aveva paura della risposta a quella domanda e non sapeva neanche lui perché.

"Quando sono nata, loro e papà erano quasi inseparabili. A quanto pare è stato il mio padre biologico ad aiutare papà nel suo lavoro. Comunque... Papà era il mio padrino. I nonni li avevano accolti con piacere, forse erano felici che finalmente il figlio maggiore avesse degli amici. Ma ci fu un incidente. Quando avevo poco meno di un anno, un camion prese in pieno la loro auto e morirono sul colpo. Io ero con i nonni, fortunatamente, ma papà è stato chiamato a riconoscere i corpi. E dato che non avevo altra famiglia biologica, sono stata affidata a lui, che mi ha adottata legalmente." terminò il suo racconto con un respiro profondo, sempre guardando il cielo.

John non stava più guardando in alto. Aveva spostato lo sguardo su di lei, seguendo il suo racconto mentre studiava ogni minimo movimento del suo volto. Ma sembrava che raccontare quella storia non fosse tanto diverso dal recitare una fiaba o una poesia. Gli occhi erano fissi, le labbra non tradivano alcun tipo di emozione e la voce era ferma, decisa. Era fredda e distaccata mentre raccontava di come erano morti i suoi genitori, completamente in contrasto a come era apparsa poco prima.

"Char..."

"Ma io non gli credo." lo interruppe con voce ferma. John aggrottò le sopracciglia, confuso. "Insomma, se è andata così, perché non so i loro nomi? Perché non so dove sono sepolti, non siamo mai andati a trovarli? Perché in tutti i documenti, anche il mio certificato di nascita, sono registrata come Holmes?" si morse le labbra, strappandosi le pellicine. Adesso riusciva a vedere la sua emotività, la rabbia per non sapere la verità e il dolore nel dover affrontare quella situazione. "Per questo li cerco ogni sera. Perché spero che mi diano una risposta. Ma sono vent'anni che stanno zitti, che non si fanno sentire, e io non ce la faccio più."

John rimase immobile a quello sfogo. La voce di Charlotte si era rotta più volte in quelle poche parole e dai suoi occhi erano scese alcune lacrime che, alla luce dei lampioni, mandavano riflessi arancioni. Non riuscì a fare altro che guardarla per qualche secondo, preso alla sprovvista dal suo comportamento. Anche lui, spesso, aveva bisogno di sentire la voce dei suoi genitori e chiedere loro tante cose, ricevere molte spiegazioni. Ma almeno lui sapeva i loro nomi, conosceva i loro volti e poteva andare a cambiare i fiori alle loro tombe quando voleva. A lei tutto quello era stato negato, non poteva conoscere le sue origini, e John non poteva immaginare quanto male potesse fare.
Si avvicinò appena a lei e le passò un braccio attorno alle spalle. Esercitò una leggera pressione sul suo braccio, così da invitarla ad appoggiarsi a lui. Lei posò la testa sulla sua spalla, rannicchiandosi contro il suo fianco e asciugandosi le guance con le maniche della felpa. John poggiò la guancia sulla sommità della sua testa, lasciando che lei trovasse una posizione comoda senza costringerla.

"Scusami, John, sono patetica." sussurrò, tirando su col naso. John sorrise, stringendola appena di più per farle capire che non doveva preoccuparsi.

"Per niente. Al tuo posto, io non so cosa avrei fatto. Ma non credo che Mycroft ti abbia mentito per cattiveria... Lo avrà fatto per proteggerti."

"Non ho bisogno di protezione. Tutti pensano che debba essere protetta da qualcosa, ma so cavarmela da sola. Io voglio risposte, voglio la verità." strinse un pugno contro la stoffa e John, di contro, le accarezzò il braccio.

"Oh, ma io lo so bene. Credi che mia madre, se fosse ancora qui, non cercherebbe di proteggermi da qualsiasi cosa? È l'istinto dei genitori." le indicò due stelle vicine che sembravano farsi la corte a distanza di anni luce. "Vedi quelle due? Ecco, io penso che siano mio padre e mia madre. E mi danno il tormento ancora adesso, sai? Sono sempre lì a guardarmi e giudicare quello che faccio. Mettiti la maglia della salute! Stai attento! In cosa ti immischi con quello Sherlock Holmes, sei pazzo?" scherzò, modificando la voce per imitare il modo in cui gli avrebbe parlato la madre. Charlotte si lasciò andare ad una risatina che scaldò il cuore di John. "Ma è colpa dell'amore che provano per noi. E non credo esista un padre che ami i suoi figli più di quanto Mycroft ami te. Devi credermi, Char, l'ho visto nei suoi occhi."

La voce di John era una carezza per le orecchie di Charlotte. Le sue parole erano riuscita a calmarla almeno un po', a farla sentire meno sola. Si strinse di più a lui, passandogli le braccia attorno per abbracciarlo a sua volta. Erano rimasti poi a guardare il cielo assieme per un po' e, quando rientrarono, John notò dall'orologio che era la mezzanotte del 9 febbraio. Sorrise e fermò la ragazza, dandole un ultimo abbraccio e sussurrandole all'orecchio "buon compleanno, Char".

Il giorno dopo, il compleanno della ragazza, tutto sembrava andare alla perfezione. Charlotte aveva passato molto tempo al telefono, i suoi nonni l'avevano trattenuta in linea per circa un'ora, poi aveva ricevuto una chiamata probabilmente dai due amici che John aveva visto in fotografia. Non fu contattata da David, ma affrontò la situazione con un mezzo sorriso. Probabilmente non gli hanno permesso di usare il telefonooppure non prende, aveva detto. John non aveva avuto cuore di dirle che, invece, più probabilmente erano impiegati in una missione e quindi chiamare casa era l'ultimo dei suoi pensieri.
La telefonata con Mycroft fu quella più lunga di tutta la giornata. Oltre ad averle fatto gli auguri, volle infatti assicurarsi che tutto stesse andando bene - papà, lo sai che va tutto bene, le ho viste le tue telecamere -, che Sherlock si stesse comportando bene e che lei si stesse dedicando allo studio.
Anche Sherlock si era un po' lasciato andare quel giorno. Quando si era svegliato ed era entrato in cucina, dove Charlie e John stavano facendo colazione, non aveva detto una parola e aveva fatto alzare la ragazza. L'aveva stretta in un abbraccio, tanto atipico per lui che anche Charlotte rimase interdetta ed impiegò qualche secondo prima di ricambiarlo. "Buon compleanno, piccola" era tutto quello che le aveva detto, abbastanza piano perché solo lei riuscisse a sentirlo davvero.
John aveva sorriso a quella scena, guardandoli come se fossero un'opera d'arte. Non poteva nascondere di essere in parte fiero di Sherlock e dei passi avanti che stava facendo nelle relazioni. Stava finalmente imparando ad accettare il suo lato umano, a non respingerlo, e anche un gesto piccolo come quello rappresentava un grosso traguardo raggiunto. John aveva poi preparato una torta per Charlotte, piccola perché tanto erano in tre e al cioccolato perché aveva imparato che lo amava. Aveva notato che aveva fatto un po' di fatica, soprattutto alla prima forchettata, ma poi si era fatta coraggio e aveva finito almeno la fetta che le aveva messo nel piatto. Che fosse per fargli un piacere o meno, poco importava.

Fu il giorno seguente a mandare tutto a rotoli. La giornata sembrava essere cominciata in maniera normale ed era proseguita senza particolari scossoni. Sherlock era rimasto fuori la maggior parte del tempo, Charlotte si era divisa tra la traduzione dello spartito e lo studio delle sue materie, mentre John cercava disperatamente qualcosa da fare per dare una mano o, almeno, per passare il tempo. Non si erano riuniti neanche per pranzo, e John sentiva che qualcosa non andava. L'apparente armonia di quei pochi giorni si era rotta. Sherlock era nervoso e Charlotte sembrava lo spettro della ragazza del giorno prima. Aveva gli occhi spenti e lo sguardo distante, come se fosse con loro solo col corpo ma la mente fosse altrove. John aveva notato che aveva ripreso quel leggero tremore che era sparito da quando erano lì ed evitava di mangiare con loro o comunque di passare del tempo in compagnia. Stava rinchiusa in una delle stanze al piano di sopra e metteva il naso fuori solo per andare in bagno. Durante il tardo pomeriggio, però, John riuscì ad intercettarla e la fece scendere con la scusa di bere un the. Ignorò i primi tentativi di ribellarsi della ragazza, che però alla fine decise di desistere e lo seguì al piano di sotto, forse solo per farlo felice e farlo smettere di essere così insistente.

La fece sedere in cucina, dove c'era già Sherlock col naso sepolto in diversi fogli che parevano essere i risultati delle analisi che aveva fatto nei giorni precedenti. Alzò appena lo sguardo su di lei, ritenendo quindi più interessante osservarla piuttosto che continuare a studiare quei numeri senza riuscire a venirne a capo. Lei evitava il suo sguardo, continuava ad abbassare gli occhi e ritrarsi a lui come se avesse qualcosa da nascondere. Ma Sherlock rimase immobile, la mascella rilassata e lo sguardo attento.
John si era reso conto di quel piccolo cambiamento. Era lo sguardo che Sherlock usava sui suoi clienti, quello che era dieci passi avanti anche solo al loro pensiero e che non si lasciava sfuggire neanche un dettaglio. Stava deducendo sua nipote e, dalla leggera torsione dell'angolo della bocca, quello che vedeva non gli piaceva. Oh no, non gli piaceva per niente.

"John, portale anche qualcosa da mangiare oltre il the." sentenziò con voce sorprendentemente calma. Ma John ormai lo conosceva abbastanza bene da cogliere quel sottofondo di preoccupazione che non mostrava mai a nessuno, una sorta di urgenza che spingeva per uscire. Riconosceva quello sguardo che voleva dire che se la persona davanti a lui non avesse fatto quello che diceva, allora le cose si sarebbero messe male. Molto, molto male.

"Non ho fame." replicò semplicemente lei, alzando finalmente lo sguardo e incrociando quello di Sherlock.

John osservò quello scambio mentre poggiava le tazze di the sul tavolo - a Sherlock aveva preparato un the nero Darjeeling, mentre aveva imparato che il preferito di Charlotte era il the bianco alla rosa con dentro un goccio di miele. Aveva inconsciamente scelto delle tazze che li rappresentavano così come il liquido all'interno. Quella di Sherlock era scura, solida, trasmetteva sicurezza e fermezza. Per Charlotte aveva invece preso una tazza di ceramica delicata, dal colore chiaro e piccoli disegni color rosa antico e oro. Era fragile e bellissima, come lei, ma incredibilmente resistente.

"Non hai mangiato per tutto il giorno." rincarò la dose Sherlock, piegandosi appena sul tavolo per avvicinarsi alla nipote, che dal canto suo si ritirò appena indietro. E ti ho sentita durante la notte vomitare tutto quello che hai ingerito ieri, avrebbe voluto aggiungere. Lo avrebbe fatto senza pensarci se davanti a sé avesse avuto un'altra persona, ma si morse la lingua davanti ai suoi occhi.

John avrebbe voluto fermarlo, ma non fu in grado di muoversi. Rimase lì, seduto a capotavola come un idiota con in mano la sua tazza di the rosso - l'aveva assaggiato lì da lei per la prima volta e ci aveva completamente perso la testa - che sorseggiava lentamente.

"Neanche tu." rispose la ragazza, alzando il mento in segno di sfida.

"Non mangio mai durante un caso, mi rallenta." si affrettò a puntualizzare il detective, incrociando le dita sul tavolo. "E non vale la stessa scusa per te."

"Oh, avanti! Per te va bene saltare i pasti e per me no?" aveva assunto ormai un tono quasi petulante. John riusciva a vedere la sua reale età in quel momento. Non era che una ragazzina che aveva paura del mondo e che voleva ribellarsi, che non capiva perché le stesse regole non potessero valere anche per gli adulti.

"Io non soffro di anoressia, Charlotte!" non avrebbe voluto usare quel tono perentorio e quasi infuriato, pronunciare il suo nome come un tuono che preannuncia la pioggia. Dentro di sé si rese conto di essere andato troppo oltre, di aver esagerato, ma il suo aspetto esteriore non lo tradì.

Uno, due, tre battiti mancarono al suo cuore quando l'espressione di Charlotte mutò. Prima aveva uno sguardo di sfida, era pronta a contrattaccare. Ora sembrava un gattino bagnato, gli occhi grandi e un principio di lacrime che le bagnava le iridi. John lo guardava accigliato, lo avrebbe sgridato se solo fosse stato sicuro di potersi intromettere, ma in quel momento trovò più sicuro rimanere ad assistere come un testimone silenzioso.

"Sono guarita, zio." disse lei piano, inumidendosi le labbra e distogliendo lo sguardo.

L'aveva ferita, le aveva fatto del male ancora. Tutte le volte che succedeva si prometteva di smetterla, di trattarla in modo diverso, di essere più gentile con lei. Ma ogni volta falliva, ogni volta le spezzava sempre di più il cuore. C'erano le piccole occasioni, in cui la faceva sentire piccola e inadeguata. E poi le situazioni come quella, in cui faceva qualcosa che le lacerava l'anima. Ma bravo, Sherlock, adesso devi riconquistarla di nuovo. Come dicono, la terza volta è quella buona, no?

"No, direi di no. Da quando ti sei trasferita qui hai perso 8 - no, 9 kili. Hai ricominciato ad indossare abiti larghi, forse per nasconderti o forse per non far vedere quanto sei davvero magra. Conti tutto quello che mangi, ti ho vista, e quando ieri John ti ha messo la torta davanti sembravi sul punto di scappare. Ti tremano le mani più o meno sempre, sei fredda e hai un aspetto sempre stanco per quanto cerchi di nasconderlo col trucco. Ti stanno cadendo i capelli, ogni mattina il cuscino ne è pieno, e--"

"Basta!" urlò Charlotte, sbattendo le mani sul tavolo e alzandosi in piedi. John drizzò la schiena, stupito da quel gesto e dalla forza con cui lo aveva compiuto, decisamente più violenta di quanto il suo corpo minuto desse ad intendere. Sherlock ammutolì immediatamente e la guardò. "Adesso... basta." terminò con un tono di voce che voleva sottintendere che non ammetteva repliche.

"Lotte..." disse piano, preso appena alla sprovvista da quella reazione così violenta"Se continui così, dovrai essere ricoverata di nuovo." lo disse con il suo solito tono superiore, come se fosse un dato di fatto. Charlotte non riuscì a nascondere una leggera smorfia a quelle parole, infastidita dal modo in cui si comportava ogni volta.

"E da quando ti importa? A te è sempre e solo fregato dei tuoi casi." gli ringhiò contro, piegandosi sul tavolo. John tese le spalle, pronto ad intervenire, ma Sherlock era tranquillo. La guardava negli occhi.

'Sempre. Mi è sempre importato di te. Ti voglio bene più di chiunque altro, lo sai. Se ti sto dicendo tutto questo è proprio perché sono preoccupato per te' avrebbe voluto dirle, ma dalle sue labbra non uscì suono. Rimase in silenzio a guardarla, i loro occhi si incontravano a metà strada come la spiaggia e il mare. Charlotte alzò un angolo della bocca in un sorrisetto amaro di scherno.

"Come immaginavo." commentò, prima di uscire dalla stanza e tornarsene al piano di sopra.

Sherlock si girò quindi verso John con le sopracciglia appena corrugate. Lo guardava come a chiedergli cosa avesse fatto di male, perché lei si fosse arrabbiata così. John sospirò e scosse la testa, alzandosi per mettere la sua tazza e quella di Charlotte - intoccata e che sarebbe rimasta così per sempre - dentro il lavandino.

"Tanti anni che la conosci, e ancora non sai come prenderla..." commentò rovesciando il the nello scarico e bagnando la spugna per poter lavare le due tazze.

"Ho solo detto la verità. Anche tu te ne eri accorto." replicò tagliente. John sospirò e posò le stoviglie sullo scolapiatti. Si girò, appoggiandosi al lavello con le reni e incrociò le braccia sul petto.

"Certo che me ne ero accorto. Sono un medico, Sherlock, lo vedo se una persona ha problemi di salute. E in questi casi serve dolcezza, non sincerità."

Rimasero per qualche istante fermi nelle loro posizioni, Sherlock con l'attenzione di nuovo catturata dai fogli che aveva sparsi sul tavolo e John che lo osservava. Poi il medico si avvicinò e prese anche la tazza del detective, ormai vuota, per lavarla.

"Non l'hai persa, comunque." gli disse piano prima di tornare al lavello. Era la sua offerta di pace, il suo modo per fargli capire che non era arrabbiato con lui. Era convinto di quello che gli aveva detto, non l'avrebbe persa mai.

 

   
 
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