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Autore: holls    27/01/2022    6 recensioni
Alan ha solo venticinque anni quando la vita decide di giocargli un brutto tiro; il dolore e lo sconforto appiattiscono la sua esistenza, rendendola grigia e monotona, tanto da domandarsi se sia degna di essere vissuta.
Diviso tra casa e lavoro, osserva le sue giornate scorrere come un encefalogramma piatto, finché, una mattina, una rapina nel cuore di Manhattan lo costringerà a interrogare Nathan, uno dei testimoni.
Alan non tarderà a definirlo un ragazzino irritante per la sua vitalità e spregiudicatezza verso il mondo, per non parlare della malizia che sembra trasudare da ogni occhiata. Sembrerebbe l'occasione per riportare un po' di colore nella sua vita... ma, come in ogni storia che si rispetti, niente è come sembra.
Per nessuno dei due.
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Genere: Introspettivo, Mistero, Thriller | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash
Note: Lemon | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Nathalan'
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20. Castello di carte

 

 

Le parole di Nathan mi rimbombarono nella testa per un altro paio di minuti, durante i quali lo guardai uscire dalla centrale, camminare, accendersi una sigaretta e poi sparire dietro l'angolo. Io me ne restai lì impalato, mentre il cuore combatteva con quel mostro che era la ragione.

Me ne tornai in ufficio con la coda tra le gambe, lo sguardo di chi ha perso una battaglia e temeva di perdere l'intera guerra.

«Tutto bene?»

Ash mi guardava preoccupato, mentre in mano stringeva la dichiarazione di Nathan. Inchiostro nero che formava lettere, parole e frasi che non avrei mai voluto sentire.

Mi avvicinai ad Ash e mi sedetti sulla scrivania, a fissare le fughe del pavimento che si perdevano e si reintrecciavano.

Io schioccai la lingua.

«Mi ha chiesto di vedersi.»

Ash sbuffò e un sorriso amaro gli comparve sul volto. Non mi guardava. Scorse le pagine della dichiarazione, fino ad arrivare all'ultima cosa che Nathan aveva detto.

«"Forse questa storia della droga l'ha messo nei casini. Ho addirittura pensato che anche lui c'entrasse qualcosa con la rapina". Lascia poco spazio alle interpretazioni. Tu sei sicuro di non avergli raccontato niente delle indagini?»

Annuii.

«Niente di niente. Quantomeno, niente da dargli delle certezze così forti.»

Entrambi sospirammo. Faceva così male. Perfino il fatto di essermi innamorato, di fronte a quella frase, sembrava meno doloroso.

«E allora c'è poco da fare. Se tu non gli hai detto niente, era impossibile che sapesse che il movente della rapina è la droga e che uno dei suoi amici è coinvolto. Non poteva saperlo e basta, a meno che non sia coinvolto in qualche modo.»

«Già.»

Mi sforzai di trovare una giustificazione, pensai per un attimo che forse eravamo noi ad aver capito male, o che Ash avesse trascritto nella maniera sbagliata; eppure non era possibile, perché, nell'istante stesso in cui Nathan aveva pronunciato quelle parole, sia io che Ash ci eravamo voltati verso l'altro contemporaneamente, sorpresi.

E il mio collega aveva ragione: non era possibile che Nathan sapesse quelle cose ed era altrettanto improbabile che derivassero da un semplice sospetto.

«Hai fatto bene a non incalzarlo, dobbiamo giocare bene le nostre carte. L'ideale sarebbe riuscire a scoprire quanto sa e se sia realmente coinvolto.»

Ash si zittì. Io continuavo a trovare il pavimento più interessante, ma era un gesto automatico, come se i miei occhi non potessero fissare altro. Con la coda dell'occhio vedevo che il suo sguardo era rivolto a me e temevo, come una specie di presagio, che direzione avrebbe preso quella conversazione. E forse era proprio per quello che non riuscivo a guardarlo, che non volevo, perché alzare gli occhi significava che ero pronto ad affrontare quel discorso, quando evidentemente non era così.

«Alan...»

Io risposi con un mugolio.

«Nathan si fida di te.»

«Appunto.»

Esitò un attimo, poi proseguì. Nella stanza c'era un innaturale silenzio, o forse ero io che cercavo di mettere a tacere ogni pensiero.

«Quand'è che vi vedrete?»

Fu solo in quel momento che alzai gli occhi verso di lui e quello che gli rivolsi fu uno sguardo truce. La sua espressione si irrigidì, ma ero pronto a non dargliela vinta.

«Non puoi chiedermelo. Sarà un'uscita tra amici e gli amici non si pugnalano alle spalle. Se vorrai chiedergli qualcosa, lo convocherai qui e gli farai tutte le domande che vuoi.»

«Non mi sembra che tu ti sia fatto tanti problemi, quando hai dovuto fare la stessa cosa al Webster Hall.»

«Era diverso!»

Un uccellino si librò in volo e sbatté le ali contro le foglie della quercia. Si udì uno sfrigolare e un pigolio, poi solo il suono ovattato di ruote sull'asfalto.

«Alan, io capisco quello che provi. Ma ora devi mettere da parte i sentimenti e non sono io a chiedertelo, ma la causa su cui hai giurato. La verità deve avere la priorità massima per te, e questo deve valere per tutte le situazioni.»

Sapevo di non poter fare un'eccezione per Nathan. Lo sapevo. Lo sapevo, dannazione! Ash non poteva chiedermi una cosa del genere, ma a chi volevo darla a bere? Nell'esatto istante in cui lo avessi visto lì, quel martedì sera, avrei cominciato a guardarlo con occhi scrutatori, a chiedermi cosa si nascondesse dietro quel faccino e tutti quei sorrisi che mi faceva. E in mezzo alle domande in cui mi chiedevo se facesse quei sorrisi solo a me, avrei anche cominciato a chiedermi se fossero tutte bugie. Distacco, sempre distacco. Era così che dovevo portare avanti quell'indagine, e l'errore era stato mio, che mi ero innamorato del testimone che però pareva sapere un po' troppo per rimanere in quella posizione. La colpa era solo mia e, per correttezza, avrei dovuto lasciare quel caso oppure mettere da parte i sentimenti.

Quello che provavo per lui sembrava che non dovesse avere un seguito e la presenza di Oliver, che avevo creduto sempre e solo nella mia testa, cominciò a sembrarmi reale. Forse era così che doveva andare: incatenato a Oliver per il resto della mia vita, senza possibilità di scampo, perché io mi ero innamorato ancora e non avrei dovuto. E che altro poteva essere?

Tuttavia, c'era un'idea che mi ronzava in testa: perché se era piuttosto ovvio che Nathan sapesse qualcosa di troppo, non era altrettanto scontato il suo coinvolgimento nella rapina.

«Ash.»

«Dimmi.»

«Hai ragione. Ho fatto un giuramento e non posso rinnegarlo per un ragazzo. Nonostante questo, secondo me abbiamo tirato conclusioni troppo affrettate. In altre parole, non è detto che Nathan sia coinvolto nella rapina.»

Lui aggrottò la fronte un attimo, poi annuì.

«Ti ascolto.»

«Ricordi il filmato della rapina? Fin da subito avevamo ipotizzato che Nathan e il rapinatore si conoscessero. E forse è andata proprio così: all'inizio Nathan non lo ha riconosciuto, tant'è che è anche venuto a rilasciare una dichiarazione; poi ha capito chi era e lo ha ricollegato alla rapina.»

«Ed è stato zitto, invece di venire subito alla polizia per dirci l'identità di uno dei rapinatori.»

Quella frase mi ammutolì. Aveva ragione e Nathan sarebbe stato nel torto in ogni caso, ma c'era una bella differenza tra un suo coinvolgimento e l'essere solo una persona informata sui fatti.

«È vero. Però non è necessariamente detto che sia coinvolto in modo attivo nella rapina.»

Ash si alzò e indugiò un poco; poi si avvicinò a me, la faccia seria.

«Lascio a te l'onore di scoprirlo.»

Per quella sera, furono le ultime parole che scambiammo. Mi lasciò lì, a rimuginare, e per un attimo credetti quasi che cominciasse a provare del risentimento verso Nathan. Lo trovai comprensibile per certi versi, perché era innegabile che la sua presenza riusciva a mettere in dubbio la mia professionalità.

Ma io alla mia causa ci credevo davvero, quella per la Giustizia era una vocazione; ma era altrettanto vero che l'infatuazione per Nathan aveva tutto il sapore di un miracolo, e chi ero io per rifiutarlo?

 

Il lunedì arrivò, come sempre, troppo in fretta. Passai quel fine settimana a tormentarmi sulle parole di Ash e a cercare una possibile contraddizione su ciò che aveva detto; non la trovai.

Arrivai in ufficio con una patina di agitazione addosso, che nemmeno l'ultimo sole di agosto riuscì a sciogliere. Mi chiusi la porta alle spalle e salutai Ash, che però, di rimando, mi salutò con una freddezza tale da congelarmi all'istante. Alzò a malapena gli occhi su di me, preso com'era da qualcosa che di interessante non aveva proprio niente. Stava sfogliando una rivista, una qualunque e non notò nemmeno che lo stavo fissando, in cerca di una spiegazione.

«La notte ha portato consiglio?»

Il suo tono fu piuttosto arrogante. Solo di fronte al mio silenzio alzò gli occhi e lessi, nel suo sguardo, un'aria di sfida che non mi piaceva affatto.

«Ha portato consiglio, sì. Vedo se domani sera riesco a scoprire qualcosa.»

Ash sbuffò.

«Bene, mi fa piacere.»

Calò di nuovo un silenzio denso, che non lasciò spazio ad altre parole, da nessuna delle due parti. Posai i miei effetti sulla scrivania, mentre Ashton era ancora perso in quella lettura che tentava di dissimulare la sua freddezza.

Lo invitai ad ascoltare le intercettazioni che finalmente eravamo riusciti a ottenere e fu solo in quel momento che mostrò un pizzico di entusiasmo. A me ancora non parlava, quantomeno non da amico.

Pazienza, mi dissi, gli passerà.

 

Le intercettazioni non erano poi molte. Ebbi come la sensazione che le persone coinvolte avessero cominciato a percepire i nostri movimenti e che stessero limitando le comunicazioni.

Dal cellulare di Michael, come ci aspettavamo, le chiamate in uscita si erano praticamente azzerate, così come quelle in entrata. Ryan Goldwin non aveva più tentato di raggiungerlo, così come il numero privato. Solo William Clide si era fatto vivo, una sola volta, e sospettammo che Michael avesse approfittato di quell'occasione per dirgli di non chiamare più. Che quella nostra incursione avrebbe destato sospetti non era un mistero, ma una possibilità a cui eravamo preparati; e viste le conseguenze che aveva portato, cioè la riduzione di tutte le comunicazioni tra gli interessati, cominciò a prendere forma l'idea che dietro alla rapina ci fosse un'organizzazione piuttosto ampia.

Io e Ashton ci sedemmo accanto agli informatici che avevano recuperato le intercettazioni, ordinate per data e ora.

Cominciammo ad ascoltare la prima, del 26 agosto, giorno in cui eravamo andati a trovare Michael, per così dire. La telefonata era partita proprio dal suo telefono, diretta a quello di Clide, ed era stata l'unica e ultima chiamata effettuata da Michael.

"Will? Ciao, sono Michael."

"Ehi, ciao. Che succede?"

"Niente, volevo vederti. Dimmi tu dove e quando. Ah, per quella roba che dovevi riportarmi, non importa. Quindi vestiti pure leggero, non voglio ritrovarti squagliato per strada."

"Ricevuto. Ti faccio sapere quando ci sono."

"Va bene. A presto."

La chiamata si chiudeva lì. Una conversazione senza dubbio piuttosto particolare, ma dalla quale era semplice ricavare qualcosa.

«Era una mossa prevedibile da parte di Cossner», commentò Ash. In effetti aveva ragione.

«Sì. E anche quel 'vestirsi leggero' credo che sia un riferimento ai telefoni cellulari. Gli stava dicendo di usarlo il meno possibile.»

Ashton annuì.

«Sì, credo anch'io. Andiamo avanti.»

Riguardo a Michael, non c'erano altre conversazioni interessanti.

C'erano invece molte intercettazioni di telefonate intercorse tra Ryan e il numero privato. Ascoltando le conversazioni, capimmo che il misterioso numero altri non era che Waitch, ogni volta con un'utenza diversa. Ryan sembrava avere molto rispetto per lui e anche molta confidenza. Ascoltando le loro telefonate, mi convinsi del fatto che non era più tempo di rimandare l'arresto di Goldwin. Avevamo atteso per far credere ai responsabili della rapina che eravamo ancora in alto mare, ma, vista la piega che avevano preso gli eventi, forse non era più il caso di aspettare. Mi ripromisi di chiedere il parere di Ash.

Le loro telefonate non erano granché interessanti: fissavano spesso appuntamenti e chiedevano, in codice, informazioni sulle nostre indagini. Come ci aspettavamo, né Ryan né Waitch avevano delle informazioni certe.

Ascoltammo un'intercettazione che risaliva all’undici agosto, quasi tre settimane prima, ore 19:34.

"Pronto?"

"Qui Waitch."

"Ehi, dimmi tutto."

"Mi sono liberato. Ci saresti per farci una soda tra un’oretta?"

"Sì, ottima idea, ne ho assolutamente bisogno. Ci vediamo al solito posto? Ho una sete tremenda.”

“Sbrigo un paio di commissioni e poi ci sono. Ci vediamo lì. A dopo.”

La qualità della telefonata era buona e le loro voci avevano un suono molto pulito. A giudicare dal timbro di Waitch sembrava che camuffasse la voce, ma l'accento e l'inflessione con cui pronunciava le parole e le frasi ci lasciò pensare che fosse sempre la stessa persona.

Nel sentire la parola “soda”, mi tornò in mente il bigliettino che mi aveva mostrato Nathan, dove, e ne ero abbastanza sicuro, c’era scritta proprio quella parola seguita da una serie di cifre. A quel punto mi apparve piuttosto cristallino il significato di quei bigliettini e, veloce come la scarica di un fulmine, anche la faccenda di Michael assunse contorni più chiari. Soda, cibo per cani… Altro non erano che modi per chiamare la droga e per segnare il corrispettivo in denaro di quella dose. Ma come andai per posare il pezzo di quel puzzle, convinto che si sarebbe incastrato alla perfezione, questi incespicò proprio in un angolo, ed era inutile spingerlo: non voleva entrare.

Ashton partì con la registrazione successiva, un’altra telefonata tra Ryan e Waitch. Risaliva al giovedì appena passato, dunque a quattro giorni prima, ore 23:17.

"Ehi."

"Che succede?"

(questo era Waitch, si capiva dalla voce roca)

"Abbiamo un problema con Naitch."

(Naitch? Cos’era, uno scherzo?)

"Non potete avere problemi con lui."

"E invece è così. Che si fa?"

"Tienilo fuori. Con le buone o con le cattive, fai tu."

"Credi che sia pericoloso?"

"No, ma non è un cretino. Tienilo fuori."

(qui c’era una pausa da parte di Ryan. Poi un sospiro)

"Va bene. Ti tengo informato."

Anche quella conversazione giunse al termine. Le altre parlavano sempre di nomi in codice, incontri e poco altro, ma quella fu l’unica telefonata a tirare in ballo anche questo Naitch.

«Secondo te, chi è?», mi domandò Ash.

Io ci rimuginai un attimo.

«Non lo so, ma sia “Naitch” che “Waitch” sono nomi particolari, non trovi? E quei nomi in codice sono quasi sicuramente riferiti alla droga.»

Lui annuì.

«Sì, ovvio.»

Calò il silenzio, interrotto solo dal ronzio dei computer in funzione. Sospirai e pensai a quelle conversazioni e a quel pezzo di puzzle che di incastrarsi non ne voleva proprio sapere. Nella mente scorrevano immagini di bibite ghiacciate e cibo per cani, così come riportato su quei bigliettini, ma la mia mente non andava più in là di quello.

Finimmo di ascoltare le conversazioni dalle quali non emerse niente di significativo, ma sentivo che, per qualche motivo, quel pezzo di puzzle avrebbe continuato a tormentarmi ancora per un bel po’.

 

Mentre preparavo l’interrogatorio a Michael, i pensieri su Nathan continuavano a ronzarmi in testa. Riordinavo le carte, scorrevo le foto e pensavo che sì, c’era una piccola probabilità che mi avesse mentito fino a quel momento. Addirittura pensai che la nostra amicizia derivasse solo dalla mia professione, perché io ero un poliziotto e portavo avanti l’indagine, anche se a lui non avevo mai rivelato nulla.

          Scandagliare ogni possibilità era il mio lavoro, ma mi fidavo di Nathan. Sapevo che era innocente e che, in un modo o nell’altro, sarebbe stato messo in mezzo in tutta questa vicenda; e se la mia parte dedita alla Giustizia sapeva già cosa fare, quella appartenente ai sentimenti giurò a se stessa che avrebbe combattuto per l’innocenza di Nathan fino in fondo. Se veramente era un impostore, avrebbe dovuto mettere su una recita davvero molto complessa e non mi sembrava il tipo. Gente schizzata non mancava nel mondo, ma ero certo che lui non fosse uno di quelli.

Michael varcò la soglia della centrale con la stessa espressione altezzosa che ci aveva riservato il giorno in cui eravamo andati a fargli due domande. Aveva indosso una maglietta stracciata e, in contrasto, un paio di pantaloni di marca, forse di proprietà di William. Accanto a lui c’era quello che immaginai essere il suo avvocato, una donna sulla cinquantina, fiera e molto tirata. Non aveva aperto bocca che già pensai al fatto che sarebbero andati sicuramente d’accordo.

Io e Ashton li conducemmo nella solita stanza spoglia e notai che l’unica pianta d’arredamento stava cominciando a patire la sete. Per il resto, davanti alla scrivania c’era sempre quel muro bianco, talmente uniforme da suscitare un leggero fastidio. La finestra era chiusa, perché quel giorno gli spifferi erano più freschi del solito. Io sentivo un gran caldo, ma ad Ashton andava bene così e non avevo voglia di contraddirlo, non dopo la discussione che avevamo avuto. In un certo senso ebbi come l’impressione che anche Ash fosse giunto, bene o male, alle mie stesse conclusioni su Nathan; e se per amor di Giustizia condividevo i suoi stessi intenti, lo stesso non si poteva dire per le scelte fatte dal cuore, ma era più che comprensibile. Io dovevo solo evitare sbavature e tenere alta la mia professionalità.

Prima dell’interrogatorio ripetemmo a Michael quali erano i suoi diritti e anche che doveva giurare di dire tutta la verità. Gli ricordammo che mentire era un reato e lui, di tutta risposta, alzò gli occhi al cielo, come se quelle ovvietà fossero per lui una perdita di tempo.

Ash partì dunque con le domande e sperai solo che non combinasse qualche casino: era parecchio eccitato, perché era il primo interrogatorio dove gli avevo lasciato carta bianca, o quasi.

«Bene, signor Cossner, ci rivediamo. Come prima cosa, la pregherei di ripetere quello che ci ha comunicato il giorno giovedì ventisei agosto duemilauno.»

Michael sbuffò appena, ma fece come Ashton gli aveva chiesto. Io trascrissi tutto, ma non c’era niente di nuovo nelle sue dichiarazioni rispetto a quello che ci aveva raccontato quel pomeriggio.

«La ringrazio, signor Cossner.»

Il mio collega incrociò le mani sul tavolo e guardò Michael dritto negli occhi. Lui non si scompose, forte forse della figura che sedeva al suo fianco.

«Mi dica, che rapporto c’è tra lei e Ryan Goldwin?»

Nel sentire quel nome, Michael si irrigidì. Ero convinto che fosse ancora per quell’ancestrale istinto di alzare le difese in vista di una minaccia. Michael aveva la polizia davanti a sé e l’avvocata seduta accanto a lui, ma fuori da quelle quattro mura non c’era nessuno a garantire la sua incolumità.

«Be’» e cominciò a fregarsi le mani, «è partito tutto da lui. Io cercavo droga e lui è capitato al momento giusto. Solo che poi voleva soldi e io non ne avevo, così mi ha proposto di cominciare a spacciare, ma io mi sono rifiutato. Per questo mi sono nascosto. Ma lui rivoleva quei soldi indietro a tutti i costi, così ha fatto quel colpo grosso all’ufficio postale: sperava di spaventarmi.»

Ashton si limitò ad annuire, ma io avevo un paio di domande per lui.

«Mi potrebbe descrivere meglio le circostanze in cui vi siete conosciuti?»

Sia Michael che il mio collega mi lanciarono un’occhiata truce. Mi resi conto che Ashton, oltre che alla Giustizia, rispondeva anche molto alla sua ambizione personale. Voleva arrivare in alto e non voleva ostacoli tra lui e la promozione.

«È stato circa un mese prima della rapina. Era sulla tredici, insieme a un tipo ciccione. Avevo capito subito che spacciavano.»

«E da cosa l’ha capito?»

Michael fece un’alzata di spalle.

«Li vedi. Parlano tra di loro e si guardano continuamente intorno. Sembra che aspettino qualcuno, ma in realtà controllano che non arrivi la polizia. Poi, quando ti avvicini, basta vedere le facce che hanno.»

Annuii e aspettai un attimo prima di riprendere, per lasciare ad Ashton il tempo di intervenire; ma lui si limitò a stare zitto, facendo scorrere quei suoi occhi vispi sulle carte dell’indagine, così presi di nuovo la parola.

«Perché ha cominciato ad assumere cocaina?»

Michael si lasciò scappare uno sbuffo e alzò nuovamente gli occhi al cielo.

«Cosa vuole che le dica? Volevo provare. Lei non ha mai ceduto a una tentazione?»

Mi tornarono in mente le sue labbra che soffiavano fumo, quelle labbra che per un attimo avevo desiderato, e poi c’era la sua mano che mi tendeva la sigaretta e mi chiedeva se volevo provare. Alla fine c’ero io, con quella sigaretta spenta in bocca e il crepuscolo ancora lontano, cosicché nessuno potesse essere testimone di quella scena.

«No, resistere alle tentazioni è una qualità per essere un buon poliziotto. La sua famiglia è benestante, vero? Perché non è riuscito a ripagare il debito contratto con gli spacciatori?»

«I miei genitori sono ricchi, ma di certo non volevo usare i loro soldi per questa storia. Era una cosa mia, capisce? Ci volevano soldi miei e io non ce li avevo… E non ce li ho neppure adesso.»

«E dunque sono cominciate le minacce. Potrebbe descrivere cos’è successo dopo il suo rifiuto?»

Michael ci pensò un attimo e io lanciai un’occhiata verso Ash, che pareva furioso. Ma d’altronde, Michael era un tipo astuto e perdere tempo con lui significava perdere informazioni preziose. Forse il mio collega non era pronto per cavarsela da solo.

«Be’, hanno cominciato ad arrivare delle telefonate. All’inizio erano mute, poi, quando sentivano che ero io, allora parlavano e mi dicevano che mi osservavano. Poi hanno cominciato anche a prendere di mira la macchina.»

Michael si fermò, forse in preda al dubbio di non sapere quanto parlare o se semplicemente lo stessi ascoltando o meno, ma io feci cenno di proseguire.

«Sì, be’, ogni settimana mi trovavo la macchina rigata.»

«Saprebbe dire chi era che la minacciava al telefono? Era sempre la stessa persona o persone diverse?»

Lui schioccò le labbra e si lasciò andare ancora una volta a quel secondo di riflessione in cui riordinava le idee.

«Credo che fosse sempre Ryan. Aveva sempre la stessa voce, lo stesso modo di parlare.»

Mi rallegrai del fatto che Michael avesse cominciato a capire il modo in cui esporci le informazioni. Afferrai il fascicolo e scorsi appena gli angoli delle pagine, fino a giungere a quella dove era riposta una foto di Ryan. La estrasse e la girai verso Michael, che mi confermò che quello era proprio il ragazzo di cui stavamo parlando.

Riposi la foto e proseguii.

«E poi le sono arrivati dei bigliettini, giusto? Me li potrebbe descrivere?»

«Sì, esatto. Sono una specie di promemoria inviati da Waitch e i suoi, diciamo così. Sopra ci sono scritte le dosi e quanti soldi devi dare a quegli stronzetti, oltre al giorno e l’ora degli incontri. Ci scrivono sopra delle parole a caso, ma tanto sempre di droga si parla.»

Come se finalmente avessi scovato la briciolina di pane insidiosa, quella che ti si infila nella manica e ti buca il braccio, mi accorsi del perché quel pezzo di puzzle non riusciva a trovare il suo posto.

Michael aveva probabilmente ricevuto dei bigliettini perché aveva contratto dei debiti di droga; aveva senso, perché quei bigliettini erano una minaccia, un modo per ricordargli che aveva un conto in sospeso.

Ma Nathan?

Lui perché ne aveva uno? Mi aveva detto di averlo trovato in quel McDonald, ma ricordavo chiaramente che aveva parlato di bigliettini, al plurale. Non era l’unico che aveva ricevuto, o quantomeno non l’unico che aveva visto.

          Fu in quel momento che, per la prima volta, cominciai a pensare che Nathan mi avesse mentito con un fine diverso da quello che avevo creduto fino a quel momento. Lui sapeva di Ryan, sapeva della droga e anche dei bigliettini. Si era sempre spacciato per quello che voleva saperne di più, sconvolto da quello che la droga aveva fatto ai suoi amici e al suo ragazzo. Pensai per un attimo che dietro quel faccino d’angelo potesse nascondersi un autentico calcolatore: aveva fascino e tutte le carte in regola per farti credere quello che voleva.

          Eppure, be’, io non volevo credere che fosse un impostore.

«Il gruppo dove si ritrova, in genere?»

Michael si voltò verso l’avvocata. Si rese conto che, se ci avesse dato quell’informazione, era probabile una nostra incursione di lì a poco. La nostra intenzione non era certo quella di essere così precipitosi, ma Michael sapeva che la notizia del suo interrogatorio sarebbe circolata in fretta.

La donna, comunque, lo invitò a parlare.

«Mah, non hanno una base fissa. Per questioni di sicurezza, sa. Però vanno spesso a quel McDonald sulla trentaquattresima a spillare un po’ di bigliettoni a qualche povero deficiente.»

Era lo stesso luogo dove era stato Nathan e dove voleva portare anche me per fare delle indagini sul bigliettino che aveva trovato. Una spiacevole sensazione mi si irradiò per tutto il petto, come se i pezzi del puzzle si stessero finalmente incastrando, ma a formare un’immagine orribile. Cominciai a pensare che la richiesta di Nathan di andare con lui suonasse molto come un modo per costruirsi un alibi. Io sarei stato lì con lui a indagare sul suo povero amico finito nel giro sbagliato, e come poteva una faccia d’angelo come Nathan essere quindi coinvolto in quella brutta faccenda? Sembrava quasi un piano plausibile; eppure non volevo credere che fosse possibile. Io le avevo viste spesso le facce di quelli là, e lui con loro non c’entrava niente. Aveva tanti problemi, ma la cocaina non era uno di quelli.

Decisi di sfruttare la tecnica che aveva utilizzato Ash qualche giorno prima e tentai così di riallacciarmi a un discorso precedente.

«Lei è sicuro che l’autore della rapina sia Ryan?»

«Be’, non so se lui fosse proprio presente, anche perché non c’ero, ma di sicuro c’entra qualcosa. Anche se sono abbastanza convinto che glielo abbia ordinato Waitch.»

Ebbi la sensazione che Michael stesse cominciando a fidarsi di noi. Non avevo mai avuto bisogno di forzare la conversazione, ma, anzi, eravamo finiti proprio sull’argomento che desideravo senza farlo stizzire.

L’avvocata non aveva mai aperto bocca, se non per rassicurare Michael con un paio di gemiti di assenso, e anche quel fattore contribuì a non farci apparire degli squali agli occhi di Cossner.

«Mi parli di Waitch.»

«Come dicevo, di lui non so molto. Credo che Ryan lo conosca, li ho sentiti parlare al telefono diverse volte.»

Michael fece una pausa.

«Lei ha mai parlato con questo Waitch?»

«Sì, qualche volta. Mi ricordava che gli dovevo dei soldi per le dosi che avevo comprato.»

«Cos’altro sa di lui?»

Michael fece spallucce e scosse il capo.

«Non molto. Ha una voce calda e mi sembra un tipo sicuro di sé. Ma questo è tutto, non saprei dirvi di più.»

Sospirai. Mi venne in mente un’ultima domanda da fargli.

«Cosa sa di un certo “Naitch”?»

La reazione di Michael fu pressappoco la stessa che avevo avuto io una mezz’ora prima.

«Un amico di Waitch?» e si lasciò scappare un risolino. «No, vabbè, è la prima volta che lo sento. Non ho idea di chi sia. Forse è qualcuno che è entrato nel gruppo da poco.»

«Vi conoscete bene, all’interno del gruppo?»

«Be’, alla fine girano sempre gli stessi nomi. In codice o meno, ma sono sempre gli stessi.»

Annuii. Lanciai un’occhiata ad Ashton, ma anche lui aveva esaurito la sua scorta di domande, sempre che ne avesse mai avuta una. Gli assicurai che avremmo fatto di tutto per proteggerlo e mi apprestai a concludere l’interrogatorio con le dovute formalità; poi me ne tornai in quella stanza vuota e spoglia, dove le uniche presenze erano una pianta quasi morta e un collega che non riuscivo più a stimare come prima.

Ash era stato zitto tutto il tempo. In quel momento mi dispiacque pensare che gli avevo praticamente rubato la scena, ma quello era un caso molto più importante e intricato del previsto. Non c’era di mezzo solo una rapina, ma anche la droga e una sparizione, l’unico elemento di cui eravamo arrivati a capo. Mi ricordai anche delle parole di Nathan, quando aveva detto che Harvey era sparito. Cominciai a ipotizzare, in una maniera quasi azzardata, che anche lui come Michael si stesse nascondendo da Waitch.

«Quindi il fulcro di questo caso è la droga.»

Le parole di Ashton riempirono quel silenzio imbarazzante, uno di quelli che non può essere spezzato nemmeno dai discorsi sul tempo. La stanza era spoglia e la grande quercia di fronte alla finestra impediva di commentare il lugubre cielo di un settembre in dirittura di arrivo.

«Così pare.»

«Allora il caso passa alla narcotici?»

La mia mente si fermò un attimo. Non avevo mai pensato a quell’eventualità, perché sentivo quel caso come mio, quasi fosse il cavallo vincente su cui puntare tutto. Ash, però, aveva ragione.

«Sì, penso proprio di sì. Quantomeno ci sarà una collaborazione.»

«E con Ryan che facciamo? Io credo che ci siano tutti i presupposti per l’arresto. Ormai ci siamo esposti tanto e credo che il pericolo di fuga per lui sia aumentato.»

Annuii. Ashton aveva ragione; ormai non era più tempo di tergiversare con Ryan. Era molto probabile che l’incontro tra Michael e William avesse portato a un passaggio di informazioni, verosimilmente arrivate fino alle orecchie di Ryan e il famoso Waitch. Se c’era un momento per procedere all’arresto, era senz’altro quello.

«Va bene, coordiniamoci con Church. Anche io sono del parere che l’arresto sia la cosa più sensata da fare, in questo momento.»

Lui abbandonò la scrivania, sulla quale era seduto, e si diresse verso di me, con un sorriso che non mi piaceva per niente. Infatti mi si fermò davanti, visibilmente scocciato, le mani in tasca e lo sguardo accigliato.

«Pensi che almeno stavolta potrò parlare?»

Sospirai.

«Ti chiedo scusa. È solo che--»

«Lascia perdere. Tanto sei tu che comandi, no?»

E se ne andò indietreggiando, ma sempre con le mani in tasca, come a voler impedire qualsiasi contatto con il mondo esterno. Dopo qualche passo scosse il capo e si voltò, e sfilò la mano destra solo per tirare giù la maniglia della porta.

Io ebbi tempo di rimanere solo coi miei pensieri. Ormai era chiaro che, come aveva detto Ash, il centro di quel caso si era spostato dalla rapina alla droga. Era stato un regolamento di conti andato male, a opera del gruppo capitanato da Waitch, che sembrava avere Ryan come fidato collaboratore. Non sapevamo ancora chi fosse il secondo rapinatore, ma ero quasi certo che se fossimo riusciti a catturare tutto il gruppo avremmo preso pure lui.

Ma il mio vero cruccio era un altro. Il mio cruccio era Nathan e io lo sapevo bene. Se da una parte ero emozionato per l’incontro dell’indomani, dall’altro ero terrorizzato all’idea di proseguire quelle indagini. Più andavo avanti, e più avevo la sensazione di essermi fidato delle persone sbagliate, ma forse quello che provavo mi impediva di essere obiettivo sulla vicenda. E, arrivati a quel punto, sapevo benissimo che non mi sarei potuto comportare in modo naturale al nostro appuntamento. In ogni sua risposta ci sarebbe stato sempre un pizzico di diffidenza da parte mia, quell’eterno dubbio sulla sua sincerità.

Ma nessuno mi faceva stare bene come lui. Ero tornato a voler bene alla vita da quando lo avevo incontrato, e non riuscivo a immaginare un mondo privo della sua presenza.

Però non ero sicuro della sua estraneità ai fatti.

“Però”, c’era sempre un “però”.

 

 

 

Angolo autrice

Salve a tutti! Un capitolo molto investigativo che finalmente comincia a mettere qualche punto fermo nelle indagini. Anche se Nathan si è lasciato scappare qualcosa di troppo… Lo avevate notato nel capitolo precedente?

Ash ovviamente non perde tempo e vuole usare il rapporto tra Nathan e il suo collega per ottenere più info sulla rapina.

Nel prossimo capitolo vedremo quindi questo fantomatico incontro tra i due protagonisti… Sarà un incontro teso o cordiale? Ci sarà qualche rivelazione o colpo di scena? Chissà, chissà :P

 

Ringrazio dal profondo del cuore Alexandra V e AlbAM per la costanza nella lettura e le recensioni lasciate, mi rendete sempre felicissima ç__ç E ovviamente ringrazio tantissimo anche voi lettori silenziosi che seguite questa storia <3

 

Vorrei potervi dire che la scrittura sta andando a gonfie vele e che ho messo la parola “Fine” a questa storia, ma mentirei… Quindi vi dico che mi sono data fino al 10 febbraio per scrivere il capitolo 31. È già tutto nella mia testa, deve solo uscire!

 

A giovedì prossimo,

holls

   
 
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