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Autore: Ikki_the_crow    22/02/2022    1 recensioni
Nel folto dei boschi di Neverwinter, una carovana mercantile trova un uomo svenuto. Non ricorda nulla, non sa nemmeno come si chiama. L'unica cosa che ricorda è un nome. Elisa.
Quanto in là siete disposti a spingervi per la persona che amate?
[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel" di NPC_stories e Dira_]
Genere: Drammatico, Fantasy, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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Capitolo 2
 
21-12-1370
Come consigliato dal dottor Glanderl Valzak, ho acquistato un diario per annotare i miei pensieri. Il dottore pensa che possa aiutarmi a recuperare prima i miei ricordi. Io ho i miei dubbi, ma tanto vale provare.
Iniziamo da quello che so: mi chiamo Christopher Blackwood, e un tempo ero un dottore a mia volta. Abitavo in un piccolo villaggio, di cui al momento non ricordo ancora il nome, in compagnia di mia moglie. Elisa Maria Röckel-Blackwood.
Ricordo perfettamente Elisa. Il suo viso, la sua voce, le sue mani. Quello che amava, quello che detestava. Solo una cosa non ricordo. So che Elisa è morta. Ma non ricordo perché. Ci sono parti della mia vita che mancano completamente dalla mia memoria, enormi parti.
Ogni giorno ricordo qualche dettaglio in più. Ma non è abbastanza.
C’è qualcosa che devo fare, ma non ricordo cosa. So solo che è urgente, e qui sto perdendo tempo. Sono quasi sicuro che c’entri con Elisa.
È passata quasi una settimana da quando il dottor Valzak e il resto della compagnia mi ha trovato. Faccio progressi, ma è dolorosamente lento. Ho bisogno di accelerare i tempi.
Per fortuna, la carovana mercantile è arrivata a Luskan. Ho vaghi ricordi di una città portuale con un nome simile, anche se sono sicuro di non esserci mai stato. Devo averne sentito parlare, ma ero stranamente convinto che fosse un insediamento molto più piccolo.
Meglio che mi sia sbagliato. È tempo di fare qualche ricerca.
 
Seduto sui gradini di un carro, il dottor Blackwood soffiò delicatamente sulle pagine del diario per asciugare l’inchiostro prima di chiuderlo. Era un semplice libricino dalla copertina di cuoio marrone e sottile, niente di particolare. Ma aveva tante pagine bianche, e questo era l’importante. Ed era costato poco. Per una persona che non aveva nulla, questo aspetto era fondamentale.
Il dottore si guardò intorno alla luce del falò da campo e si alzò lentamente in piedi. Gettò le braccia sopra la testa e si stiracchiò, il corpo sottile inarcato all’indietro. Era giunto il momento di andare a riposare. La sua ultima notte in carovana.
Il giorno successivo a quello in cui era stato ritrovato dalla carovana, il dottor Valzak si era presentato con alcuni vestiti per lui. Una camicia bianca molto semplice, pantaloni di cuoio, stivaletti da viaggio.
“Non possiamo mica farla andare in giro nudo,” aveva detto con un mezzo sorriso. “Spaventerebbe un po’ tutti.”
Christopher aveva sorriso a sua volta e aveva accettato l’offerta.
Solo in seguito aveva scoperto che si trattava di un prestito. La carovana era composta da mercanti di ogni tipo, e il nano aveva domandato in giro se qualcuno avesse vestiti a poco prezzo di cui potesse fare a meno per qualche tempo. Il suo magro bottino aveva un valore di qualche moneta d’argento, ma si era impegnato a risarcire tutti fino all’ultimo pezzo di rame. E Christopher si era impegnato a risarcire lui.
Non voglio debiti con nessuno.
Per una settimana, nonostante le proteste del nano, Christopher si era impegnato a guadagnarsi il proprio posto nella carovana. Aveva svolto ogni mansione, dalla vedetta all’aiuto cuoco, dall’infermiere al contabile, dal conduttore allo stalliere. Anche se, per qualche motivo, i cavalli sembravano averlo preso in antipatia istintiva. Non appena si avvicinava, diventavano subito nervosi e irritabili, anche quando lui portava loro acqua e biada fresca. Probabilmente sentivano in lui qualcosa che li disturbava.
Una volta arrivati alle porte di Luskan, il capocarovana lo aveva chiamato per dargli la sua parte di stipendio, assieme ai mercenari che avevano scortato i mercanti per tutto il viaggio. Detratto il costo delle cibarie e dell’alloggio non era rimasto molto, ma era stato sufficiente per Christopher per ripagare i vestiti che aveva indosso, e gli era rimasto perfino qualcosa in tasca. Quando aveva provato a pagare il dottor Valzak, però, questo si era rifiutato di accettare un solo pezzo di rame.
“Non sono diventato un medico per denaro, dottor Blackwood. Proprio come lei, del resto.”
“Come può dirlo?” aveva ribattuto lui, sorpreso.
“Quando vivi a lungo come me, impari a riconoscere le persone. Lei non cerca il denaro o il potere, dottor Blackwood. Lei è una brava persona.”
Christopher era sicuro che il nano si sbagliasse, almeno in parte, ma non aveva fatto commenti. Non sapeva ancora bene chi fosse, ma di una cosa era sicuro.
Non era una brava persona. La rabbia che si sentiva dentro era troppo forte, troppo dirompente, perché lo fosse.
 
L’uomo era sdraiato su un tavolo, mani e piedi legati con delle cinghie e uno straccio ficcato in bocca perché non si mordesse la lingua. Era nudo, e con abbastanza sedativi in corpo da stordire un cavallo. Era un mercenario, un vagabondo e un mezzo ubriacone.
Nessuno di cui il mondo avrebbe sentito la mancanza.
La prima incisione, subito sotto la gabbia toracica, lo svegliò. Rivolse gli occhi annebbiati dai sedativi verso l’alto e bofonchiò qualcosa, la voce ovattata dal panno. Lui lo ignorò.
Quando infilò la mano nell’incisione per tastargli il fegato, quello gridò più forte e tentò di divincolarsi. Inutile: tra le corde e i narcotici, non ce l’avrebbe mai fatta. E tra poco la perdita di sangue avrebbe fatto il resto.
Il fegato era ingrossato, ma al tatto sembrava sano. Il che era bizzarro: con una vita come quella del mercenario, ci si sarebbe aspettati quanto minimo un po’ di cirrosi. Meglio controllare con più accortezza.
Il secondo taglio gli permise di osservare con più attenzione la cistifellea. Ah, ecco qualcosa di interessante: all’interno si potevano intravedere almeno tre corpi estranei, uno dei quali grande come una monetina. Una rapida incisione, e si ritrovò tra le dita quello che sembrava un ciottolo lucido e levigato, di un affascinante colorito verdastro. Lo osservò più da vicino: il motivo per cui quei sassolini si formavano era un mistero. Secondo alcuni era la dieta, secondo altri l’eccesso di alcol. A volte potevano restare nascosti per anni prima di dare qualche sintomo. Un vero enigma.
Ignorando i gemiti dell’uomo, si accinse a passare al punto successivo del suo esame. Il mercenario era alto quasi due metri, il che poneva interessanti quesiti su come le vene delle sue gambe gestissero il flusso di sangue di ritorno dagli arti verso il cuore. Ora che aveva creato un vuoto di volume nell’addome, era il momento di studiare i movimenti del sangue negli arti inferiori. Avvicinò la lama alla pelle del polpaccio, tastò un pochino per accertarsi di non recidere per errore la vena femorale, poi premette più a fondo. Con un po’ di attenzione, sarebbe riuscito ad estrarla tutta intera.
 
La mattina seguente, la carovana si disperse per i moli e le varie piazze del mercato di Luskan. Il dottor Blackwood si incamminò lungo le strade della città, guardandosi intorno con aria curiosa. A parte il suo diario, pochi spiccioli nella scarsella e i vestiti che aveva indosso, non possedeva un bel nulla. Quindi non doveva avere timore di essere borseggiato.
Gli ci volle all’incirca mezz’ora prima di accorgersi che le persone che incrociava lo guardavano in modo strano. Avrebbe potuto essere il suo incedere dinoccolato, i capelli scompigliati, gli occhiali rovinati o il modo con cui sembrava guardare ogni cosa come se si chiedesse come fosse fatta all’interno, ma Christopher era quasi certo che fosse colpa delle sue cicatrici. Nonostante i vestiti coprissero quasi del tutto il suo corpo, i segni intorno ai polsi e alle mani erano ancora più che evidenti. Sembrava che qualcuno si fosse divertito a staccargli e poi riattaccargli tutte le dita, come se fosse stato un pupazzo di panno.
Christopher sospirò. Altro denaro perso. Altro tempo. Ma non poteva essere evitato.
Pochi minuti e una lunga contrattazione con un mercante di vestiti più tardi, il dottore aveva aggiunto un paio di guanti di tessuto scuro, un panciotto pieno di tasche in cui infilare le proprie poche cose e un lungo mantello nero con cappuccio al suo guardaroba. Il mercante aveva perfino aggiunto un farfallino sottile, come omaggio. Christopher se l’era allacciato senza neppure guardarsi allo specchio, usando solo le dita come riferimento. Era un buon allenamento per la coordinazione tattile.
 Una volta sistemato quel piccolo problema, il dottor Blackwood decise che era giunto il momento di mettersi al lavoro. Aveva fatto abbastanza il turista.
La prima delusione della giornata arrivò quando chiese di essere ammesso ad una delle molte biblioteche della Torre dell’Arcano, quella contenente le cronache della contea.
“Mi dispiace, ma se non ha una tessera devo chiederle di pagare l’ingresso,” aveva detto il bibliotecario, con buona pace della libera conoscenza. Christopher non aveva abbastanza denaro per pagare – non aveva abbastanza denaro nemmeno per mangiare, in realtà – quindi fece l’unica cosa possibile.
Iniziò a cercarsi un lavoro.
 Dopo aver riflettuto per qualche minuto tra sé, seduto sui gradini al di fuori dell’alta torre che ricordava un albero, fermò un passante che aveva l’aria di essere del luogo.
“Mi perdoni, buon uomo,” disse. “Saprebbe indicarmi il sanatorio locale?”
Quello lo guardò stupito. “Se cerca l’ospedale, c’è una clinica vicino alla sede della Compagnia Commerciale Drago Rosso. I loro mercenari hanno spesso bisogno di cure.”
Dopo essersi fatto spiegare come raggiungerla, il dottor Blackwood si incamminò quindi verso la parte settentrionale della città. Trovare la clinica non fu difficile: i luoghi dove si concentrano i malati hanno una sorta di aura ben distinta. Le persone li evitano istintivamente, come se avessero paura di potersi prendere qualcosa solo passandovi di fronte, ma al tempo stesso vogliono abitarvi vicino, in caso di necessità. Solo non troppo vicino.
All’ingresso, Christopher fu apostrofato da una halfling di mezza età che indossava dei paramenti da guaritrice e brandiva una cartellina di legno con sopra un foglio di pergamena. Nonostante gli arrivasse a malapena allo sterno, gli si parò di fronte con l’autorità di chi è consapevole di avere potere assoluto nel luogo dove si trova.
“Nome e motivo della visita?” domandò sbrigativa.
“Christopher Blackwood. Io... sono un dottore. Appena arrivato in città. Cercavo lavoro.”
La donna lo squadrò dal basso in alto con aria critica.
“Dove ha studiato?”
“Io... Ah, ero un dottore di campagna. Ho studiato da autodidatta.” Non era sicuro che fosse la verità, ma suonava corretto. Probabilmente lo era.
Lo sguardo dell’halfling si fece critico.
“Da dove viene?”
“Whitechurch.”
La parola gli uscì dalle labbra prima ancora che lui se ne rendesse conto. Dovette fare un’espressione sorpresa, perché la halfling lo fissò in modo strano prima di continuare.
“Mai sentito. È uno di quei paeselli sulle colline intorno al Dessarin?”
“Esattamente,” inventò Christopher.
Lei gli rivolse un altro sguardo dubbioso.
“Qual è la sua specializzazione?” chiese poi. Quando l’altro la fissò perplesso senza rispondere, sbuffò spazientita.
“Farmacia, chirurgia, medicina generale, cosa?”
“Io... Ho sempre fatto un po’ di tutto.” Alcune immagini riaffiorarono alla mente del dottore. “Curavo le febbri infettive di inverno e suturavo i tagli che i mezzadri si facevano con le falci d’estate. Ho avuto casi di ipotermia da gente caduta nel fiume ghiacciato, e ubriachi mezzi soffocati nel loro stesso vomito. E poi –”
Si interruppe con un gemito, portandosi la mano alla testa.
 
“Tieni, amore. Non ti stancare troppo.”
Seduta nel letto, la schiena appoggiata contro il muro, Elisa stava sorridendo. Un sorriso stanco, ma sempre il più bello del mondo.
“Grazie, caro.” Con una mano pallida, raccolse una manciata di pillole e compresse da una coppetta e le inghiottì senza acqua, con una sicurezza dettata dalla lunga pratica.
“Oggi i dolori sono peggio del solito,” disse poi con tono quasi di scuse.
Lui si sedette sul bordo del letto e le prese una mano tra le sue. Dalle persiane chiuse della finestra entravano lame di luce dorata, che andavano a posarsi sul copriletto ricamato.
“Non scusarti. Non è colpa tua.” Poi: “Vuoi che vada a prenderti qualcosa da mangiare? Magari una focaccia al forno?”
“Se hai tempo. Non dovevi lavorare?”
Lui scosse la testa. “Può aspettare. Tu sei più importante.”
 
“Dottor Blackwood?”
La voce della halfling lo riscosse improvvisamente.
“Si sente bene?” domandò lei, sempre con quel tono inquisitorio.
“Sì. Mi scusi. Da qualche tempo soffro di cefalee.” Christopher scosse la testa come per schiarirsi le idee. “Cosa stavo dicendo?”
“Stava elencando casi che aveva affrontato.” La guaritrice sembrava annoiata.
“Ah, giusto. Sono anche esperto di... cure a lungo termine per malati cronici.”
Qualcosa nel tono di voce del dottore spinse l’altra a non chiedere oltre. Gettò uno sguardo oltre le proprie spalle, verso l’interno della struttura.
“Vediamo. Posso farla parlare con il dottor Wollstonecraft. Oggi è di turno lui. Le farà qualche domanda, magari la metterà alla prova. Venga con me.”
Si incamminò per le corsie, facendogli cenno di seguirla. L’odore di disinfettante riempì subito l’aria, riportando a galla altri ricordi e frammenti di essi.
Nella maggior parte di essi era mischiato con l’odore del sangue.
 
22-12-1370
Elisa era malata. Come ho potuto dimenticarlo? Era sempre stata malata. I primi sintomi si sono presentati quando aveva circa undici anni. All’epoca eravamo già amici. Lo siamo sempre stati, fin da quando eravamo molto piccoli. L’unica differenza era che io non ero ancora innamorato di lei. O forse lo sono sempre stato e non lo sapevo ancora.
All’inizio erano cose di poco conto. Giramenti di testa, nausee, cefalee. Poi è iniziato il vomito. Gli spasmi muscolari. I dolori, talmente forti da non farla dormire la notte.
Come ho potuto dimenticare? Lei è stato il motivo per cui ho iniziato a studiare medicina, tampinando quel vecchio rimbambito che faceva il cavadenti finché non mi ha permesso di leggere alcuni dei suoi libri. Non erano granché, ma sono stati un inizio. Poi, tutto quello che ho trovato sulle bancherelle al mercato o dai carovanieri che passavano in città. Perfino qualche rudimento di magia arcana, poca roba. Il dottor Wollstonecraft ha detto che ho l’aura di un mago novizio – anche lui è un incantatore, ma non saprei di che genere. Interessante, ma poco utile al momento. Non ricordo un singolo incantesimo ancora.
Elisa era malata. E ogni anno che passava peggiorava. Nonostante le mie cure, nonostante le cure di tutti i medici che sono riuscito a trovare. Peggiorava sempre.
I ricordi sono ancora confusi, la testa mi fa male. Devo stendermi.
 
Christopher Blackwood lasciò il proprio diario sul tavolino e raggiunse la branda. Non si preoccupò di spegnere la luce, perché l’intera stanza era nel buio più completo. E nonostante questo, lui ci vedeva perfettamente. Un altro mistero.
Non sapeva che ore fossero, ma probabilmente era tardi. Gli avevano permesso di stare in una delle camere destinate ai medici di turno la notte, per il momento. In futuro si sarebbe cercato una camera in una locanda, aveva assicurato. Quando fosse stato sicuro di potersela permettere. Ma la verità era che non era del tutto sicuro di volersene andare.
Non molto presto, quanto meno.
Il dottor Wollstonecraft, un omaccione che sembrava più un macellaio che un vero medico, era stato estremamente sbrigativo. Gli aveva fatto alcune domande molto pratiche per assicurarsi che non fosse un completo millantatore, poi lo aveva scortato verso il letto di un paziente, chiedendogli cosa ne pensasse. Era un ragazzo di circa quindici anni, con una febbre molto alta che non accennava a scendere e continui conati di vomito misto a sangue. Christopher lo aveva osservato con attenzione, aveva poggiato l’orecchio sulla sua schiena per sentirne il respiro e poi aveva iniziato a palpargli l’addome. Quando aveva premuto lo stomaco, il ragazzo aveva fatto un salto sul letto e aveva cacciato un urlo.
“Quest’uomo ha lo stomaco perforato,” aveva detto Christopher risollevandosi. “Non so se per via della dieta, o se abbia inghiottito un corpo estraneo. Comunque, le pareti del suo stomaco si sono rotte, e gli acidi hanno iniziato a creare lesioni. Da cui il dolore e il sangue. La febbre è probabilmente dovuta ad un’infezione sistemica.”
Si era quindi rivolto alla halfling, in piedi dietro di loro. “Consiglierei qualcosa per abbassare la febbre e combattere le infezioni, sia in loco che sistemiche. Corteccia di salice fatta a pezzi e disciolta in acqua calda, per esempio. Mischiata a qualcosa che abbassi l’acidità dello stomaco, come per esempio del bicarbonato. Non potrà mangiare per qualche giorno, quindi aggiungete abbondante miele alle miscele. Se lo stomaco non guarisce da solo entro una settimana, bisognerà operarlo. Mettere una pezza ricavata dallo stomaco di un maiale. Verrà digerita, ovviamente, ma si spera abbastanza lentamente da dare il tempo alle pareti al di sotto di guarire.”
La guaritrice lo aveva osservato, senza dare cenno di voler prendere appunti. Poi aveva rivolto uno sguardo al dottor Wollstonecraft.
“È praticamente quello che ho detto io. Anche se non avrei utilizzato il miele: costa, da queste parti lo zucchero di barbabietola è più economico.” L’omaccione aveva riso. “Ci sai fare, ragazzo!”
Christopher quasi non lo aveva sentito. Il suo sguardo era stato attirato da un altro letto, occupato da quello che era con tutta probabilità un mercenario. L’uomo, di circa quarant’anni, era stato colpito al petto da qualcosa di pesante, forse una mazza o un martello da guerra. Gli aveva frantumato le costole, e una doveva aver perforato un polmone. In quel momento respirava a malapena e con un suono sibilante che gli sfuggiva dalle labbra. Dall’ematoma che aveva sul fianco gli spuntava una cannula di legno, che serviva a permettere al polmone collassato di gonfiarsi. Andava operato, o non sarebbe sopravvissuto. E anche così le probabilità che ne uscisse sulle sue gambe erano piuttosto scarse.
“Stavo giusto per portarlo di là,” aveva detto il dottor Wollstonecraft. “Ma questo giro tu stai in panchina, novellino. Non bruciamo i tempi.”
L’uomo non era sopravvissuto, come temeva Christopher, ma non era stato questo che gli aveva dato da pensare. Ciò che lo lasciava perplesso era la fascinazione che sentiva di aver provato per quell’uomo, e in particolare per il suo corpo malridotto. Il desiderio di vedere con i propri occhi il polmone collassato, di studiare il movimento del diaframma, di osservare il liquido che dalla sacca intorno gocciolava fuori...
Questa non era semplice fascinazione dettata dalla passione per la medicina. C’era qualcosa di più, uno stimolo profondo che Christopher Blackwood non riusciva a spiegarsi.
Ancora.
Di una sola cosa era sicuro. C’entrava Elisa. Sua moglie.
Sdraiato al buio, Christopher tentò di rimettere ordine nei propri ricordi, inutilmente. Era come cercare di acchiappare un’anguilla viva: più stringeva la presa e più quella gli scivolava tra le dita. Doveva avere pazienza, lasciare che si cullasse in un falso senso di sicurezza. E poi acchiapparla con decisione.
Senza accorgersene, l’uomo scivolò nel sonno ed iniziò quasi immediatamente a gemere. Sembravano mormorii di dolore, intervallati dal nome della moglie. E da una frase, che gli usciva dalle labbra di tanto in tanto.
“Lo faccio per lei."


[Serie collegata alla storia "RS-F-1073-11-11-902" e alla serie "Lathander take the wheel di NPC_stories e di Dira_]
   
 
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