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Autore: muffin12    02/03/2022    2 recensioni
C'era una volta, nemmeno troppo tempo fa, un idiota in negazione.
C'era una volta, su per giù nello stesso periodo, un altro idiota che non capiva come muoversi.
C'era una volta, quindi, una coppia di idioti che tentava e non riusciva.
Ce l'avrebbero fatta, prima o poi, con i loro modi e con i loro tempi. Tranquillamente. Passo dopo passo.
Se solo non fosse stato per quei maledetti film Disney ...
Fic SakuAtsu natalizia che, al solito, di natalizio ha veramente poco.
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10 – And they lived imperfectly forever
 
 
~*~
 
 
Era ancora nel sogno.
 
Sapeva di esserlo, perché casa sua non era un palazzo. Né un castello. Nemmeno una grotta ad essere sinceri, nonostante l’errata e completamente priva di senno convinzione di Osamu di riuscire a trovare nuove specie di funghi nel cassetto del suo armadio. Come se poi potesse parlare, lui con le sue piante aromatiche che avevano preso possesso di quello sputo di balcone che si ritrovava.
 
Atsumu aveva un bilocale, a voler essere generosi: un soggiorno coraggioso, una camera da letto con le finestre sempre aperte e una macchia marrone sbiadita sul muro della cucina, perché Osamu si era sporcato le mani di salsa di soia e si era poggiato all’intonaco bianco con una pesantezza che nemmeno gli orsi che si grattavano la schiena contro la corteccia degli alberi. Senza contare le macchie d’umidità sopra la doccia, ma quello era perché si scordava sempre di far arieggiare dopo essersi lavato.
 
Di conseguenza, era logico pensare fosse ancora nel sogno. Lo sperava, almeno.
 
C’era marmo bianco e liscio ovunque riuscisse a poggiare gli occhi: dalle pareti alte, altissime, alle colonne colossali, che partivano da terra e scattavano come querce secolari coperte di rivestimenti bilionari. Il pavimento, inoltre, era così chiaro da fargli male gli occhi, leggermente venato in un intricato disegno dorato con fili attorcigliati e delicati. I corridoi erano ampi, guardie dalle divise precise armate di sciabole francamente inquietanti in ogni angolo e aperture che davano su un paesaggio d’incanto.
 
Notti arabe tinte di viola e nero, stelle luminose e giardini proibiti.
 
No, pensò, non era casa sua quella. Nel modo più assoluto.
 
Il suo appartamento affacciava sul parco pubblico, bello e rigoglioso ma ben lontano dalla meraviglia che riusciva a scorgere in quel momento senza nemmeno muoversi da dove aveva preso coscienza, che si stendeva per chilometri fino ad un muro alto e delimitante a schermare l’interno dalla città esterna. O, forse, il contrario.
 
Arricciò il naso, accorgendosi improvvisamente di due pesi ben diversi sul capo e sulla spalla sinistra, la mano stretta attorno ad un bastone con la testa di cobra con occhi di rubino e un mantello a decorargli la schiena, scomodo e pacchiano.
 
“Perfetto.” Bofonchiò deluso, girando il bastone per trovarsi faccia a faccia con il serpente. “Stavolta sono il cattivo.”
 
“Idiota.” Gracchiò la voce di Osamu sulla sua spalla, un fruscio di ali arruffate e lo schiocco secco di un becco pericoloso. Atsumu si girò con il viso e se ne pentì all’istante, trovandosi faccia a faccia con un pappagallo dalle piume rosse e lo sguardo anche troppo consapevole.
 
“Giusto il pennuto potevi essere.” Ridacchiò però sotto lo sguardo acuto del volatile, sperando non gli mordesse il naso. “Lo vuoi un biscottino?”
 
Osamu, per tutta risposta, lo beccò forte in fronte. “Stronzo!” Lo insultò ruotando la spalla per cercare di farlo cadere, strofinandosi la pelle arrossata con le lacrime agli occhi. “Mi hai fatto male, bastardo!”
 
“Smettila di dire stronzate.” Rispose Osamu svolacchiando fin sopra la testa del bastone. Si pulì il fianco con tutta la tranquillità del mondo mentre Atsumu continuava a contorcersi dal dolore acuto. “Non ti è servito a niente l’ultimo sogno?”
 
“Cosa ne puoi sapere, non c’eri.” Bofonchiò guardandosi le dita per cercare tracce di sangue. Il mantello che indossava si impigliò con il gomito e, appena se ne accorse, sospirò, cercando di liberarlo. “Dio, come sono vestito?”
 
“Sarei più preoccupato di quello che ti dice il cervello.” Osamu era odioso anche come uccello, si rese conto per niente sorpreso. Umano, topo, specchio, era da incastrare in qualche mobile e lasciarlo a marcire in ogni formato.
 
“Senti, non ho la pazienza per mandarti a cagare.” Finse di pensare a qualcosa. “Aspetta, ora che sei un uccello, puoi dirmi perché fate la cacca bianca sulle macchine nere e nera sulle macchine bianche?”
 
“È per cose del genere che non sarai mai il principe.”
 
Atsumu strinse i denti, colpito nel vivo. Samu sapeva sempre dove dirigere la coltellata, anche nei sogni. “Non ho bisogno di essere il principe.” Ringhiò, ma qualcosa sembrò non convincere suo fratello, che lo guardò con occhi stretti. Né sé stesso, ad essere completamente sinceri. “Dico davvero, non l’ha mai chiesto!”
 
“Lo so.” Borbottò Osamu, spiegò le ali e scattò in volo, atterrando sul turbante che gli pesava sulla testa. “Non te l’ha mai chiesto. Non significa che non lo voglia.”
 
Ed eccola, la voce della verità.
 
Era quello che non voleva accettare. Non chiederlo non significava nulla, in fin dei conti.
 
Osamu sospirò, come se fosse stufo. Lui. “Vuoi vederlo?” Domandò con sguardo troppo furbo.
 
“C’è anche lui?” Gli scappò prima che riuscisse a pensarlo, la voce agitata anche alle sue stesse orecchie. Era una domanda stupida, ovviamente ci sarebbe stato anche Sakusa. Lo aveva lasciato come Aladdin, se si trovava nel palazzo voleva dire che la trasformazione nel principe Alì era già avvenuta.
 
Sentì Osamu ridacchiare in modo malvagio e avvertì i brividi di terrore salire per tutta la spina dorsale. “Perché fai così?” Domandò cauto.
 
Per tutta risposta, Osamu si aggrappò al turbante e cominciò a volare, portandolo con sé in un tripudio di strisce di seta e piume ornamentali. Atsumu lo fissò senza muoversi, le palpebre calate sugli occhi e lo sguardo giudicante. “Non potevi chiedermi di seguirti?”
 
Per tutta risposta, Osamu entrò in una stanza con una risata malefica.
 
Atsumu non sentì nulla per qualche secondo, il tono gracchiante di pura cattiveria completamente andato. Sospirò, perché non avrebbe seguito un uccello per il palazzo come un dannato maniaco, quel cappello faceva pure schifo, non c’era ragione.
 
Ma all’improvviso dei ruggiti invasero il corridoio provenienti dalla camera in cui era entrato suo fratello, seguiti da un’imprecazione fantasiosa ed il suono di tessuto strappato.
 
Atsumu cominciò a sudare freddo.
 
“Samu?” Lo chiamò improvvisamente preoccupato, facendo un passo avanti con movimenti cauti, i sensi completamente all’erta. Non ricevette alcuna risposta, quindi continuò a camminare verso l’entrata della stanza con un’agitazione che gli stava paralizzando il cervello, il respiro trattenuto. “Samu? Sei vivo?”
 
“È vivo ed è scappato.” Rispose una voce che conosceva benissimo e Atsumu chiuse gli occhi, soffiando aria sollevato.
 
“Cavolo Omi, potevi dirlo che stavi qua.” Mormorò portandosi i capelli all’indietro, massaggiandosi la nuca con gesti stanchi. “Quel bastardo mi ha rubato il cappello e-”
 
Era la stanza della principessa.
 
C’erano i resti del suo turbante a terra, strappati e lasciati lì come monito.
 
E all’interno della camera, seduto sul bordo di un letto enorme con troppi cuscini e veli colorati, c’era Sakusa.
 
Ed era vestito … beh, vestito era una parola grossa.
 
L’addome era completamente scoperto, libero di essere guardato in tutti i suoi muscoli tonici e granitici. Se la parte superiore era destabilizzante, con quello scollo a cuore prettamente femminile, la cinta dei pantaloni invitavano a scendere in basso con lo sguardo, impedendo di staccare gli occhi da quella freccia naturale e lasciarlo a chiedersi cosa nascondesse sotto quegli strati di stoffa densa.
 
Non aveva più saliva.
 
“Che c’è?” Domandò Sakusa e dal tono scocciato sapeva perfettamente cosa non andasse.
 
Atsumu aprì la bocca, ma aveva la lingua troppo asciutta per poter essere pienamente funzionante. Ingoiò a secco un paio di volte, scostando lo sguardo e poggiandolo a destra. Su una fottuta tigre.
 
Quella lo guardò con suprema sufficienza, un brandello di stoffa che spuntava da sotto una di quelle enormi zampe. La salivazione si riattivò magicamente.
 
“C’è … c’è una tigre.” Informò, perché non era ancora convinto che non fosse un’allucinazione complicata. In un sogno poteva ancora avere delle allucinazioni? O era tutto una grandissima allucinazione che ormai gli aveva fottuto il cervello?
 
Sakusa lo fissò con un sopracciglio alzato, zeppo di giudizio. “Lo so.” Disse e Atsumu spostò gli occhi su di lui, allarmato.
 
“Scusa se lo chiedo, ma un gatto era troppo scontato per te?” Ne esistevano di enormi se era quello il problema, poteva sbizzarrirsi. “La prossima volta prenditi un alligatore.”
 
Sakusa sospirò con la forza di mille martiri. “Fa parte della storia.” Accavallò le gambe e, davvero, non doveva farlo se voleva perseverare la sanità mentale di Atsumu. Spazzolò i suoi pantaloni al livello del ginocchio per togliere polvere inesistente, come se non sapesse che Atsumu a breve sarebbe fuggito via urlando per evitare di mettersi in imbarazzo. “E poi a Motoya piace.”
 
Atsumu guardò di nuovo la tigre. Aveva due segni neri sopra entrambe le sopracciglia, tonde e indimenticabili e si diede dello stupido per non averle viste prima. Komori formato tigre arricciò la bocca per dare sfoggio di canini così grandi da sembrare le gambe di uno sgabello. “Ti costerà una fortuna di carne.” Mormorò e Komori si passò la lingua sui denti. “E di cacca.”
 
“Non pulisco mica io.” Ovviamente, aveva schiere di servitori per i bisogni di Komori. Atsumu si chiese oziosamente quanti ne avesse masticati durante l’attività, ma il luccichio negli occhi della tigre lo convinse a rimanere con il dubbio.
 
“Visto che abbiamo chiarito qualsiasi cosa ti passi per la testa in questo momento,” Non era esatto, Atsumu ancora si domandava perché Sakusa non si mettesse qualcosa di decente addosso, un sacco informe o un costume da Vabo-chan, qualunque cosa avesse potuto abbassare l’accenno di interesse che avvertiva nelle mutande, ma sentiva che il leggero rombo che veniva a tratti dalla gola di Komori potesse fare la magia, dopotutto. “spiegami qual è il problema.” Sakusa aggrottò le sopracciglia, contrariato. “È la seconda volta che te lo chiedo oggi, vorrei riposarmi ad un certo punto.”
 
Atsumu aggrottò le sopracciglia, stranito.
 
Erano parole strane, quelle.
 
Non doveva essere così, non era normale Sakusa schierato in prima linea a risolvere una situazione che non gli competeva. Non era mai successo.
 
Nella grotta c’era stata una situazione simile, ricordò improvvisamente. Sakusa lo aveva affrontato, cercando di capire perché si trovassero in una situazione del genere.
 
Quel Sakusa non era lo stesso delle altre volte, preso dalla storia e completamente assorbito dal personaggio.
 
Nel sogno precedente, Aladdin era stato decisamente scocciato di ritrovarsi in quel determinato contesto, il tappeto magico usato come uno classico per non sporcargli i piedi e domande così mirate da averlo fatto uscire di testa.
 
Vuoi spiegarmi perché siamo qui?
 
Era come se non lo avesse preventivato.
 
Ma perché avrebbe dovuto farlo?
 
“Allora? È mattina fra un po’, la tua sveglia di merda distruggerà tutto se non ti sbrighi.”
 
No, c’era decisamente qualcosa di strano in quel sogno. Atsumu sentì l’agitazione invaderlo all’improvviso, i sensi allertarsi, conscio di tutte le anormalità che stavano accadendo.
 
“Mi spieghi da quando sei così coinvolto?” Ringhiò facendo un passo avanti. Sakusa alzò le sopracciglia con aria annoiata e Komori si alzò in piedi, la coda che cominciava a muoversi a scatti con un chiaro segnale di avvertimento. “Eri una principessa del cazzo fino a un sogno fa, allucinata come ogni principessa del cazzo e stranamente omicida, com’è che adesso sei così consapevole della situazione?”
 
Vide Sakusa guardarlo, serio e concentrato, finché una scintilla di interesse non gli illuminò gli occhi. Scavallò le gambe e si alzò in piedi, ma Atsumu era troppo concentrato sul lento sorriso che gli tagliò la faccia per portare la sua attenzione su altro. “Seriamente?” Domandò sofficemente, accarezzando con il palmo l’enorme testa di Komori.
 
Era diverso.
 
Sicuro in un modo che non riconosceva, padrone di una situazione completamente assurda. Lo vide spostare gli occhi su Komori, la mano ancora affondata nella pelliccia, le dita a grattare piano una porzione dietro l’orecchio.
 
Il sorriso di Sakusa si allargò e Atsumu poté avvertire con chiarezza il sangue ghiacciarsi nelle vene. “Non ci sei ancora arrivato?”
 
Non era lui, capì velocemente e sentì il panico invadergli il petto, i polmoni collaborare a fatica.
 
Sakusa, il suo Sakusa, lo avrebbe chiamato idiota e gli avrebbe spiegato per filo e per segno dove stesse sbagliando, abbondando con i particolari per renderlo partecipe della propria stupidità in maniera precisa onde evitare dubbi superflui.
 
Quello, invece, era un predatore che giocava col cibo. Gli dava l’impressione di poter scappare, di avere il controllo, di averlo in pugno, per poi muovere due dita e riportarlo al punto di partenza, destabilizzandolo e togliendogli tutte le energie.
 
Quel sorriso enorme, largo, con un accenno di malignità lì tra le pieghe delle labbra, lo riconosceva perfettamente.
 
“Tu non sei Omi, vero?” Domandò, anche se sapeva già la risposta.
 
Quell’espressione, quel luccichio negli occhi, quella sfida costante, condita da un velo di sicura vittoria, non era di Sakusa.
 
Lo vedeva tutti i giorni, da quando era nato, ogni volta che scorgeva il proprio riflesso.
 
“No.” Rispose Sakusa e Atsumu vide i suoi lineamenti cambiare senza tuttavia farlo davvero. Riconobbe il suo viso quando finalmente disse. “Sono te, idiota.”
 
Santissimo cazzo.
 
Atsumu sentì il respiro farsi improvvisamente più rarefatto, come se i polmoni non riuscissero ad incamerare abbastanza ossigeno e avessero bisogno di lavorare, lavorare, lavorare, pur di afferrarne anche solo una briciola.
 
“Dio, ora non iperventilare.” Sbuffò Sakusa-non Sakusa e Atsumu lo mandò mentalmente a cagare mentre una scintilla di determinazione gli illuminò il cervello. Prese un lungo respiro, lento e profondo, fino a guardarlo con tutta la rabbia che aveva nel corpo e dire “Sai quanto sono stato fuori di testa per questa stronzata? Come fai a uscirtene così, stronzo?”
 
“Andiamo, dovevi capirlo prima.” Ridacchiò quella brutta copia del suo quasi ragazzo.
 
Era sé stesso.
 
Col senno di poi, pensò, non poteva essere altrimenti.
 
Non avrebbe potuto essere semplicemente la proiezione di Sakusa, qualcosa di normale in tutto quel caos di sogni Disney e storie campate in aria, no.
 
Era lui, era sempre stato lui, a sbattergli in faccia quello che il suo sé lucido non voleva nemmeno prendere in considerazione. A mettergli cose in testa, cose che guardava ma non vedeva, cose così ovvie che erano palesi a tutti tranne che a lui.
 
Santissimo cazzo.
 
“Potevi dirmelo prima!” Lo aggredì avanzando di qualche passo. Komori si spostò sinuosamente davanti a Sakusa, le enormi zampe che affondavano morbidamente nel tappeto folto e le unghie lunghe e affilate ben in vista. “Leva quella tigre del cazzo, è un sogno, non può farmi nulla.”
 
“Levala tu.” Rispose quello sorridendo. “Io sono te, ma tutto questo è roba tua. Fidati, non mi sarei mai sognato di vestire i panni delle principesse Disney. Ho standard.”
 
“Komori è un bastardo, perché dovrei volerlo come tigre?”
 
“Genio, è sempre un sogno. Cosa ha fatto quello reale per fartela vedere in questo modo?”
 
Cosa aveva fatto il Komori della realtà?
 
Semplice, lo aveva minacciato di fargli del male se solo avesse fatto qualcosa di sbagliato a suo cugino.
 
Occhieggiò la tigre, a protezione di quel Sakusa fasullo come un bodyguard terrificante.
 
“Ok, la tigre rimane.” Concesse Atsumu, perché Samu prima con quella beccata gli aveva fatto un male d’inferno e con la nuova prospettiva di poter essere sgranocchiato per colazione, la presenza di Komori non sembrava così importante dopotutto. “Dovresti però spiegarti meglio.”
 
“Direi di no.” Quel Sakusa si grattò la fronte, portandosi i capelli indietro con una gestualità che, adesso che sapeva, poteva riconoscere come la sua. “Spiegami tu perché sto ancora lavorando. Pensavo fossi a posto con l’ultimo sogno.”
 
“Pensavo anche io.” Rivelò Atsumu improvvisamente preoccupato. Cosa sarebbe potuto succedere se non avesse risolto nulla? Sarebbe rimasto intrappolato? Avrebbe continuato a fare sogni con basi Disney? Il prossimo quale sarebbe stato, Ralph Spaccatutto?
 
Ripensò a quello che aveva detto Osamu, ripensò alle parole che gli erano state riferite dall’impostore in persona e non riuscì a fermarsi dal chiedere. “Senti, hai cercato di tenermi buono con la storia del principe?”
 
Quello lo fissò per un lungo secondo. Era strano vedere Sakusa con le palpebre abbassate sugli occhi, pesanti e giudicanti. Di solito erano ben aperti in quelle situazioni, gli occhi lucidi e calcolatori. “Capisco.” Mormorò e sbuffò con aria disperata. “È quello, eh? Beh, non mi va di ricominciare.”
 
“Già, effettivamente è una rottura, vero?” Ghignò Atsumu, perché hey, era la versione originale, poteva fare lo stronzo tanto quanto lui. “Potremmo, che ne so, stare qua a guardarci nelle palle degli occhi fino a che non cadranno quelle a sud oppure potresti essere effettivamente utile, per una volta, e rispondere in modo diretto alla cazzo di domanda.” Komori produsse un brontolio d’avvertimento, ma Atsumu era stufo anche di lui. “Komo-chan, dovresti smetterla di rompere i coglioni se non vuoi diventare un Teletubbies, ok?”
 
“Guarda un po’ chi si è svegliato.” Ridacchiò il finto Sakusa accarezzando Komori per calmarlo. “Non è che non voglio collaborare, Dio solo sa se ho fatto gli straordinari per questo, ma penso sia ovvio, no?”
 
“Hai detto che Sakusa non ha mai chiesto che fossi un principe.” Chiarì immediatamente, prendendo al balzo quella concessione.
 
“È esatto. Voglio dire, non l’hai mai sentito chiederlo.”
 
Era vero. Per questo, forse, faceva più male il prossimo pensiero. “Non è detto, però, che non lo voglia, giusto?”
 
Quel Sakusa batté le palpebre un paio di volte. Poi rise, della sua risata aperta e maligna. “Hai ragione, non è detto che non lo voglia.”
 
“Quindi stiamo di nuovo da capo, deficiente!”
 
“Non è vero, idiota.” Lo vide avvicinarsi, lento e infido, superando Komori e standogli tanto vicino da poter sentire il profumo di frutta che accompagnava sempre il suo Sakusa, quello che era riuscito a baciare soltanto dodici ore prima. “Adesso puoi chiederglielo.” Gli schioccò le dita davanti il viso e poi tutto si fece nero.
 
 
*
 
 
Atsumu si ritrovò sotto casa di Sakusa quasi senza accorgersene.
 
Quando si era svegliato, pieno di una determinazione e di una sicurezza delle sue prossime azioni che non aveva mai avuto, si era messo le prime scarpe che aveva trovato, si era lavato denti e faccia velocemente e si era fiondato per strada con il cappotto ancora aperto sul pigiama e la sciarpa a mo’ di cappio, quasi strozzandolo.
 
Si era messo a correre come un invasato ringraziando Kita-san e suoi dèi per avergli fatto trovare sotto mano le sue scarpe da ginnastica piuttosto che le ciabatte di Spongebob (regalo discutibile di Suna) ed era arrivato al portone umido di sudore freddo, congelato a tratti per il vento gelido che stava tirando e con un polmone a metà strada tra gola ed esofago.
 
Citofonò cercando di riprendere fiato, tenendo il dito sul pulsante per molto più tempo del necessario, finché non sentì un “Chi è?” ringhiato che riattivò tutte le sue energie.
 
“Omi sono io.” Sfiatò velocemente, strofinandosi le mani e cercando di coprirsi meglio con la sciarpa. Sentì la sua stessa voce agitata e frettolosa, condita da un tremolio di fondo dovuto al freddo. Sperò non lo facesse preoccupare. “Puoi aprirmi?”
 
Seguì un lungo secondo di silenzio, poi il portone scattò e Atsumu corse direttamente su per le scale.
 
Quando arrivò davanti la porta, c’era Sakusa in piedi che lo aspettava.
 
Non era preoccupato, riuscì a vedere immediatamente.
 
Capelli scarmigliati, faccia accartocciata dal sonno, cipiglio nero e regalmente incazzato e maglietta e pantaloni talmente larghi e comodi che Atsumu ebbe l’istinto di abbracciarlo e non lasciarlo più andare. “Omi, sono -“
 
“Zitto.” Sibilò ordinando gli di entrare con un secco cenno del capo. No, decisamente la preoccupazione per il suo stato era l’ultimo pensiero in quel momento.
 
Atsumu chiuse la bocca di scatto e camminò dentro a testa bassa, un pochino terrorizzato. Appena sentì la porta chiudersi, ci riprovò. “Senti –“
 
“Qual è il tuo problema con le notti?” Domandò Sakusa velenoso. Ci sarebbero state due o tre battute a sfondo sessuale da piazzare per quell’assist non voluto, ma Atsumu scelse di non sfidare la sorte. “È una cosa tua rompere i coglioni ad ore indecenti? Dovrei armarmi di sedativi da spararti col fucile?”
 
“Si fa con gli orsi.” Pigolò Atsumu, perché l’ultima cosa a cui aveva pensato era di controllare l’orologio. Prese il cellulare e, merda, le 3.56. “Hai ragione, ma ho bisogno di farti una domanda.”
 
Vide Sakusa strizzare le palpebre così forte che forse sarebbero rimaste incastrate, sospirare con sofferenza e poi soffiare. “Vado a lavarmi i denti.”
 
“No, aspetta, non è un pro-”
 
Vado. A lavarmi. I denti.” E lo disse in modo così terrificante che Atsumu sigillò la bocca di scatto.
 
Non svegliarlo mai prima che suoni la sveglia.
 
Komori lo aveva avvertito e, a quanto pareva, aveva ragione su tutta la linea. Atsumu aveva seriamente paura in quel momento.
 
Pensò di preparargli qualcosa durante il suo tempo in bagno, magari un tè che lo calmasse, i biscotti buonissimi al burro che gli aveva fatto assaggiare la volta prima, tirare fuori gli umeboshi che sapeva si trovassero sotto il ripiano delle posate, ma poi ripensò di nuovo alle parole di Komori.
 
Non dargli da mangiare dopo mezzanotte.
 
Se aveva ragione con una cosa, quante probabilità c’erano che l’altra fosse una presa in giro?
 
Dio, c’erano altissime probabilità che stesse frequentando un Gremlin.
 
Sakusa ritornò ciabattando, grattandosi la pancia e sbadigliando. Gli scoccò uno sguardo omicida e virò verso la cucina, aprendo uno sportello per prendere qualcosa. Atsumu cominciò a sudare freddo.
 
“Aspetta!” Gridò raggiungendolo e afferrandolo per un braccio. Sakusa lo guardò stranito, non fece in tempo a dire nemmeno “Cosa?” che venne trascinato nel salotto e fatto sedere a forza sul divano.
 
“Resta qua!” Atsumu lo inondò dei suoi cuscini di bellezza per cercare di bloccarlo e Sakusa lo lasciò fare, chiudendo gli occhi ed invocando pazienza, troppo stanco per reagire a quell’assalto non preventivato. “Non hai bisogno di mangiare.”
 
“Volevo dell’acqua.” Sibilò prendendo un cuscino e scagliandoglielo contro. Lo beccò al braccio con la zip e gli fece un discreto male. Maledetta la sua precisione contro natura. “Cosa vuoi?”
 
“Parlarti.” Tentò di spiegare e dovette schivare un altro cuscino lanciato a velocità supersonica. “Fermati!”
 
“Sono le quattro fottute, non potevi aspettare?”
 
“Ho fatto un altro sogno.” Sakusa rimase bloccato con il braccio congelato a mezz’aria, l’espressione totalmente confusa. “Stavolta era diverso dal solito.”
 
“La Carica dei 101?” Borbottò abbassando l’arma, abbracciando il cuscino e mettendosi sul divano a gambe conserte. Con quella mise da senzatetto e i capelli sconvolti era decisamente da mangiare, constatò Atsumu anche troppo andato.
 
Ma ancora, dalmata? Seriamente? “No! Perché proprio quella?”
 
“Hai detto diverso dal solito, pensavo non fossimo umani.” Spiegò e, beh, era un ragionamento sensato.
 
Una storia d’amore iniziata in due e finita con una cloaca di cuccioli iperattivi. Poteva sembrare bello ai più, ma Atsumu non era sicurissimo che lui o Sakusa fossero tipi da figli. Forse più in là. Forse mai. Forse avrebbero adottato una tigre, dopotutto, sarebbe stato più facile.
 
Scosse la testa, perché quelli erano pensieri per un altro momento e un altro periodo. “No, era Aladdin.”
 
“Oh.” Mormorò Sakusa più calmo, rilassando le spalle. Lo vide poggiarsi allo schienale e girare la testa alla ricerca di qualcosa. La trovò nel plaid sistemato su un bracciolo e si sbrigò a coprirsi, rabbrividendo leggermente.
 
Atsumu sapeva perfettamente quanto Sakusa soffrisse il freddo e quasi si dispiacque per averlo tirato fuori dai cinque piumoni che sicuramente aveva sul letto. Quasi.
 
Perché c’era qualcosa di più importante da chiarire.
 
“Perché ti piaccio?” Domandò svelto e provò imbarazzo nel momento in cui l’ultima parola uscì dalla sua bocca. Sembrava una dodicenne, porca miseria, sarebbe stato preso in giro a vita.
 
Sakusa aggrottò le sopracciglia. “Che domanda è?”
 
“È legittima.” Si sbrigò a rispondere, cominciando a camminare avanti indietro. “Sulla carta non ho nulla per cui dovrei piacerti. Ti ho trattato di merda, ti ho accusato di cose e cercavo sempre un pretesto per darti il tormento, non ti davo mai pace. Sì, eri uno stronzo asociale più velenoso del Black Mamba, ma lo sei sempre stato e avresti dovuto piacermi così, non ti avrei dovuto volere diverso.”
 
“Non capisco, mi stai lasciando?” Chiese confuso, affondando le dita nel cuscino come se volesse strapparlo. Atsumu si sentì morire. “Non sapevo nemmeno avessimo ufficializzato.”
 
“NO! Cazzo, no!” Si portò le mani in fronte, affondando i palmi sugli occhi a cercare un senso di stabilità in quella situazione ubriaca. “Non voglio lasciarti, Dio, è più complicato di quello che credevo.”
 
Prese un respiro profondo. Poi un altro. Poi un altro, ancora più lento, fino a che sentì il petto formicolare. “Omi, mi piaci un casino, ma non sono un principe, capito?”
 
Sakusa batté le palpebre. “Ok?”
 
“Non hai capito, non posso essere un principe. Rido quando cadono i bambini, cavolo, i principi non lo fanno!”
 
“Perché dovrei volere un principe?”
 
“Perché ti meriti tutto!” Sbottò e sentì gli occhi bruciare, la vista cominciare a diventare leggermente sfocata. “Ti meriti ogni cosa e ti meriti qualcuno che ti tratti da re e che non sia me.”
 
Era fatta. L’aveva finalmente detto.
 
Poteva dire addio a tutte le sue fantasie, poteva tornare indietro nel tempo ed avvertire il suo sé diciassettenne di smetterla di tirare le trecce al ragazzo dall’aria omicida, non sarebbe mai stato perfetto per lui.
 
Ma non aveva fatto i conti con il suo ragazzo.
 
“Io voglio te proprio perché non sei un principe.” Sakusa scosse la testa, stropicciandosi gli occhi. “Ma li hai visti? Sono tutti senza cervello col sorriso da ebete, capaci solo a cantare e ad andarsene in giro per boschi, se ne salvano giusto un paio e non sono nemmeno effettivamente principi.”
 
“Cos-?”
 
“E poi, andiamo, dovrei farmi condizionare dai Disney? Sono le coppie più stupide del mondo dell’animazione cinematografica, si mettono insieme in due giorni scarsi per motivi fuori dal mondo, perché cazzo dovrei volere un principe?”
 
“Aspet-“
 
“Dio, i bambini che cadono divertono anche me, come i vecchietti che litigano e gli scherzi che facciamo di nascosto e per cui viene incolpato Bokuto o il gioco sul treno o la vendetta contro la ex di Meian, cosa cazzo stai dicendo?
 
L’aveva rotto.
 
Atsumu non era sicuro di aver sentito tutte quelle parole provenienti da quella bocca nella totalità della loro conoscenza e la cosa cominciava a preoccuparlo.
 
“Se vuoi proprio saperlo, il mio unico rimpianto del mondo Disney è non saper comunicare con gli animali.” Sbottò, lanciando il cuscino verso un lato del divano, scostando il plaid e liberando le gambe dalla loro posizione. “Amo pensare che i miei problemi con gli insetti finirebbero se riuscissi a parlarci e a spiegare che se loro tentano di entrare nella mia casa, allora io sarò costretto a dare fuoco a tutto.”
 
“Non funziona proprio così.” Tentò di balbettare Atsumu, spaventato. “Ci sono altri metodi, davvero.”
 
“Seriamente, a cosa stavi pensando?” Lo vide scuotere la testa, allibito. “Sono io che non mi sento all’altezza, ma ti sei visto? Sei pieno di amici, sei ricercato, sei bello, sei simpatico, sei la mia marca preferita di stronzo e hai dovuto avere degli incubi per poter pensare che forse, per non sognare più, dovevi darmi una possibilità.”
 
Era totalmente sbagliato e non ce la faceva più.
 
Si avvicinò svelto a lui, salì a cavalcioni sulle due gambe e, senza dargli modo di riprendere fiato, lo baciò con una forza tale da sentire i suoi canini spingere sulle labbra, prendendolo a bocca aperta nel pieno del suo sproloquio.
 
Non doveva pensare cose del genere.
 
Non dovevano pensare cose del genere.
 
Atsumu credeva fosse il solo, ma la verità era che erano due fottuti idioti che non riuscivano a vedere ad un palmo dal loro naso quando si trattava dell’altro.
 
Potevano essere sbagliati da soli, erano sicuramente sbagliati da soli, ma insieme cazzo erano perfetti. Era come ritrovarsi dopo un viaggio nel buio, come se avessero passato tutta la vita a tentare qualcosa che era riuscito solo dopo essersi riconosciuti, la classica ricerca della metà strappata da dèi invidiosi e malevoli.
 
Ed erano l’uno sotto il naso dell’altro, a punzecchiarsi e ad infastidirsi senza capire cosa fosse quel bisogno che li spingeva a cercare di attirare l’attenzione, in una maniera o nell’altra.
 
E tentò di dirlo, tentò di dirlo con parole che non sapeva usare, perché uscivano sempre sbagliate e sempre mirate a rovinare, mai ad aggiustare.
 
Quindo si staccò, teneramente ed in completo contrasto con l’inizio.
 
Le labbra erano morbide, non volevano staccarsi e Atsumu si ritrovò ad assaggiarle a lungo fino a portarsi indietro, ritrovandolo arrossato e ancora più confuso. Sorrise, perché avrebbe voluto baciarlo da quando lo aveva visto sull’uscio, accartocciato ed incazzato come una iena. “Non voglio più sentirti dire queste stronzate.” Mormorò e gli scoccò altri baci, perché se li meritava davvero. “I sogni mi hanno aperto gli occhi, non costretto a trovare un modo per bloccarli.”
 
“Lo dici o-”
 
“Ancora? Non hai capito che se devi darmi torto puoi anche stare zitto?”
 
Sakusa sbuffò, alzando gli occhi al cielo. “Stai scherzando, vero? Hai torto il 95% delle volte, dove cazzo andremmo a finire?” Atsumu scoppiò a ridere, riconoscendolo finalmente come lo stronzo flemmatico che era al naturale, senza tutto lo sconvolgimento emotivo.   
 
“Hai accettato di stare con me, sai già dove andremmo a finire.” Si leccò il labbro inferiore, allungando il sorriso in un sogghigno saputo. “Hai detto che sono bello.”
 
Sakusa sbuffò. “Ovviamente dovevi concentrarti su quello.”
 
“Ma lo hai detto!” Sakusa si lasciò sfuggire l’ombra di un sorriso, le labbra gonfie che tendevano leggermente in alto. “Sono così bello che non riesci a staccarmi gli occhi di dosso.”
 
“Vedi? Questo fa parte del 95% di prima.”
 
“Cosa farai se poi te ne penti?” Domandò Atsumu guardando oltre la sua testa ricciuta, fissando il frigorifero con una passione mai provata prima. Perché non poteva sostenere il peso di quegli occhi, così sinceri e crudi, non poteva. “Lo sai come sono, lo so come sono.”
 
“So come sei.” Accettò Sakusa mestamente. “Penso che anche tu sappia come sono, ormai. Se va bene a te, perché non deve andare bene a me?”
 
“Sì ma qua tu non c’entri un cazzo, non metterla tutta su di te!” Sakusa sbuffò scocciato e Atsumu intensificò lo sguardo, puntandolo sulla macchina del caffè lucida e invitante. “Sono io il problema, sono io che non ho visto niente fino a … fino a …”
 
“Gli incubi.” Il tono divertito di fondo lasciava spazio anche ad alcune insicurezze, ma Atsumu avrebbe avuto tutta la vita per fargli capire quanto si sbagliasse. “Andiamo da qualcuno veramente bravo, se questo ti preoccupa.”
 
Gli diede un cazzotto sulla spalla e lo fece ridere. “Stronzo.” Bofonchiò, ma ridacchiò anche lui. Spostò lo sguardo dalla cucina fin sul suo viso, per godere di quegli occhi scuri illuminarsi e della bocca gonfia chiedere di più. “Non ti meriti un cazzo.”
 
“Come se lo volessi.”
 
“Fottuto bugiardo, mi hai corteggiato per mesi con quei sorrisi, quegli appuntamenti -”
 
“Non erano appuntamenti.” Chiarì Sakusa. “Mi hai invitato tu. Hai invitato metà squadra in verità.”
 
“- le serate cinema -”
 
“Ancora, era team building.”
 
“- la dannatissima sciarpa verde -”
 
“Quella l’hai rubata e non l’hai più restituita. Ho visto che ce l’avevi addosso.”
 
“- il non cacciarmi di casa dopo essermi addormentato.” Gli puntò un dito contro il naso. “Ammettilo, era per farmi cadere ai tuoi piedi.”
 
“Comportarsi come un ospite educato e premuroso significa corteggiare qualcuno.” Lo disse con tono zeppo di giudizio e Atsumu scoprì i denti in un ghigno divertito. “È questo che insegnano nel Kansai?”
 
“Sì, in cambio ti danno una dote di venti mucche e la castità della sposa.” Replicò ridendo. “Ma che ne vuoi sapere tu, sei un ragazzo di città.”
 
“Non ti ho dato del campagnolo, ti ho dato del visionario.” Sakusa si morse il labbro inferiore, i denti bianchi che si aggrappavano alla pelle per soffocare un sorriso. “Sei davvero sicuro di me?”
 
Atsumu lo dimostrò prendendolo manciate della sua maglia e avvicinandosi a lui, puntando dritto su quella bocca rosa e screpolata e trovandola già aperta ad aspettarlo.
 
Doveva fargli capire che tutti quei pensieri doveva buttarli nel secchio, a fare compagnia ai suoi, che lo avevano infestato nei momenti belli per ricordargli cose che non esistevano.
 
Lui non era un principe.
 
Beh, non lo era nemmeno Sakusa. Non lo era nella maniera più assoluta, perché i principi non baciavano in quel modo, non prendevano la lingua per succhiarla, forte e indecente, non arricciavano la propria in un modo che gli faceva girare la testa, non producevano quei suoni, così morbidi e lascivi che sembravano avere il potere di attraversare tutto il suo sistema circolatorio come impulsi elettrici e concentrarsi in mezzo alle sue gambe.
 
I principi non facevano cose del genere.
 
“Se continui così ti porto a letto e ti faccio vedere quanto sono sicuro.” Gli ansimò sulle labbra, l’alito che lo colpiva e la bocca aperta per assaggiarlo, per prepararsi a un nuovo assalto. Gli arrivò un debole odore fruttato e dovette chiederlo. “Perché cazzo profumi sempre di frutta?”
 
Sakusa non se lo aspettava, decisamente. Portò lo sguardo dalle labbra ai suoi occhi, confuso. “Cosa?”
 
“Il tuo odore, mi fa impazzire.” Si abbassò di nuovo su di lui, andando avanti col bacino alla ricerca di un attrito più soddisfacente, salvo poi ricordarsi di essere in pigiama e che le situazioni divertenti dovevano aspettare.
 
“È il mio balsamo.” Mormorò scostandosi leggermente, inspirando forte dal naso. “Atsumu, voglio andare a letto.”
 
Beh, era comprensibile. Lo aveva svegliato ad un’ora infame, aveva chiarito, era il minimo liberarlo e lasciarlo andare a dormire.
 
“Oh, va bene Omi.” Gli diede un ultimo bacio e poi scese dalle sue gambe, il cappotto ancora addosso ma la sciarpa abbandonata da qualche parte. “Vado a casa, ci vediamo domani?”
 
Sakusa lo guardò come se fosse stupido. “Togliti quella roba e datti una sciacquata.” Gli ordinò alzandosi e avviandosi verso la sua camera. Atsumu lo vide sistemarsi i pantaloni e la maglia, lasciandola libera coprirlo sotto ogni aspetto. “Ti aspetto a letto.”
 
Atsumu lo avrebbe rovinato.
 
 
*
 
 
Le cose andarono bene.
 
Lui e Sakusa sembravano fatti apposta per rendere la vita dei più un inferno, frequentandosi senza rendere il loro rapporto di dominio pubblico e facendo uscire fuori di testa Inunaki, che aveva subodorato qualcosa con il suo istinto da lince e cercava solo un modo per prenderli con le mani nel sacco. Anche se, se solo si fosse impegnato un po’ di più, li avrebbe scovati con le mani da tutt’altra parte.
 
Non era il rapporto perfetto.
 
Si sfidavano, litigavano, a volte avrebbero avuto l’istinto di fracassare l’altro contro il muro, ma erano solo momenti, rari, sporadici e che collimavano spesso con un irritazione di fondo.
 
Passarono il 24 Dicembre insieme, mangiando pollo fritto e torta alle fragole con il DVD di Megamind in sottofondo.
 
Sakusa gli regalò il cofanetto di Shrek, prendendolo impunemente in giro, entrando diretto nelle grazie di Osamu per quel gesto di assoluta malignità e derisione mirata.
 
Atsumu gli fece trovare in una busta due biglietti per Tokyo DisneySea, insieme ad un vaso pieno zeppo di umeboshi fatti in casa prodotti dalle sagge mani di nonna Miya.
 
Le serate cinema vennero completamente ignorate, inventando scuse differenti per far impazzire Inunaki e ritrovandosi a casa dell’uno o dell’altro per la propria serata cinema personale, priva di visioni Disney e pepite di pollo.
 
Terminavano sempre in un modo, in mezzo a coperte sgualcite e le mani che vagavano, conoscendosi su più livelli e sperimentando cose che di fiabesco avevano ben poco.
 
Erano le notti più belle quelle, in cui si addormentavano l’uno tra le braccia dell’altro e si risvegliavano lontani, ma con le gambe ancora attorcigliate tra loro.
 
Atsumu non aveva più avuto sogni, lasciando il suo sonno tranquillo da ogni tipo di assalto Disney.
 
Non era il rapporto perfetto.
 
Non lo avrebbero mai voluto.
 
 
THE END
 
 
Non era esattamente vero, Atsumu sognò ancora.
 
Più volte.
 
Il rating, beh, non era tale da poter essere accettato nemmeno per i messaggi subliminali, figurarsi per le storie Disney.
 
 
THE REAL END
 
 
***
 
 
Salve a tutti!
 
Seriamente credevate che mi sarei dimenticata dei messaggi subliminali Disney? Non mi conoscete abbastanza, allora.
 
È finita gente!
 
Mi hanno fatto sudare le famose sette camicie, questi due idioti, ma sono contenta del risultato finale. Considerato che era partito tutto con una OS che non doveva avere né capo né coda, siamo finiti con una long che non ha né capo né coda, quindi ci sta.
 
Ringrazio tutti quelli che hanno avuto il coraggio di leggere (davvero, siete dei grandi), quelli che mi hanno dato una possibilità (anche voi, siete dei temerari), e le due persone che mi hanno sentito sclerare su questa storia da settembre 2021 e che mi hanno sostenuta (e sopportata principalmente) per ogni dubbio e ogni maledizione lanciata a questi idioti! Gabri, Deh, vi voglio troppo bene!!!
 
Grazie mille per aver letto!
 
Un bacione!!!
 
   
 
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