Crossover
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Autore: Registe    16/03/2022    4 recensioni
Quarta storia della serie "Il Ramingo e lo Stregone".
La guerra tra l'Impero Galattico e la famiglia demoniaca si è conclusa, ma non senza un costo. Vi è una cicatrice profonda che attraversa mondi e persone, le cambia, rimane indelebile a marchiare i frammenti di tutti coloro che hanno la fortuna di essere ancora vivi. Qualcuno decide che è il momento giusto per partire, cercare di recuperare qualcuno che si è perso. Qualcuno decide di dimenticare tutto e lasciarsi il passato alle spalle.
Qualcun altro decide invece di raccogliere i frammenti di una vita intera e metterli di nuovo insieme, forse nella speranza che lo specchio rifletta qualcosa di diverso.
Genere: Avventura, Drammatico, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Film, Libri, Videogiochi
Note: Cross-over | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Ramingo e lo Stregone'
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Capitolo 19 - Lezione sul campo







Il principe Xizor








Il referto medico indicava una lunga serie di valori fuori dal livello accettabile. Guardando quelle cifre evidenziate in rosso sul pad, a Zexion tornò per un istante in mente la voce di suo zio che brontolava qualcosa su quanto i medici con i pezzi di carta guardassero solo i numeri ma non la radice del problema.
Che poi in verità in quei numeri qualcosa di reale ci fosse davvero, il ragazzo non ne aveva dubbi, almeno a giudicare quanto ancora il braccio gli dolesse e la testa fosse sull’orlo di vorticare in modo forsennato. Lasciò che il droide medico gli iniettasse la terza dose di antidolorifici della serata e liberò l’aria stantia che ancora gli premeva nei polmoni dentro l’erogatore d’ossigeno che l’infermeria mineraria aveva piazzato al centro della stanza. Ormai erano trascorse più di quarantotto ore da quando si trovava nel sottosuolo di Onoam, ed il capogiro che continuava a crescere ad ogni passo non era più dovuto soltanto al dolore che la sua stessa magia gli infliggeva; sentì la presenza del droide venirgli alle spalle con il pad ancora luminoso, quasi a volerlo convincere a riprendere un altro ciclo di bacta, ma il ragazzo digitò il codice di dimissione lungo lo schermo e la figura alta e meccanica si mosse verso l’altro lato della stanza, dove un assaltatore giaceva con entrambe le gambe spezzate.
Alle truppe in missione il governatore Saruman aveva appoggiato l’uso di respiratori portatili di ultima generazione, e con una certa gratitudine Zexion ne afferrò uno dalla dotazione e se lo strinse lungo il viso. L’aria rilasciata dalla macchina era ben lontana dal vento fresco della superficie, ma Zexion fu grato di sentire del vero ossigeno entrargli in circolo.
Ne avrebbe avuto bisogno.
Fuori dall’infermeria regnava la confusione più totale.
Almeno una decina di assaltatori passò davanti a lui, incapaci però di mantenere il solito rigore che contraddistingueva le truppe dell’Impero; gli spazi angusti ed i numerosi macchinari da estrazione rendevano gli spostamenti nel sottosuolo piuttosto difficoltosi a gruppi estesi di gente, e il ragazzo dovette aspettare diversi minuti prima che gli uomini in divisa riuscissero a sgomberare un passaggio bloccato da un crollo che essi stessi avevano accidentalmente causato. Vi era una nube di fischi e suoni che venivano dai loro comunicatori, resi poco efficienti dalla profondità e dalla scarsità di segnale, a cui i soldati rispondevano con sonore imprecazioni. Uno di loro dovette averlo riconosciuto, perché con un cenno convinse i suoi compagni a posizionarsi lungo le pareti ed a farlo passare.
Per quanto Zexion non nutrisse alcun rispetto verso le varie divisioni degli assaltatori imperiali, dovette ammettere tra sé e sé che se non fossero intervenuti in modo tempestivo al suo segnale probabilmente sarebbe morto sul colpo o comunque si sarebbe ritrovato con ben più di un braccio dolorante ed un livido in faccia. Il segnale che aveva lanciato nel momento in cui quell’imbecille di Camus aveva mandato a monte gli ultimi tre mesi di programma di infiltrazione era stato reso operativo in così poco tempo da stupirlo.
Inspirò meglio dentro l’erogatore, seguendo la mappa olografica che lo avrebbe condotto a destinazione.
Aveva trascorso gli ultimi tre mesi lavorando sul progetto di infiltrazione per scoprire se i minatori della luna di Onoam fossero davvero in combutta con l’Alleanza Ribelle, ed ai suoi superiori non sarebbe piaciuto affatto l’esito della missione. L’obiettivo sarebbe stato inserirsi in maniera effettiva dietro i loro traffici nella speranza di arrivare a qualche esponente di un minimo livello -a nessuno ovviamente importava di qualche Ribelle di basso rango- senza causare scompiglio nella luna del pianeta natale dell’Imperatore. Zexion non aveva mai avuto contatti in prima persona con i membri dell’Alleanza o della Resistenza, e questo aveva fatto di lui il miglior candidato, specie perché il governatore Tarkin cercava di sfruttare il suo potere per qualsiasi missione.
Zero contatti.
A parte uno.
L’unico essere umano a poterlo riconoscere tra le migliaia di esponenti della Ribellione, grandi o piccoli che fossero.
La stupida variabile dagli occhi azzurri che da anni lo perseguitava in buona parte dei suoi incubi.
La stessa variabile che lo accolse dieci minuti più avanti, bloccato dall’altra parte di una cella energetica. Una figura che aveva dato adito a numerosi pensieri da quando si era risvegliato, perché se il sacerdote era ancora vivo dopo l’esplosione del Baan Palace, allora forse …
“Padron Zexion, sono contento di sapere che sta bene!”
Un vero peccato che i blocchi di detenzione a carica energetica non riuscissero ad insonorizzare la voce dei prigionieri.
Zexion preferì non dare adito alla conversazione.
La cosa che lo faceva incazzare era che quel prete da strapazzo fosse assolutamente, incredibilmente … stupidamente sincero. Anche dietro un velo di energia arancione che avrebbe potuto friggerlo all’istante se solo l’avesse toccata, con l’armatura dorata coperta da uno strato di polvere mineraria e con un livido che gli copriva tutto l’occhio destro, Camus aveva ancora i sentimenti e l’espressione di qualcuno che fosse appena tornato da una gita fuori Coruscant ed avesse incontrato un vecchio amico. Il suo sorriso idiota non riusciva a scomparire nemmeno con un taglio sul labbro che doveva avergli fatto un assaltatore quando aveva proceduto all’arresto.
 
 
Narratore: “Registe?”
Registe: “Sì? Ci sembrava che fossero troppi capitoli che non ti sentivamo. Stavamo quasi per preoccuparci”.
Narratore: “E’ più plausibile che gli asini volino. Comunque … perché deve essere quell’essere privo di cuore che deve descrivere l’entrata in scena di Camus? Non potrei farlo io? Ne esalterei ancor meglio la purezza, la gentilezza, la nobiltà d’animo, la compassione, la …”
Registe: “Ignoriamolo”
 
 
“Il piacere non è reciproco, Camus. Hai mandato a monte un’operazione di infiltrazione a livello planetario, in caso il tuo minuscolo cervello non sia riuscito ad afferrarlo” mormorò il ragazzo, fissando senza alcun interesse la punta dei propri stivali. Si sentì fortunato a non aver perso una gamba quando la furia omicida di Gea Oganae gli era atterrata addosso con tutta la sua brutalità. “E sappi che il protocollo imperiale in questi casi prevede …”
“Lo so cosa prevede, padron Zexion, ma non mi importa!”
L’espressione del sacerdote era … radiosa?
“Padron Vexen deve sapere assolutamente che lei è qui!”
Il respiro del giovane si bloccò a metà.
Si scoprì senza saliva nel tempo di un battito di ciglia, osservando la figura oltre la barriera e il suo viso carico di tutte le emozioni del mondo.
Le ultime parole iniziarono ad occupare tutta la sua mente. “Mio zio è …”
Scosse la testa, raccogliendo le ultime immagini dell’uomo che iniziarono a riaffacciarsi alla memoria in un susseguirsi più rapido e vorticoso di quello che sarebbe mai stato in grado di contenere. La scena nel Baan Palace, con Vexen e Camus che cercavano disperatamente di proteggerlo.
Il Generale Baran che lo portava via, lontano da lì, e la promessa che si sarebbero rivisiti presto.
L’immagine del Baan Palace che esplodeva ripetuta giorni dopo giorni agli ologiornali, il segno di vittoria dell’Impero Galattico sulla barbarie demoniaca, il trionfo della gente, il pensiero che suo zio fosse lì dentro e che nessuno, nemmeno i Ribelli, avrebbero mai perso un istante del loro tempo per un uomo come lui.
“Vivo, padron Zexion. Uno come lui non potrebbe mai arrendersi alla morte” disse il prete, le guance praticamente purpuree mentre un enorme sorriso lo attraversava da un orecchio all’altro “Non quando si mette in testa di ritrovarla. Ci siamo separati pochi giorni fa”.
“E adesso dov’è?”
Di colpo il suo cervello prese a valutare le mille possibilità. La luna di Onoam era direttamente sotto il controllo imperiale, e nessuna revoca era stata emessa a carico della sua stessa ID; il fatto che la missione di infiltrazione fosse fallita sarebbe stata senza dubbio causa di indagine da parte delle alte sfere dei Servizi, ma era chiaro che non avrebbero bloccato la sua autonomia almeno fino al suo rientro ad una prima centrale operativa. Era comunque riuscito a portare alla luce una cellula ribelle presso i minatori, e dunque una sanzione disciplinare nei suoi confronti non aveva molte possibilità in essere. Avrebbe avuto abbastanza tempo da requisire una nave con la propria autorità, raggiungere suo zio, giustificare i propri spostamenti almeno per un raggio limitato nel territorio imperiale, aveva autonomia di movimento per …
“Avrei chiamato personalmente padron Vexen, ma purtroppo i nostri comlink sono stati requisiti. E credo che se tutto è andato come da protocollo …”
“Sì, lo so” fece il giovane con uno sbuffo “Persino voi Ribelli avete dei sistemi di cancellamento dati automatico in caso di cattura. Vi avremmo fatti più ingenui, sapete?”
Ma adesso la aveva.
Aveva una traccia per arrivare a suo zio, e non l’avrebbe mollata. Piuttosto avrebbe ribaltato Onoam, Naboo e tutte le lune della Galassia.
Fu un guizzo.
Lo percepirono i suoi poteri, prima ancora degli occhi.
Il sorriso ingenuo di Camus assunse una forma diversa, quasi complice. “Camus, perché ho come il sospetto che tu conosca a memoria l’ID del comlink di mio zio?”
“Perché sono sempre dalla vostra parte, padron Zexion” fece l’altro. Gioioso come un uomo che non stava pensando alla propria esecuzione imminente, ma come qualcuno che desiderasse la gioia degli altri oltre ogni cosa. La giovane spia cavalcò queste emozioni nelle proprie narici, e per un istante si convinse che quel patetico sacerdote forse qualcosa di utile la aveva.
Ma fu solo un istante, una sensazione di infima durata. Un pensiero che venne bruscamente interrotto da una terza voce, bassa e marcata, che emerse dalle spalle di Camus insieme ad una figura che fino a quel momento era rimasta in un angolo, così infima che i suoi sensi lo avevano a malapena registrato. Una figura bassa e dai lineamenti duri come la roccia, i cui sentimenti aggredirono Zexion proprio come il suo sguardo. “Camus, sei pregato di non fare cazzate. Qualunque cosa ti dirà questo marmocchio … non dargli assolutamente quello che vuole!”
  





Raggiungere il terzo piano fu un’impresa più complicata del previsto: gli ascensori rigurgitavano persone in preda al panico e le scalinate si erano trasformate in un teatro di isteria e parossismo che la diceva lunga riguardo la saggezza di radunare grandi quantità di persone nello stesso posto e fornirle di scorte pressoché illimitate di sostanze stupefacenti.
Da buon elementale del ghiaccio, Vexen nutriva un sano timore ancestrale per il suo elemento opposto, il fuoco; ma quando l’ennesimo falleen urlante per poco non lo travolse nella foga di rifugiarsi al piano di sotto, rimpianse di non avere tra le mani un lanciafiamme per poter vomitare morte e distruzione sulla folla impazzita.
“Non abbassare la guardia!” Qualche gradino più sopra, Freki aveva dovuto abbattere con un pugno una donna dagli occhi pesantemente truccati che le si era aggrappata al vestito e si era lasciata cadere a peso morto, minacciando di trascinarla con sé giù per le rampe di scale.
“C’è qualcosa di profondamente sbagliato qui!”
“Ma non mi dire!” Vexen si tolse la soddisfazione di sferrare un calcio assolutamente accidentale al twi’lek che mezz’ora prima aveva cercato di adescarlo davanti al buffet e divorò in due falcate la distanza che li separava, puntando dritto al pianerottolo del terzo piano.
“Pensavo che le loro feste fossero tutte così!”
A stento udiva la sua stessa voce sotto il delirio di gemiti e urla.
Man mano che si avvicinava alla meta, l’adrenalina accendeva le sue terminazioni nervose come una scarica di fuochi d’artificio. Lo strillo perforante di un damerino dai capelli dipinti di viola gli fece avvampare un’ondata di calore fino alla fronte, gettandogli un velo rosso davanti agli occhi.
Forse poteva togliersi più di una soddisfazione, dopotutto. Si avvicinò al ragazzo, che adesso piagnucolava piegato in due sul corrimano, e lo afferrò per il bavero della costosa camicia merlettata. Il trucco sul suo viso doveva essere la rappresentazione molto raffinata di una maschera elegante, ma adesso colava in rivoli dorati lungo le guance e il mento insieme a un misto di lacrime e saliva. Vexen sollevò una mano con il preciso intento di schiaffeggiarlo sonoramente.
Ciaff!
Lo schiaffo era stato sonoro proprio come nelle sue intenzioni, ma Vexen sgranò gli occhi e rimase confuso per qualche istante, perdendo la presa sulla sua vittima. I rumori intorno giungevano attutiti, adesso. E perché il dolore era esploso sulla sua guancia? La sfiorò con la punta delle dita, istupidito.
Poi un familiare paio di occhi color ambra occupò tutto il suo campo visivo.
“Coruscant chiama Vexen! Ritorna in te, maledizione!”
Freki lo stava scuotendo per le spalle.
“Non guardare tutto il resto, concentrati solo sulla mia voce!”
Fu come riemergere da uno di quei sogni dove cerchi di urlare ma la bocca non si apre e dalla gola non esce neppure l’ombra di un suono. Con uno sforzo sovrumano il suo sguardo rimise il mondo a fuoco, appena in tempo per intercettare il braccio di Freki che si alzava per rifilargli un secondo schiaffo. Riuscì a bloccarle il polso con un secondo di anticipo.
“Che… che cavolo succede?”
Un’ondata di sollievo percorse l’espressione tesa di Freki. “Porca puttana, temevo di essere arrivata tardi!
Vexen si accorse che la calca aveva finalmente cominciato a scemare. Percepiva ancora un rombo sordo dietro le tempie, come se qualcuno vi avesse acceso un calderone ribollente, ma i contorni dell’ambiente circostante erano di nuovo nitidi, ordinati. Sbatté un paio di volte le palpebre per scacciare la sensazione di stordimento.
“Mi hanno… mi hanno iniettato qualcosa? Oppure… “ guardò ai suoi piedi, dove il giovane con i capelli viola giaceva ancora rannicchiato con la testa contro il bordo di uno scalino, le mani premute sullo stomaco. I suoi occhi erano dilatati, lo sguardo lucido e distante.
Freki scosse la testa. “Temo sia qualcosa nell’aria. Un gas, forse. O qualcosa di magico. La Forza… ha una qualità strana. Un sapore sbagliato.”
Era la prima volta che Vexen la sentiva menzionare direttamente la mistica energia cosmica da cui i Jedi attingevano i loro poteri. Sospettò che fosse proprio la sua sensibilità alla Forza a renderla immune al delirio psichico che sembrava aver attanagliato ogni altro partecipante alla festa. Probabilmente stava estendendo un po’ di quella protezione mentale anche a lui. Il che significava…
“Lavok e Valygar” Freki terminò la frase per lui.
“Muoviamoci!”
Gli ultimi scalini ormai sgombri, i due si precipitarono lungo la moquette scarlatta del corridoio del terzo piano alla massima velocità possibile.
Fu l’odore ad assalirlo per primo, un forte sentore metallico e dolciastro che gli penetrò fin dentro le narici. Adesso non era più solo la moquette ad essere rossa. Le pareti di marmo bianco erano chiazzate di sangue. Sangue estremamente fresco.
Il rombo sordo dietro le sue orecchie aumentò d’intensità. Ebbe la sgradevole sensazione di sentire qualcosa di vivo all’interno della sua testa, un parassita che si scagliava con rabbia contro la fragile barriera mentale con cui Freki lo stava proteggendo. Sentì il respiro farsi più affannato e lottò per tenerlo sotto controllo.
Poi iniziarono ad incontrare i corpi.
Dovevano essere morti in modi molto creativi a giudicare dalle posizioni in cui erano caduti. Sembravano pupazzi di tutte le taglie e i colori, affastellati disordinatamente l’uno sull’altro, gli arti piegati in angoli innaturali. I giocattoli scartati di un bambino capriccioso.
Sfoggiavano ferite di ogni tipo: lacerazioni, contusioni, occasionali fori di arma da fuoco. Dovevano essersi saltati alla gola con ogni mezzo a loro disposizione, accecati dalla stessa follia che aveva minacciato di sopraffarlo sulle scale.
Vexen rabbrividì e cercò istintivamente la sciarpa di Camus per coprirsi il naso, solo per ricordarsi all’ultimo momento che indossava ancora quel ridicolo abito verde da festa assolutamente privo di protezioni. Bestemmiò tra i denti.
“Siamo in prossimità del centro dell’anomalia” avvertì Freki. Aveva smesso di correre e ora procedeva con cautela, impugnando un piccolo blaster che doveva aver nascosto chissà come al momento dei controlli all’ingresso della festa. Vexen si maledì per non aver pensato a fare lo stesso.
“Il disturbo… sta crescendo d’intensità. Restami vicino. Non so per quanto riuscirò a proteggerti altrimenti.”
Vexen annuì, cercando inutilmente di deglutire. Aveva il palato troppo secco.
Una serie di rumori poco rassicuranti giungeva adesso da una sala più in avanti, sulla destra del corridoio rosso. Qualcuno era ancora vivo, ed era alle prese con un combattimento serrato.
“Zio, l’incantesimo di protezione!”
La voce di Valygar. Concitata, affaticata, ma decisamente la voce di una persona ancora in possesso della propria sanità mentale. Per la prima volta da quando aveva messo piede su Coruscant, Vexen provò sollievo per il destino di uno dei suoi improvvisati compagni di avventura.
“Non ce la faccio!” Lavok. Anche Lavok era ancora tutto intero. “Già è tanto se riesco a proteggere me e te!”
Freki e Vexen fecero il loro ingresso nella sala - che si rivelò uno studio piuttosto ingombro di paccottiglia di rappresentanza dall’aria antica - proprio mentre il giovane Corthala parava l’affondo di un aggressore armato di fermacarte. Anche il ranger era armato alla buona: aveva divelto l’asta di legno che faceva da supporto a una tenda e la faceva roteare sulla testa come il bastone di un monaco. Il suo assalitore era una umanoide dal cranio allungato e la carnagione pallido-bluastra; al contrario di Valygar, si trovava evidentemente sotto l’effetto della follia collettiva. I suoi occhi erano sbarrati e una folta schiuma le gorgogliava dalla bocca. Vexen ringraziò mentalmente la prontezza di riflessi di Freki: mille volte meglio essere presi a schiaffi che ridursi in quello stato pietoso.
“Freki! Vexen! Datemi una mano con questo medaglione!”
Dall’altro lato dello studio, seminascosto da una pesante scrivania ricoperta di soprammobili, Lavok era a terra e stava lottando con una seconda persona, aggrappato con entrambe le mani alle sue vesti cariche di gioielli. Il falleen ingioiellato urlava e si contorceva, agitando le dita dalle lunghe unghie affilate nel tentativo di graffiare il viso del mago.
“Il… il mio bastone…!”
Vexen seguì con lo sguardo il dito di Lavok e i suoi occhi individuarono immediatamente l’elegante bastone d’avorio, abbandonato sul pavimento a qualche metro di distanza. Scattò in quella direzione senza esitare.
Sollevò l’arma improvvisata con entrambe le mani e sferrò un colpo deciso alla nuca del falleen, lasciandosi sfuggire un grido liberatorio. La sua vittima smise di lottare all’istante, afflosciandosi come un fantoccio sopra il petto di Lavok.
“Lo… lo hai ucciso?” Il mago aveva gli occhi fuori dalle orbite. Strisciò all’indietro sul pavimento, cercando di liberarsi del peso morto.
“Anche se fosse?” replicò acido Vexen.
Ora che aveva modo di osservarlo con più calma, appariva evidente che il criminale colpito doveva appartenere alle alte sfere. Sembrava ancora piuttosto giovane, con la pelle verde scuro, i capelli raccolti in una coda alta sul cranio rasato e i tratti da rettile tipici della sua specie. Ciò che risaltava in particolare erano i suoi abiti: i gioielli e le decorazioni, da soli, ad occhio valevano quanto il reddito di un sistema minore. Su tutta la sfavillante composizione troneggiava un grosso medaglione dalla forma di un sole dai raggi dorati, adagiato al centro del petto.
“Spero davvero di no” intervenne la voce di Freki alle sue spalle. “Quello è il principe Xizor. Se salta fuori che lo abbiamo ammazzato ci ritroveremo l’intero Sole Nero alle calcagna.”
Vexen si affrettò a sentirgli il polso. “Siamo fortunati. È ancora vivo.”
“Ma non è ancora al sicuro.” Lavok si era risollevato a fatica sulle ginocchia e ora si appoggiava al bastone, cercando di rimettersi in piedi. La smorfia sul suo viso indicò a Vexen che la sua gamba ancora non doveva essersi rimessa del tutto. “E nemmeno noi.”
Il mago allungò la mano verso il medaglione a forma di sole mentre Freki voltava il principe svenuto sulla schiena. “Qualsiasi incantesimo abbia causato tutto questo… viene da lì.”
“È di natura magica, quindi?”
Lavok annuì, ma non appena le sue dita sfiorarono il gioiello un lampo di pura sofferenza gli attraversò la faccia come una scia infuocata. Si ritrasse con un grido, afferrandosi le tempie con entrambe le mani. Freki lo sostenne prima che potesse nuovamente cadere a terra.
“È troppo… forte per me. Sono riuscito a proteggere me e Valygar con uno scudo mentale, ma… dobbiamo annullare l’incantesimo sul medaglione affinché il suo effetto cessi del tutto. E non solo. Probabilmente ci sono altri artefatti simili o cristalli nascosti nel palazzo, che ne amplificano e rinforzano l’effetto. Altrimenti sarebbe stato impossibile colpire così tante persone. Chiunque abbia architettato tutto questo… è un mago di potenza incredibile.”
Un tonfo sordo dal centro dello studio annunciò che Valygar si era appena liberato della sua assalitrice. Senza mollare la presa sulla sua arma improbabile, il ranger si precipitò al fianco dello zio con uno sguardo che a Vexen ricordò Camus durante i suoi migliori attacchi di apprensione.
“Possiamo distruggerlo?” il giovane Corthala indicò il medaglione con aria speranzosa, ma la sua voce perse convinzione ancora prima di terminare la frase. Lavok confermò i suoi timori con un mesto cenno del capo.
“Magari fosse così semplice.”
Colto da un’ispirazione improvvisa, Vexen agitò le dita e ricoprì la superficie del medaglione di uno spesso strato di ghiaccio, saldandolo al petto del principe Xizor. Lavok scosse la testa, ma subito dopo il suo sguardo si illuminò di un bagliore speranzoso.
“Non basterà… ma potrebbe darci un po’ di tempo.”
Lo percepì nettamente nell’attimo in cui il ghiaccio finì di sigillare il gioiello maledetto: come se fino a quel momento la sua fronte fosse stata stretta da una fascia di metallo e ora, di colpo, qualcuno avesse allentato le viti per dargli sollievo. Chiuse gli occhi per qualche istante e si godette la sensazione della sua mente silenziosa, di nuovo solo e soltanto sua.
Ma il ghiaccio già iniziava a sciogliersi lungo i bordi.
“Lavok, dimmi tutto quello che sai su questo incantesimo.”
Poteva aver dimenticato la sciarpa di Camus, ma un vero alchimista che si rispetti porta sempre i gessetti con sé. Li estrasse a fatica dalla stretta tasca interna al mantello e iniziò a tracciare un cerchio intorno alla sagoma immobile del principe Xizor.
“Non importa la potenza, posso fermarlo. L’alchimia può alterare anche un incantesimo, si tratta pur sempre di una combinazione di energia e materia” spiegava rapidamente, senza staccare gli occhi dalle linee che andava tracciando con il gesso. Sentiva ancora scariche di adrenalina inebriargli il sistema nervoso e affilare la lama della sua concentrazione, ma stavolta non si trattava dell’effetto di un incantesimo sconosciuto, bensì dell’euforia di trovarsi nuovamente in controllo della situazione.
“Io penso agli artefatti amplificatori” fece la voce di Freki da qualche parte sopra di lui. “Penso di riuscire ad individuarli con un po’ di concentrazione.”
“Saranno almeno quattro o cinque, probabilmente ben distanziati l’uno dall’altro.”
Lavok tornò a concentrarsi sul cerchio mentre i passi di Freki si allontavano rapidamente fuori dallo studio. Il mago si era inginocchiato dal lato opposto di quello di Vexen, poggiando i palmi a terra ma facendo attenzione a non cancellare nessuno dei segni tracciati con il gesso.
“Cosa ti serve sapere?”
“Tutto. Il funzionamento dell’incantesimo nei minimi dettagli.”
I loro sguardi si incontrarono per un momento al di sopra dell’intreccio di linee e simboli. Quello di Lavok era concentrato, vibrante di curiosità e interesse, cosa che Vexen interpretò come un segno positivo. Chiuse il cerchio interno con un tratto deciso, andando a disegnare una serie di rune di contenimento nella zona immediatamente adiacente al medaglione. Poi strinse con più forza il mozzicone di gesso e inspirò profondamente. I passi successivi erano di importanza cruciale.
“Ho detto che posso fermarlo, ma mi serve sapere cosa sto fermando. Con precisione estrema. La teoria magica non è esattamente il mio campo di specializzazione.”
“Abbiamo a che fare con un incantesimo della scuola di incantamento. Causa una stimolazione eccessiva del sistema adrenergico, portando chi lo subisce a percepire ogni elemento dell’ambiente circostante come minaccia incombente. La vittima si ritrova sopraffatta da livelli anormali di stress e regredisce a uno stadio di puro istinto, reagendo ad ogni stimolo esterno con la lotta o con la fuga.”
Vexen aveva iniziato a tracciare una nuova serie di rune nel momento in cui Lavok aveva pronunciato la parola “incantamento”, aggiungendo simboli e glifi lungo il bordo del cerchio principale man mano che il mago sciorinava la sua spiegazione. Un occhio per la mente. Una linea seghettata per la minaccia. Il triangolo del fuoco per la lotta, quello rovesciato dell’acqua per la fuga. Il tutto connesso dai corretti simboli logico-matematici per determinare i rapporti causa-effetto.
“Il fatto che sia stato immagazzinato in un artefatto piuttosto che lanciato direttamente sulle vittime implica che… “
Uno schianto alle sue spalle soffocò le ultime parole di Lavok. Preso in contropiede Vexen sobbalzò, perse la presa sul gesso tra le dita ormai sudate e per ritrovare l’equilibrio fu costretto a poggiare una mano a terra, cancellando parte dei simboli appena tracciati.
“Dèi ladri!”
“Maledizione! Ci hanno trovati!”
Il Corthala giovane, assolutamente inutile fino a quel momento, era già in piedi a fronteggiare la nuova minaccia. Un manipolo di invitati della festa sotto l’effetto dell’incantesimo doveva aver seguito la scia di sangue fino allo studio e ora si accalcava sull’ingresso in mezzo a un concerto di versi e grida gutturali. Cinque o sei creature che si spintonavano e si camminavano addosso nel tentativo di entrare per primi.
Valygar si posizionò tra il cerchio alchemico e i nuovi venuti. Roteò il bastone davanti a sé, ma quelli non si fecero intimorire. Un secondo falleen ringhiò, scoprendo incisivi aguzzi come quelli di un serpente velenoso.
“Cerco di tenerli a bada, ma fate presto!”
“Ti serve aiuto?” Vexen riportò lo sguardo sul cerchio e vide che Lavok aveva raccolto uno dei suoi gessetti caduti. Spalancò gli occhi per il terrore e l’oltraggio nell’immaginare uno dei suoi cerchi in mano a un neofita da strapazzo che fino a qualche giorno prima non aveva nemmeno mai sentito nominare la parola “alchimia”. Aprì la bocca per ringhiargli addosso tutto il suo disprezzo, ma si morse la lingua ripensando alla precisione e alla competenza con cui il mago gli aveva illustrato il funzionamento dell’incantesimo. Doveva ammetterlo, non lo aveva immaginato in possesso di simili nozioni scientifiche. Forse lo stava sottovalutando.
La sua esitazione durò ancora una manciata di secondi, il tempo che impiegò la statuetta di bronzo scagliata da uno dei combattenti a volare accanto al suo orecchio e ad infrangersi a tutta velocità contro una specchiera. Un tripudio di schegge di vetro piovve sul cerchio, sul principe Xizor e sulle loro teste. Si ripararono alla bene e meglio con le braccia, ma quando Vexen tornò a concentrarsi sul lavoro il cerchio ormai era compromesso dalla presenza di tutta quella materia estranea. Bestemmiò. Ci sarebbe voluta una vita per rimuovere ogni singola scheggia.
Poi, sotto il suo sguardo incredulo e ormai al limite della sopportazione, i pezzetti di vetro presero il volo. Uno dopo l’altro fino al frammento più microscopico, visibile solo grazie alla rifrazione delle luci al neon nello studio. La brezza fresca che li trasportava gli accarezzò la pelle per qualche piacevole attimo, ma non smosse nemmeno un granello di gesso dal pavimento.
Pochi secondi dopo il cerchio era di nuovo sgombro e Lavok sorrideva, abbassando la mano con cui aveva lanciato l’incantesimo. Vexen prese la sua decisione.
“Ricopia i simboli che disegno io dalla tua parte del cerchio, ruotati di esattamente centottanta gradi.”
“Ricevuto!”
Si rimisero al lavoro di buona lena, cercando di escludere dal loro campo uditivo le urla e i rumori del combattimento in corso a pochi metri da loro. Vexen vide Lavok sussultare quando a un tonfo sordo seguì un grugnito di dolore di Valygar, ma il mago strinse i denti e tenne duro, continuando a disegnare con le spalle chine e il naso a pochi centimetri dal cerchio.
Finalmente le due stringhe di simboli si incontrarono a metà della circonferenza. Vexen tracciò l’ultimo connettore con un gesto rabbioso che finì di mutilare il gessetto ormai consumato.
“Adesso allontanati!”
Posò i palmi a terra e visualizzò nella mente le linee energetiche dell’incantesimo che si interrompevano. Sapeva che se Freki non avesse portato a termine il suo compito nei piani inferiori del palazzo tutta la loro fatica non sarebbe servita a niente.
Infuse la sua volontà nei simboli e nelle rune, ma il cerchio rimase inerte.
Dèi ladri, Freki, datti una mossa!
Asciugò il sudore dalla fronte con il bordo di quell’inutile mantello verde e ci riprovò.
In quel momento successero due cose. Valygar afferrò un togruta armato di una bottiglia rotta in una presa da lottatore e facendo leva sulle gambe lo scagliò oltre le loro teste, facendolo atterrare con un tonfo proprio alle spalle di Lavok, che si lasciò sfuggire un grido di spavento. Il pavimento iniziò a vibrare e il cerchio si illuminò di bagliori violacei mentre le falde dei loro abiti eleganti si sollevavano e svolazzavano rapite da un vento innaturale, spiraleggiante.
“È normale che faccia così?” gridò Lavok, spiaccicato sul pavimento come un grosso scarafaggio capovolto.
“In teoria sì, ma… è più complicato del solito! Qualcosa oppone resistenza!”
Vexen si morse l’interno del palato, imponendosi di non staccare le mani dal pavimento, di non perdere il contatto con le rune. Il vento ora crepitava come se una tempesta in miniatura stesse scalpitando all’interno del cerchio, ruggendo nell’impeto di liberarsi e sparandogli in faccia raffiche pungenti di vento sempre più violente.
Non perderò il controllo come un pivellino alle prime armi davanti a quel mago ribelle!
L’orgoglio gli diede la forza di puntare le ginocchia a terra e concentrare ogni cellula del suo essere sul comando che intendeva trasmettere al cerchio. La magia del medaglione si ribellava come una belva ingabbiata, ma il suo cerchio non aveva sbavature. Era impeccabile, come sempre.
Ordinò alle rune di stringersi in una morsa, le impugnò come le redini di un cavallo imbizzarrito e tirò con tutte le sue forze. Gli parve che il vento diminuisse di intensità malgrado il rombo ancora potente, e socchiuse gli occhi quel tanto che bastava per distinguere il braccio sollevato di Lavok e uno scudo di energia traslucida che si frapponeva tra loro e la tempesta.
Poi la luce dilagò, accecante. La stanza esplose in una cacofonia di urla affastellate l’una sull’altra. Vexen lasciò la presa e si rannicchiò sul pavimento.
Lo schiocco fu netto, deciso. Una lastra di ghiaccio che si spezza a metà.
Quando la luce passò e poterono riaprire gli occhi il vento era cessato. Alcuni degli assalitori di Valygar si contorcevano doloranti sul pavimento e gemevano, ma non accennavano a rialzarsi per riprendere l’attacco. Vexen inspirò, grato per il silenzio che era calato tutto intorno e dentro la sua testa.
“Ce… ce l’abbiamo fatta?” domandò Lavok con un filo di voce.
Vexen spostò lo sguardo sul petto del principe Xizor, dove il medaglione giaceva spaccato in due metà perfette, e si concesse finalmente l’ombra di un sorriso.
 
  
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