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Autore: Adeia Di Elferas    04/04/2022    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Bianca porgeva in silenzio la pezza inumidita alla madre e questa, con movimenti lenti si tergeva gli occhi, insistendo più che poteva, nella speranza di togliere il rossore in fretta.

La Riario immaginava che la donna avesse pianto a lungo, perché di rado l'aveva vista con il viso tanto congestionato e le sclere così infiammate, solo che non comprendeva il motivo contingente di un simile sfogo, specie per una donna come lei, che di rado si lasciava andare a certe dimostrazioni di tristezza.

“Non dici nulla, della questione di Astorre?” domandò la Tigre, restituendo la pezzuola alla figlia, per far sì che la ribagnasse: “Pensavo che questa notizia ti avrebbe... Entusiasmata di più.”

La giovane abbassò lo sguardo, prendendosi qualche istante per preparare le pezze e poi, ridandole alla madre, rispose: “Io credo sia difficile essere felici per la morte di un ragazzo tanto giovane.”

“Non servono ipocrisie, con me.” la frenò subito la Sforza: “Vanno bene in società, ma con me non devi perdere tempo con queste frasi inutili...”

Gli occhi blu di Bianca corsero in fretta a quelli verdi della Leonessa e poi, mal celando un mezzo sorriso, ammise: “Mi fa ben sperare, pensare che dicono che sia morto. Solo... Ho dei dubbi. Ho paura di crederci e poi restare delusa.”

Tamponandosi di nuovo gli occhi, la milanese domandò: “Non mi avevi detto che Troilo aveva dei contatti? Che... Il Trivulzio, che lui aveva modo di informarsi?”

“Sì.” annuì la Riario.

“Sarebbe molto rischioso scrivere a Troilo adesso, per chiedergli di informarsi?” fu la conseguente domanda della Sforza.

“Non lo so.” ammise Bianca, che, in effetti, col De Rossi aveva accordi abbastanza vaghi, che prevedevano, di fatto, che si scrivessero solo per motivi molto gravi e importanti.

Mentre la figlia era ancora pensierosa e controllava la temperatura della pozione, per capire se fosse ancora abbastanza calda da essere utile, Caterina lasciò scivolare lo sguardo verso il suo ventre, che, a un'osservazione molto scrupolosa, cominciava a rivelare qualcosa.

“A proposito...” soffiò, inumidendosi una volta di più gli occhi: “Come stai?”

La giovane capì subito il motivo di quella domanda, tanto che una mano le corse automaticamente alla pancia, ma, con un sorriso un po' imbarazzato e allo stesso tempo compiaciuto – doveva ammettere con se stessa di essere folle di gioia per il figlio che aspettava – rispose: “Sono io che dovrei chiedere a te come stai, non il contrario.”

Caterina prese di nuovo le pezzuole pronte, ma aggiunse che dopo quell'impacco non avrebbe fatti altri e poi, tornando all'argomento principale, chiese: “Ti sei fatta un'idea dell'origine delle mie febbri?”

“Ho pensato alla malaria.” rispose immediatamente la giovane.

“Dici che sia quello?” la Sforza non era convinta e, mentre chiudeva gli occhi, lasciando che la sua pozione li rinfrescasse, valutò: “Sono stata male, è vero, come in passato, ma è stato in parte diverso... E anche adesso, come vedi, mi sto riprendendo abbastanza in fretta, anche se il mio fisico non è più reattivo come un tempo.”

La ragazza fece un lungo sospiro, prendendo le pezze e mettendole da parte assieme alla bacinella colma di pozione. Accigliandosi, ribadì che la sua prima ipotesi era e restava quella della malaria.

Il suo volto, però, restava velato da una profonda incertezza e preoccupazione, che portò la Leonessa a chiedere: “Cosa c'è?”

“Ho pensato anche al mal francese.” ammise, schiarendosi la voce: “Anche se forse è passato troppo tempo da quando...”

Caterina non si era aspettata quella risposta. Sollevando un sopracciglio, convenne che ormai era passato troppo tempo, tuttavia, conoscendo relativamente poco le manifestazioni di quella malattia, specie nelle donne, non poteva escludere nulla.

“Ho avuto degli episodi di febbre, quando ero a Castel Sant'Angelo...” ricordò la Tigre, benché le memorie di quelle settimane, anzi, di quei mesi, fossero confuse e prive di una connotazione temporale ben demarcata: “Però non saprei dirti né per quanto tempo, né con che gravità... Né se avessi altri sintomi... Stavo male e basta. Ricordo che a un certo punto credevano stessi per morire.”

Quel brevissimo racconto, che mostrava uno spaccato tragico della vita della Sforza, commosse nel profondo Bianca che, però, sforzandosi di far prevalere il lato pratico su quello sentimentale, per imitazione alla madre, che da sempre perseguiva quella via, indagò: “Messer Fortunati è davvero solo il tuo confessore?”

La Leonessa stava per dire di no, ma poi incrociò lo sguardo della giovane e capì che mentire sarebbe servito a poco. Per quello che aveva potuto capire, nelle ultime settimane, sia lei che Galeazzo – e forse anche Bernardino – avevano cominciato ad avere sospetti sulla reale natura del rapporto che correva tra lei e Francesco.

Così, con un sospiro molto profondo, sistemandosi un po' nel letto, a disagio, ammise: “No. Non più.”

Avrebbe voluto aggiungere qualcosa in sua discolpa, qualche raccomandazione affinché una simile notizia non uscisse mai da quella stanza, dato che la fama di sant'uomo del piovano non solo era la sua chiave segreta per aprire anche le porte più ostiche, ma era soprattutto una cosa che a lui stava a cuore e vederla compromessa, seppur a ragione, l'avrebbe fatto soffrire moltissimo... Quando provò a parlare di nuovo, però, la Riario la frenò.

“Non ho alcun interesse a divulgare una simile informazione.” l'anticipò e poi concluse: “Lo chiedevo solo per farmi un'idea più precisa. In più, se voi aveste il mal francese, immagino che ormai dovrebbe essere ammalato anche lui, ma da quello che so sta bene. Certo è che si sa pochissimo di questo male, quindi è abbastanza inutile fare tutte queste congetture...”

Caterina sospirò. Non aveva pensato nemmeno per un istante, in realtà, di aver esposto Fortunati al rischio di ammalarsi. Dato che non aveva mai riscontrato in sé motivo d'allarme, non aveva mai ragionato a fondo sui reliquati che le violenze del Valentino le avevano lasciato, non solo nell'animo, ma anche nel corpo...

“Non credi che possano avermi avvelenata, vero?” domandò di punto in bianco la Leonessa.

Quel tarlo la tormentava da un po', e la sua mente, già orientata alla fuga, al cercare momentaneo riparo in una casa sicura scelta dal piovano, sembrava voler avvalorare a forza quell'ipotesi.

La Riario rimase un attimo interdetta e poi scosse il capo: “Non credo... Non penso che Lorenzo si spingerebbe a tanto... Anche se il veleno è un'arma comoda...”

“Il veleno è un'arma da vigliacchi!” esclamò Caterina, animandosi tanto da mettersi seduta contro la testiera del letto: “Tuo padre, per esempio, è riuscito a trovare il coraggio e la capacità di ammazzare un uomo solo avvelenandolo! Come l'ultima delle cortigiane!”

Bianca aveva sentito dire più volte che, molti anni prima, quando lei aveva appena un anno, Roberto Malatesta fosse morto in circostanze poco chiare, dopo essersi ammalato al campo militare dove era presente anche suo padre, Girolamo. La giovane sapeva benissimo che per sua madre la causa di quella morte era il veleno e la mano che aveva fatto scivolare la fatale pozione nel vino del condottiero era il defunto Conte Riario.

Pur avendo passato anni – una vita intera – a ragionare sui motivi concreti e innegabili per cui sua madre aveva sempre detestato e tutt'ora odiava il primo marito, e pur avendoli compresi e umanamente condivisi, Bianca non riuscì a non indispettirsi dinnanzi a quell'ulteriore denigrare suo padre. Era abituata a sentire dalla Tigre frasi e considerazioni sprezzanti riguardo il defunto Girolamo, eppure ogni volta ne restava ferita e irritata.

“Se non hai bisogno d'altro...” sospirò, alzandosi dalla sedia accanto al letto su cui era appollaiata ormai da parecchio.

“Perdonami.” disse in fretta Caterina, capendo al volo il motivo dell'improvvisa voglia di andarsene della figlia e sentendosi sinceramente in colpa per aver denigrato una volta di più, in sua presenza, un padre che, in fondo, Bianca aveva sempre amato molto.

“Non... Non ce n'è bisogno.” soffiò la ragazza, senza accennare più ad andarsene, ma, tuttavia, non risedendosi: “So bene che mio padre era un uomo...” non trovando il termine giusto per descriverlo, lasciò semplicemente spegnere la voce.

“Secondo te sono stata una cattiva madre, per Livio?” domandò a bruciapelo la Sforza, arrivando alla questione che più la tormentava in quel momento, in barba a tutto il resto, alla guerra, al pericolo costante di Lorenzo e perfino alla sua recente malattia.

La Riario avrebbe voluto dire subito di no, ma l'abitudine a non mentire troppo sfrontatamente alla madre la portò a osservare un lungo istante di silenzio.

Stringendo i denti, Caterina provò a dare una diversa inclinazione alla domanda, sperando di agevolare una risposta della figlia e avere da lei un parere sincero: “Per te sono stata una cattiva madre?”

“Non sempre.” rispose, d'impeto, la giovane.

Non sempre.” fece eco la milanese, digerendo a fatica quelle due parole.

“Mi hai dato molta libertà, mi avete istruita, mi hai permesso di crescere e di decidere per me stessa, il che non è frequente, me ne rendo conto, e di questo non potrò far altro che continuare a ringraziarti.” iniziò a dire la Riario: “Solo che...”

“Solo che?” la incalzò Caterina, la bocca secca, ma un disperato bisogno di sentire dalla viva voce della figlia la verità.

“Solo che ci sono voluti molti anni, prima che mi accettasti.” concluse Bianca, con un sorriso tirato: “Per rispondere alla domanda di prima... Credo che per voler davvero bene a Livio ti sarebbe servito ancora qualche anno. In quel momento... C'erano ancora troppe ferite troppo fresche.”

La Leonessa fissava la figlia in silenzio. C'era stato qualcosa, nelle sue parole, che le aveva fatto tornare prepotentemente il desiderio di piangere, eppure si tratteneva. L'unica cosa che avrebbe voluto dire era che sperava che la Riario diventasse una madre migliore di quanto non fosse stata lei, che fosse capace di unire il buono che aveva visto in lei al buono che in lei era mancato, ma quando provò a schiudere le labbra, si rese conto che se avesse provato a parlare sarebbe davvero scoppiata a piangere, e non voleva farlo.

“Ti lascio un po' da sola.” sussurrò Bianca, recuperando la bacinella con la pozione e le pezzuole ormai fredde: “A meno che non debba richiamare qui messer Fortunati...”

La milanese fece un gesto spiccio con la mano per dire che no, che preferiva restare da sola, e così la giovane la salutò e si chiuse la porta alle spalle, permettendole di rimettere in ordine i pensieri e calmare quel mare in tempesta che le agitava la mente e il cuore.

 

Maria Giovanna Della Rovere stringeva con forza le lenzuola, ma, nonostante i suoi stessi gemiti e le grida di dolore che ogni tanto le sfuggivano dalle labbra, riusciva benissimo a sentire il suocero e il marito parlottare nella stanza accanto.

La levatrice le impartiva ordini ben precisi, ma la giovane faceva fatica a seguire il suo discorso, troppo concentrata nel decifrare quello dei due uomini. Sapeva benissimo che quello era un momento pessimo, per partorire. Sapeva altrettanto bene che, fosse dipeso da Venanzio, probabilmente l'avrebbe uccisa nel momento stesso in cui avesse sgravato, uccidendo anche il bambino, se fosse stato una femmina.

“Avanti, manca poco...” stava dicendo la levatrice, ma le orecchie della Della Rovere erano orientate verso altre parole.

“Non mi interessa se ha appena partorito!” si sentì gridare Giulio Cesare da Varano, con la voce potente che esibiva quando voleva farsi ubbidire dal figlio: “Ho detto che deve partire anche lei e basta!”

“Falla partire dopo..!” provò a dire Venanzio: “Non voglio che rallenti mia madre e mio fratello! E tanto meno mio figlio Sigismondo! Li voglio sapere salvi a Venezia ben prima che arrivi qui il Valentino!”

Si sentì un rumore secco. Probabilmente era volato uno schiaffo e Maria Giovanna provò un piacere profondo nell'immaginare il marito tenersi la guancia arrossata, come un bambino punito dopo aver mancato di rispetto al genitore.

Quasi senza accorgersene, la giovane emise un grido profondo e lacerante e, nel mentre, contrasse tutti i muscoli del suo corpo. Era tanto distratta da tutto quanto che un po' si sorprese nel vedere la levatrice protendersi, afferrare quel qualcosa che era scivolato tra le sue gambe e borbottare soddisfatta un paio di considerazioni su come fosse facile far partorire le donne giovani.

Sfinita, mentre una delle serve la rassicurava, ricordandole le fasi che ancora doveva attraversare per poter dire concluso il parto, la Della Rovere non ebbe nemmeno la prontezza di chiedere se avesse dato alla luce un maschio o una femmina.

Fu lo sguardo deluso di Venanzio – entrato all'improvviso in stanza, come una furia – a darle conferma di aver appena avuto una figlia.

Fissando la neonata, che la levatrice stava accuratamente detergendo e controllando, il Varano disse, con tono freddo: “Tra quanto avremo finito, qui?”

“Dobbiamo ancora aspettare almeno quindici minuti, mio signore – disse la serva che, tra le presenti, si sentiva più esperta in materia – perché la bambina è nata appena adesso e poi si dovrà attendere per vedere come...”

“Non attenderemo un bel niente.” le parole uscivano dai denti digrignati di Venanzio come tanti piccoli pugnali: “Fate in modo che mia moglie sia pronta per partire entro al massimo un'ora, e così questa... Creatura.” concluse, lanciando uno sguardo di disapprovazione alla bambina che, rossa e piangente, cercava consolazione nella levatrice che la stava avvolgendo in un telo.

“Partire..?” chiese Maria Giovanna, che si sentiva febbricitante e tanto debole da non riuscire quasi a muoversi: “Per dove? Perché?”

“Perché così ha deciso mio padre.” tagliò corto il marito, lasciando subito la stanza.

In realtà non era un discorso nuovo, per la Della Rovere. Già la sera prima aveva sentito il suocero discutere di come avrebbe mandato la moglie e uno dei figli, Giovanni Maria, a Venezia. Avrebbe dato loro il tesoro di famiglia, in modo che dalla Serenissima potessero comprare influenze per proteggere Camerino ed eventualmente liberarli, se fossero stati fatti prigionieri dai Borja, una volta che il Valentino fosse giunto a Camerino. Fino a quel momento, però, Maria Giovanna non si era mai sentita includere nella spedizione, anzi, aveva accettato con gioia l'idea di restare in una città che sarebbe stata assediata e che poi sarebbe caduta.

Nella sua fantasia, si vedeva o morta negli scontri, e quindi liberata per sempre dai suoi tormenti, o catturata dal Valentino che, si diceva, fosse un uomo terribile, ma capace di amare una donna.

Ora, invece, le sue prospettive cambiavano radicalmente. A metà tra il cosciente e l'incosciente, mentre la levatrice la incitava a non addormentarsi e ad aiutarsi per espellere la placenta, la Della Rovere si vide già in viaggio, su un carro o, peggio, a cavallo, ancora pallida per il parto, dolorante e legata a filo doppio a una neonata che avrebbe dovuto mangiare, dormire, essere cambiata e lavata... E tutto ciò in compagnia di un cognato che, in fondo, la disprezzava come facevano tutti gli altri e una suocera che non la considerava neppure un essere umano.

Cominciò a piangere silenziosamente e lasciò che le serve e la levatrice facessero di lei quello che volevano, del tutto disinteressata al suo corpo, al suo destino e perfino alla sua stessa anima.

 

Francesco rallentò il passo, mentre si avvicinava alla sala delle letture, tendendo al contempo l'orecchio. Sentiva parlare a voce bassa, fittamente, e riconosceva bene entrambi gli interlocutori.

Si avvicinò alla porta mezza aperta e attese ancora qualche istante. Quando ebbe conferma che erano proprio Caterina e Alberto De Marzi, i due che stavano parlottando, non esitò oltre ed entrò, senza annunciarsi.

La donna, che negli ultimi due giorni si era ripresa quasi del tutto, era seduta sul divanetto, le mani in grembo e un'espressione seria in viso. L'uomo, invece, era in piedi, poco lontano da lei, le braccia lungo i fianchi, e lo sguardo furbo rivolto al piovano appena arrivato.

“Non vi aspettavamo fino a stasera.” disse Alberto, chinando un po' il capo in segno di saluto: “Vi devo lasciare soli?” chiese poi, guardando direttamente la Tigre, come se fosse la sua, l'unica parola che avesse un qualche valore in quella casa.

“Sì, dovete lasciarci soli.” fece Fortunati, senza aspettare che fosse la donna a esprimersi.

Alberto, sollevando un sopracciglio, attese comunque un tacito segno d'assenso da parte della Leonessa e, solo dopo, con una certa lentezza, si avviò alla porta.

Francesco sapeva di esagerare, nel mostrarsi tanto irritato dal De Marzi, ma era più forte di lui.

Ora, dopo essere rimasto un giorno intero a Firenze, la sua mente l'aveva messo davanti a ogni tipo di gelosa fantasia. Trovare, al suo rientro, Caterina e Alberto da soli e intenti a parlare tanto serratamente gli aveva fatto correre un brivido lungo la schiena che non gli piaceva per niente.

“Di cosa stavate parlando?” domandò, senza riuscire a trattenersi.

La Sforza non diede peso al suo tono inquisitorio, tanto era presa dai suoi pensieri, e, anzi, rispose di getto e senza filtri: “Parlavamo della mia assurda situazione, dei miei problemi economici, degli enormi rischi che io e i miei figli stiamo correndo, del modo vergognoso in cui mi sta trattando mio cognato e anche di come mi stanno sbeffeggiando Ottaviano e Cesare con quelli che stanno conoscendo a Venezia e...”

“Se vuoi farlo, dobbiamo farlo oggi.” la interruppe l'uomo, non avendo alcuna voglia di sentire un elenco completo dei problemi che il De Marzi aveva ingigantito, nella mente della Tigre, fino a renderglieli ostacoli tanto insormontabili da portarla a voler allontanarsi dalla villa di Castello.

“Perché?” chiese subito lei, capendo bene che il fiorentino alludeva al suo spostamento nella nuova casa sicura che il piovano aveva trovato per lei.

“Perché domani al massimo Firenze chiuderà le porte e sarà impossibile entrare o uscire.” soffiò l'uomo, evitando di guardarla, temendo quasi di scorgere in lei qualche segnale che potesse confermare la sua più atroce paura, ossia che si fosse avvicinata ad Alberto molto più di quello che sembrava.

“E Bianca?” chiese d'istinto la donna.

“Lei verrà portata al sicuro da... Dal De Marzi, domani o dopo.” rispose lui, facendo fatica a dire a voce alta il nome di colui che ormai, che fosse a ragione o a torto, vedeva come un rivale.

“Va bene, allora più la saluterò come si deve e...” sussurrò Caterina e poi, come se si accorgesse per la prima volta che qualcosa non andava, chiese: “Stai bene?”

“Benissimo.” mentì Fortunati, muovendo un paio di passi verso la porta: “Se vuoi, sono pronto ad accompagnarvi alla nuova casa già nel primo pomeriggio.”

Con il plurale usato, l'uomo includeva anche Galeazzo, Bernardino e Sforzino, i figli che la Leonessa aveva concordato a portare con sé, per non lasciarli soli in quella villa, a dover, magari, rispondere della sua assenza, rischiando accuse che avrebbero potuto avere risvolti inattesi e tragici.

“Quando sarò nella nuova casa, verrai a trovarmi qualche volta?” chiese Caterina, alzandosi di scatto e avvicinandoglisi.

Francesco fece un sospiro e ribatté: “Tanto non ti fermerai lì a lungo, no?”

“Che sia un giorno appena o un anno, voglio sapere che tu verrai da me.” insistette lei, prendendolo per un braccio.

Fortunati stentava a riconoscersi. Da quando era diventato l'amante della Tigre, era cambiato, in modo irrimediabile, forse. Molte cose che prima lo sfioravano appena, adesso lo facevano ribollire come un calderone.

Quasi a volerlo sciogliere, a volergli far promettere che non l'avrebbe lasciata sola, che si sarebbero incontrati e avrebbero passato assieme qualche notte anche nella nuova casa, la Leonessa si sporse in avanti e lo baciò.

Mentre ricambiava il bacio, il piovano si trovò a valutare come, in fondo, la Sforza avesse spostato il suo baricentro da molto tempo, ancor da prima che diventassero amanti, e quella costatazione un po' lo calmò. Si disse che era lei, e solo lei, ormai, lo scopo della sua vita e che quindi era inutile farsi prendere da dubbi e paure. Poteva solo andare avanti.

“Va bene.” cedette, con un sorriso un po' triste: “Resterò in città, quando chiuderanno le porte, così potrò passare a trovarti ogni volta che vorrai.”

 

“Ti ho detto che devi e sottolineo devi dirmi se i nostri figli sono in pericolo.” disse, con fermezza, Semiramide Appiani, parandosi davanti a Lorenzo.

Era dal giorno prima che il Medici era teso come la corda di un arco e sentirsi riprendere a quel modo anche dalla moglie gli diede una fitta dolorosissima alla testa, come se il suo cranio volesse spaccarsi in due.

“Stupida donna!” sbottò, picchiando il piede in terra, ma non osando toccarla per spostarla di peso, benché gli precludesse il passo verso le sue stanze: “Hanno appena chiuso cinque porte cittadine, hanno messo il divieto di far entrare e uscire gente e missive dalla città e c'è il divieto assoluto per chi abita nel contado di vendere o regalare scale a chicchessia e tu mi vieni a chiedere se i nostri figli sono in pericolo?! Tutta Firenze è in pericolo!”

Sarebbe stato inutile, pensava, riferirle ciò che Machiavelli e il Vescovo di Volterra avevano riportato dall'incontro con Cesare Borja. Cosa avrebbe capito di accordi militari, di proposte di creare una lega, di fini equilibri diplomatici..? Per non parlare di accennarle al ritorno di Piero, loro naturale nemico, colui che lui, Lorenzo, aveva fatto esiliare, alla fin fine, costringendo Firenze a scegliere tra lui e il Fatuo...

“Io voglio sapere se i miei figli sono in pericolo per colpa tua!” ribatté la donna, perdendo di colpo la pazienza che, fino a quel momento, aveva cercato di tenere per le briglia: “Non ti ho chiesto se sono in pericolo per colpa del Valentino, o dei francesi o di chissà chi!”

“E perché mai dovrebbero essere in pericolo per colpa mia..?” domandò il Medici, deglutendo e incrociando, per caso, lo sguardo della moglie.

“Perché hai passato anni a riempirti la bocca di Firenze, di Repubblica e tutte quelle belle cose e poi, per provare a distruggere tua cognata, sei stato pronto a vendere questa città tanto ai francesi quanto al papa!” gridò lei, dandogli uno spintone.

Lorenzo, in reazione a quel gesto, afferrò subito i polsi della moglie, per immobilizzarla e impedirle di colpirgli ancora il petto. Nel fare ciò, però, sentì la voce morirgli in gola. Non ricordava l'ultima volta in cui si erano toccati, o anche solo sfiorati.

Gli occhi tondi del Popolano si fissarono in quelli colmi di rabbia dell'Appiani e per un lungo istante entrambi rimasero immobili, intenti a cercare di riconoscere l'altro. Attorno a loro l'aria calda di fine giugno era immobile. I loro respiri erano veloci e tesi, e i loro volti erano trasfigurati dal rancore e dalla collera. Eppure, più si fissavano, più cominciavano a scorgere di nuovo i connotati che conoscevano da sempre...

La città era quasi sotto assedio, la loro famiglia era in pericolo – benché Lorenzo fosse pronto a sostenere il contrario – ed entrambi non si erano mai sentiti soli come in quel momento. Per qualche istante, breve, fugacissimo e crudele, tutti e due rividero nell'altro la persona di cui si erano innamorati da ragazzi, la persona che il destino aveva messo loro accanto e con cui, con pazienza e aiutati dalla fortuna, si erano trovati a costruire una famiglia e, inutile negarlo, un amore profondo.

Il Medici, stringendo ancora i polsi della sua donna, sentiva le tempie pulsare e una voglia che non provava da tempo immemorabile lo prese, annebbiando ogni altro pensiero, facendogli scordare tutto, dalla voglia di vendetta alla paura di incappare in un'accusa di tradimento da parte di Firenze.

Semiramide, che da mesi, o per meglio dire, da anni ormai, cercava un contatto con il marito, si trovava stordita da quell'improvvisa vicinanza. Sentiva il respiro caldo del suo uomo, la sua presenza, il suo odore... Eppure, appena prima di cedere e lasciare che Lorenzo trovasse le sue labbra per darle un bacio che da troppo tempo mancava, l'Appiani provò un moto di repulsione tanto forte e profondo da provare quasi nausea.

Divincolandosi proprio quando il Popolano aveva trovato il coraggio di fare un passo, la donna prese subito le distanze e poi, stringendosi le braccia sul petto, in una posizione di involontaria difesa, sussurrò: “Dovevi pensarci prima.” e poi, schiarendosi un po' la voce e abbassando lo sguardo, concluse: “Ormai è troppo tardi. Hai rovinato tutto: e non puoi dire che non ti avevo avvertito che lo stavi facendo... Adesso è tardi.” e, detto ciò, si portò una mano al volto, per non mostrare al marito le proprie lacrime, e si allontanò.

Fermo, incredulo e tremendamente stanco Lorenzo guardava verso il punto esatto in cui fino a poco prima c'era l'Appiani. Non credeva possibile di essere arrivato a quel punto, eppure lo sapeva da tempo che Semiramide non lo vedeva più come l'uomo che aveva sposato anni prima...

Premendosi le mani sulle tempie, frastornato da un'emicrania che stava diventando così pressante da togliergli quasi il fiato, il Medici riprese a camminare a passo svelto, diretto nelle sue stanza.

Quando fu solo, però, invece di mettersi a ragionare, come avrebbe voluto, sulla sua situazione, sulle prossime mosse da fare per riprendersi in via definitiva tutti gli immobili e i soldi che gli spettavano e che ora erano come congelati in attesa di una risoluzione in suo favore – o, non voleva nemmeno pensarci, in favore di Caterina Sforza e del bambino che sosteneva essere figlio di Giovanni – si trovò steso a letto, preda di un dolore folle al capo e non riuscì a far altro che stringere gli occhi e stringere i pugni per ore, fino a che, poco per volta, la cefalea allentò la sua morsa e lui si sentì di nuovo moderatamente padrone di se stesso.

Quando si sentì in grado di rimettersi in piedi, si alzò lentamente, arrivò fino alla scrivania e cominciò a vergare una missiva diretta ad Alberto De Marzi, attualmente a capo della servitù della villa di Castello. Era già a metà lettera, aveva già avanzato un sacco di richieste, tra cui che la Tigre riprendesse a pagare il vecchio debito che aveva con lui, riguardante le rate per mantenere la custodia di Giovannino, quando si ricordò che, chiuse le porte di Firenze, nessun messaggio poteva entrare o uscire dalla città. Colto da una rabbia tanto profonda da fargli uscire un ringhio dal petto, prese la pagina, la strappò in mille pezzettini e li lanciò in aria.

Quando lasciò la scrivania, schiumante di collera, la cefalea riprese e fece appena in tempo a ricoricarsi, prima di perdere conoscenza.

 

   
 
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