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Autore: Yellow Canadair    13/04/2022    4 recensioni
Lucci, Kaku e Jabura si svegliano nudi in un laboratorio sconosciuto. Dove sono? che è successo al resto del gruppo? perché non riescono più a trasformarsi? Tutte domande a cui risolvere dopo essere scappati, visto che sono giustamente accusati di omicidio plurimo.
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Nefertari Bibi è sparita da Alabasta: Shanks il Rosso l'ha portata via per salvarla da morte certa, perché qualcuno vuole il suo sangue per attivare un'Arma Ancestrale leggendaria. Ma i lunghi mesi sulla Red Force suggeriscono a Bibi che forse chiamare i Rivoluzionari potrebbe accelerare i tempi...
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Intanto Caro Vegapunk ha una missione per gli agenti: recuperare suo padre, prigioniero nella Sacra Terra di Marijoa. Ma ormai Marijoa è inaccessibile, le bondole sono ferme, e solo un aereo potrebbe arrivare fin lassù...
I Demoni di Catarina, una long di avventura, suspance e assurde alleanze in 26 capitoli!
Genere: Angst, Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Nefertari Bibi, Rob Lucci, Shanks il rosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Diversi mesi dopo…

 

Bibi Nefertari era abituata ad essere presa sul serio.

Era la regina di Alabasta, ultima discendente della sua stirpe, era una ragazza colta e curiosa, cresciuta circondata da persone che avevano fiducia in lei, pronti sia a incoraggiare le sue imprese sia a darle saggi suggerimenti.

Quando era stata al Reverie, si era ritrovata fra altri regnanti come lei, alcuni gentili e disponibili, altri seriosi e schivi, altri apertamente derisori, che non vedevano l’ora che lei mettesse un piede in fallo (una risata troppo forte, una parola di troppo) per denigrarla e metterla in imbarazzo.

Eppure gli occhi di quegli uomini, così seri e profondi, dentro di sé la mettevano enormemente a disagio.

Shanks e Benn Beckman l’avevano ascoltata pazientemente, facendo qualche sporadica domanda, qualche osservazione, ma per il resto l’avevano lasciata parlare a ruota libera, senza freni.

Alabasta, il Reverie, il colpo di stato fallito.

Crocodile, le principesse, Sabo.

La Marina, il Cipher, i Rivoluzionari. 

Shanks aveva cominciato a scuotere la testa verso il finale, quando aveva cominciato a capire dove volesse arrivare la regina.

«...quindi, se voi avete intenzione di uccidere Im… potrebbe essere la migliore occasione per deporre i Draghi Celesti!» aveva concluso.

«Noi siamo pirati, vecchi lupi di mare.» avversò Shanks. «Non abbiamo nessun vantaggio, nel rovesciare il Governo.»

Bibi si sporse di più sulla sedia. «Ma siete gli uomini più potenti del mondo!» esclamò. «Voi, e Drakul Mihawk, e il signor Rayleigh...»

Benn ridacchiò e disse a Shanks: «Ce lo vedi il tuo compare, a dichiararsi re del mondo?»

«Piuttosto si fa mangiare un braccio anche lui.»

Bibi si sentì perduta, priva dell’appoggio: era sicura che l’idea di rovesciare il Governo Mondiale avrebbe fatto gola ai predoni del mare. Tentò ancora: «Ma saremo tutti lì, a Marijoa… il trono vuoto, Im morto… tutti i soprusi del Governo Mondiale, e la posizione dei Cinque Astri della Saggezza...»

«Conosco molto bene quella situazione, regina Bibi, credimi.» sospirò pesantemente il Rosso.  «Questa storia, dell’uccidere Im… lo facciamo solo perché siamo gli unici in grado di farlo.»

Benn prese la parola: «Non è una missione di pace, o un atto eroico… Im vuole distruggerci tutti, e noi non abbiamo intenzione di morire come topi. Tutto qui. Ma non vogliamo essere coinvolti in rivolte che non ci appartengono, e che ci porterebbero più rogne che altro.» 

Bibi chinò la testa, sentendosi una stupida. Beh, erano pirati, no? mica rivoluzionari. Che scema che era stata, pensando che potevano…

Shanks le sfiorò delicatamente una mano per attirare la sua attenzione. 

«Da quanto tempo ci conosciamo?» le chiese con gentilezza. 

Bibi rispose sommessa: «Dieci mesi e mezzo.» 

Quasi un anno di vita in mare, sulla bellissima Red Force, a nascondersi durante le battaglie e a travestirsi quando sbarcavano, per non farsi riconoscere. 

Ma anche un anno di feste pirata, di cene sotto le stelle, di salsedine e di libertà. 

Di Shanks che le offriva da bere, di Yasopp che le raccontava storie meravigliose, di Benn che si sedeva accanto a lei e le faceva compagnia quando di dormire non c'era verso. 

«In questi dieci mesi e mezzo hai mai avuto l'impressione che sarei un buon capo del governo mondiale?» chiese il Rosso. 

Bibi stirò le labbra, pensosa. No, capo del governo mondiale proprio no. Shanks era un pirata nell'animo, e non poteva vederlo in nessun altro ruolo. «No, direi di no.» ammise. 

Il capitano sorrise e le disse: «Però anche io ti conosco da quasi un anno… e penso che potresti essere tu, a deporre i Draghi Celesti.»

 


 

 

 

 

Capitolo 3

Risveglio


 

Maledizione. Quanto tempo aveva dormito?

La testa gli faceva male, si sentiva il cervello intorpidito. 

Aveva bevuto? 

Freddo. Merda, che freddo.

Dove diavolo era?

Un odore di umido e di disinfettante gli trapanò il naso.

Tossì, puntò mani e ginocchia a terra per sollevarsi. Era su un pavimento freddo.

Jabura si tirò a sedere, tenendosi la testa con la mano destra. Cazzo, che era successo? Schiuse gli occhi: era nero davanti a lui, non vedeva niente. 

La testa gli ronzava, come se avesse dormito troppo e ora non gli si collegassero i pensieri. Si strofinò gli occhi, aprì la bocca per prendere aria. Era un post-sbronza?

Un brivido gli scivolò addosso, sui muscoli tesi e freddi, si toccò il petto, poi il ventre, scese ancora fra il pelo sempre più fitto, finché...

«Ma cosa cazzo…?» mormorò.

Era nudo.

Era completamente nudo in una stanza buia e fredda, i gioielli erano drammaticamente posati sulla pietra. Si alzò in piedi, confuso. Si appoggiò al muro di pietra con l’avambraccio.

I capelli, lunghi e neri, gli caddero sulle spalle come un mantello. Non c'erano gli occhiali da sole a trattenerli.

Si guardò attorno, non c’era nessuno. Si tolse le ciocche dal volto e avanzò di qualche passo.

Non era completamente al buio, c’era una lampada ad olio accesa, a qualche metro da lui. Il problema era che tra lui e la lampada c’era una cancellata nera e spessa: era in prigione! Era in una stanza quadrata e non troppo grande, ma una parete era composta da una grata e non c’erano dubbi: qualcuno l’aveva sbattuto in galera!

Il Lupo afferrò le sbarre: non erano di agalmatolite, le poteva toccare senza problemi.

Ghignò.

Chiunque l’avesse chiuso lì, era un idiota. Non ci avrebbe messo nulla a liberarsi.

Però aspettò a fare azioni avventate, e preferì guardarsi attorno con attenzione. Dov’era? Ricordava Catarina, ricordava casa sua… ricordava Kumadori, la confusione, quello scemo di gatto idrofobo (mai e poi mai avrebbe concesso a Rob Lucci gli onori del nome anagrafico)… il mare, le isole, Califa. Lilian, il bar di Gigi L’Unto, Blueno, le galline… le cose gli venivano in mente alla rinfusa, ma non aveva idea di come fosse arrivato fin lì. 

Oh beh. Come se contasse qualcosa. Bisognava uscire: l’uomo vide, alla sua destra, l’imbocco di un corridoio, unica via d’uscita in quello stanzone buio dalle pareti di pietra, e decise di cominciare da lì.

RANKYAKU!!!

«Nah… senza riscaldamento. Che schifo.» mugugnò l’uomo fra sé e sé, guardando i miseri resti della grata della prigione.

Una lama d’aria, spinta dal suo poderoso calcio, aveva falciato con un taglio netto orizzontale la porta della cella, che per la potenza era crollata all'indietro.

A condizioni normali avrebbe polverizzato anche le pareti, ma si era appena svegliato e non aveva capito bene cosa gli fosse successo, non era in forma. Erano venuti via solo i mattoni con i cardini.

Uscì tra la polvere, schivando i frammenti di ferro. Provò a fare il Tekkai ai piedi, per indurirli e non ferirsi sui calcinacci, e riconobbe che riusciva a farlo, quindi proseguì fino a raggiungere la lampada ad olio che dava un bagliore modesto e sinistro.

Normalmente gli agenti non riuscivano a fare il Tekkai e in contemporanea muoversi: era un livello di cui solo Jabura era un maestro assoluto, e farlo per l’ennesima volta gli provocò come al solito un guizzo d’orgoglio.

Decise di sistemarsi i capelli, che sciolti gli davano fastidio: si fece una treccia, e poi per chiuderla in fondo si strappò un capello e lo usò come un laccio. Poteva funzionare. Facendosi la treccia, notò che i suoi capelli erano puliti, il pizzetto e i baffi perfettamente in ordine, le guance rasate, le unghie corte, su un pollice aveva uno sbaffo di inchiostro blu… se l’era fatto nell’ufficio di Califa per errore.

Quindi da quanto tempo era lì? Un giorno? Due giorni?

Però c’era qualcosa che non andava, aveva una strana sensazione addosso.

Dal corridoio arrivò una voce: «Ho sentito un rumore…»

Ah, perfetto. Gente.

Jabura tirò all’indietro le possenti spalle, stirando il petto e inarcando la spina dorsale. Bene, poteva sfogarsi un po’, pensò facendosi schioccare le vertebre del possente collo.

Due uomini arrivarono nel buio della stanza, reggendo due torce. Jabura, in un angolo buio, li osservò attentamente: non erano troppo preoccupati, erano armati di fucili, ma quando videro la grata per terra si spaventarono.

«Ehi bello…» chiamò uno di loro rivolto al vuoto. «Dove sei?»

«Qui, bello… vieni qui!» fece eco l’altro.

«Eheh… “bello” non me lo dicevano da parecchio!» ghignò Jabura uscendo tranquillo dall’ombra alle loro spalle con le fauci sguainate.

I due uomini urlarono terrorizzati. «OMMIODDIO SCAPPA! SCAPPA!!!»

«No, aspettate…»

«È UMANO!!! SCAPPA!!» e si lanciarono al galoppo nel corridoio che li aveva portati fin lì.

Jabura in fretta e furia li seguì.

Avevano detto “è umano”? notò. Quindi prima era un lupo? Si era addormentato mentre era in forma Zoan? Quindi ecco spiegato anche il “vieni qui, bello”, che era stato in effetti pronunciato con quel tono che hanno le persone quando richiamano gli animali.

Maledizione, era un corridore fortissimo, ma non conosceva quei corridoi, e non poteva usare il Soru, o avrebbe perso di vista quei due, che invece sapevano benissimo dove andare e sgattaiolavano in cunicoli che lui vedeva solo all’ultimo!

Sì ma, ragionava Jabura mentre correva per i corridoi di quel posto, perché scappare? Era in forma umana, non doveva sembrare troppo minacc…

Ghignò. Oh sì che sembrava minaccioso, anche come essere umano. E poi magari quei due idioti lo conoscevano, ecco perché avevano reputato più saggio svignarsela a gambe levate. E poi era ancora tutto nudo, pensò compiaciuto. Metteva paura!

All’improvviso, mentre correva, gli arrivò al naso l’odore forte e ferrigno del sangue, e sentì urla e rantoli provenire da un passaggio alla sua sinistra. Lasciò perdere l’inseguimento dei due coglioni e si lanciò in direzione delle grida.

Stava, al centro di uno stanzone, alto e statuario come un dio greco scolpito nel marmo, Rob Lucci. Era a piedi scalzi in un mare di cadaveri e stava rovistando tra i corpi alla ricerca di qualcosa. Anche lui era completamente nudo, e con i capelli sciolti; le gambe atletiche erano coperte del sangue dei suoi avversari, schizzato fin sopra ai glutei, e il segno del governo scolpito sulle sue spalle sembrava sventolare sull’ennesima pila di morti ammazzati.

«Ehi!» gridò Jabura. «Sei qui anche tu!» sputò fuori di getto, con malcelato sollievo.

Lucci alzò un sopracciglio. «Che deduzione brillante.» disse calmissimo. «Mi auguro che sia riuscito a scoprire molto più di così, su questo posto.» disse scendendo dall’umana montagnola.

«Magari se non avessi ucciso tutti i secondini, avremmo potuto chiedere qualche informazione!» si lamentò il Lupo guardando lo sfacelo che regnava in quella stanza e il sangue che rivolava fino ai suoi piedi scalzi.

Rob Lucci fece un soffio sprezzante. «Non sono stato così grossolano.» disse. Calò una mano nel mucchio di cadaveri, e tirò fuori, prendendolo per la collottola, uno dei secondini. «Questo qui si è finto morto per scappare via alla prima occasione.»

A quelle parole l’uomo sgranò gli occhi, terrorizzato. Era sporco del sangue dei suoi colleghi e la sua pelle era così bianca di paura da sembrare quasi azzurra. Il cuore gli martellava in petto così forte che Lucci lo sentiva sotto le dita che lo reggevano. Non aveva nemmeno la forza di scalciare, era abbracciato al fucile come una bambina alla bambola, e non proferiva parola.

«Ah, sì.» notò Jabura. «Vecchio trucco.»

«Dimmi immediatamente dove siamo.» ordinò Lucci.

L’uomo tremò ancora di più, aprì la bocca ma non uscì alcun suono.

Jabura rise, piantandosi i pugni sui fianchi. «Fai ancora lo stesso errore di quando eravamo mocciosi!» stuzzicò il collega. «Prima fai le stragi, e poi non puoi interrogare nessuno perché i superstiti si cagano sotto e non riescono a rispondere!»

Lucci ringhiò, iroso, soprattutto perché l’evidenza dimostrava che Jabura aveva ragione: l’omuncolo insignificante che reggeva per la divisa tremava come una foglia, stava per mettersi a frignare e non sembrava intenzionato a dire molto.

«…Under City.» uscì una voce flebile all’improvviso.

Lucci sollevò l’ometto, e Jabura si piazzò davanti a lui con un bel ghigno stampato in fronte, mentre quel poverino con gli occhi sgranati non riusciva a vedere nient’altro che i cadaveri al suolo, e i due agenti del CP0 erano due demoni nudi lordi di sangue, su cui non poteva nemmeno posare lo sguardo, in preda allo shock.

«Oh, che bravo, ti si è sciolta la lingua.» disse il Lupo. «Under City, eh?»

Guardò Lucci, e Lucci gli restituì lo stesso sguardo contrariato. Che ci facevano dall’altra parte del mondo?

Il secondino che si era salvato annuì con forza, e due lacrime gli scesero giù dagli occhi.

«Che giorno è?» chiese con urgenza Rob Lucci.

L’uomo non rispose, scosse la testa in preda al panico.

«Che. Giorno. È.» ripeté duro Rob Lucci, a un passo dall’alzare la voce.

«NON LO SO! È IL SETTE FEBBRAIO! L’OTTO FEBBRAIO! IL NOVE! NON LO SO, LASCIATEMI ANDARE!!»

Rob Lucci lasciò la presa e si rivolse al collega. «Dobbiamo uscire da qui.» e prese a rovistare tra i cadaveri, alla ricerca di qualche divisa della sua taglia.

Anche Jabura fece lo stesso, e alla fine trovarono due soldati corpulenti poco più alti di loro, tra i primi ad accorrere quando Rob Lucci si era risvegliato dalla forma Zoo-Zoo, e tra i primi a morire miseramente appena avevano estratto le armi per fare fuoco.

Si infilarono le loro uniformi sporche di sangue ma ancora in condizioni accettabili. All’altezza del cuore c’erano i buchi dello Shigan che li aveva uccisi, ma non avevano tempo di rammendarle. Quella di Lucci andava un po’ larga, ma bastò tirare su le spalle con fierezza, indossare il cappello sopra i capelli lunghi e lisci, e nessuno si sarebbe mai accorto del difetto, con l’atteggiamento arrogante e sdegnoso dell’agente.

Jabura, infilandosi i calzoni, domandò a Lucci: «Cosa hai intenzione di fare? Qual è il piano?»

«Usciamo. Poi ci penseremo.» rispose Lucci.

«Dobbiamo pensarci subito invece.» avversò Jabura. «Dobbiamo lasciare quest’isola.»

«Non sappiamo nemmeno come muoverci da qui!» sibilò il leader.

«Troveremo il modo!» ringhiò il Lupo. «Abbiamo ammazzato metà delle guardie, pensi che ci faranno una statua o la pelle?»

Lucci ringhiò stizzito. «Hai paura di quattro bifolchi?»

«Ho una brutta sensazione.» disse Jabura. «Siamo ad Under City, vicino alla Red Line, dall’altra parte del mondo, ed eravamo nudi in una cella. Questo posto sembra un laboratorio sotterraneo. Non mi dire che per il grande Rob Lucci, uno dei migliori agenti segreti in circolazione oltre a me, tutto questo è assolutamente normale!»

Lucci non rispondeva. Ascoltava con le labbra strette. Era vero, quella non era una normale prigione: troppa sorveglianza. E nell’aria c’erano odori strani che non riuscivano a identificare, ma che erano senza dubbio chimici.

Jabura preparò l’affondo finale. «E Hattori? Perché Hattori non è qui?»

«Allacciati quella camicia!» ammonì infine Lucci.

Jabura seppe di aver vinto. 

Però si stava infilando la baionetta a tracolla senza chiudersi la giacca e la camicia sul davanti, e lasciando penzolare la cravatta rossa sul petto nudo.

«Allaccia tutto.» ordinò Lucci.

«Ma…» protestò Jabura.

«Non sei credibile. Dobbiamo evadere, ne stanno arrivando altri. Non sappiamo se riusciremo a fronteggiarli.»

«Non sei credibile neanche tu, se non ti prendi un fucile come tutti.» rilanciò Jabura, passandogli un’arma che Lucci afferrò al volo. «E ricorda che se ci trasformiamo, esplodiamo nei vestiti. Non sono elastici neanche un po’.» disse, muovendo le gambe a fatica come a confermare quanto appena detto.

Poi, ringhiando rassegnato, si chiuse i bottoni della camicia, che a stento contenevano i poderosi pettorali, poi la giacca, e infine si strinse malvolentieri la cravatta al collo, come un cappio. Poteva andare in scena.

 

~

 

Jabura e Lucci videro il drappello di guardie sparire nel corridoio.

“Sono andati da quella parte! Sono dei diavoli, attenti!” aveva pianto Jabura, con un’interpretazione degna di Kumadori. “Hanno ucciso il mio povero cugino, io sono riuscito appena in tempo a-”

“Piantala”. Gli aveva tirato una gomitata Rob Lucci. “Sono già andati via.”

Una gomitata come quella avrebbe sfondato le costole a una persona normale, ma né Jabura né Lucci erano persone normali. Jabura aveva fatto il Tekkai senza nemmeno accorgersene, e la botta mortale non era stata che uno spintone, per lui.

Avanzavano nei corridoi dell’edificio e cercavano l’uscita di quel maledetto posto. Non c’erano finestre, era tutto illuminato da fioche luci al neon che sembravano molto male in arnese; la maggior parte sfrigolava e lampeggiava, completamente in crisi.

C’era un odore forte di disinfettante e di alcool.

«Sei mai stato qui?» chiese Lucci, camminando di buon passo.

Jabura aveva dieci anni di esperienza in più, era stato mandato in missione quasi ovunque, ormai. Annuì. «Da ragazzo, fu una delle mie prime missioni. Ma questa prigione non esisteva, sono sicuro.» concluse.

«Non sembra una prigione.» osservò Rob Lucci. «Non ci sono abbastanza celle. Sembra una sorta di bunker di sicurezza, per custodire qualcosa. E L’hanno costruito andando al risparmio.» osservò Lucci. «Le mie sbarre non erano di agalmatolite.»

«L’odore di disinfettante mi ricorda un ospedale o un laboratorio.»

Poi Lucci inchiodò davanti a una porta e fece fermare anche il compare, afferrandolo per il collo della giacca prima che imboccasse delle scale. «Aspetta.»

“Archivio” recitava la targa sull’architrave di una porta chiusa vicino ai primi gradini.

Non ebbero neppure bisogno di usare una delle Tecniche, per aprirla: Lucci semplicemente afferrò il pomello e lo tirò, fracassando con l’eleganza della sua forza quella serratura.

La stanza era buia, segno che si trovavano ancora sottoterra, ma c’era un interruttore. Luce fu: erano in uno stanzone grande quanto un salottino ma, invece di quadri e librerie, le pareti erano piene di schedari metallici fino al soffitto, e al centro, proprio sotto la lampadina che rischiarava tutto, c’era un misero tavolino traballante con una seggiola.

«Cosa cerchiamo?» domandò Jabura.

«I nostri nomi, tanto per cominciare.» rispose Lucci, aprendo il cassetto “Ri-Sa”, che doveva includere anche il suo cognome.

Jabura fece lo stesso con il cassetto che doveva contenere una sua scheda.

«Non sappiamo da quanto tempo siamo qui; sappiamo che siamo stati in forma zoo-zoo, stando a quanto abbiamo sentito dalle guardie, e non si aspettavano che tornassimo umani.» riassunse Lucci cercando la sua tra le cartelle di quello schedario, e contando sulle dita.

«I miei ultimi ricordi si fermano a settembre… quella guardia ha parlato di febbraio. Siamo qui da cinque mesi?» ipotizzò Jabura. «No, è più probabile che fosse sotto shock, e che siamo qui da pochi giorni, perché siamo tutti e due sbarbati. A meno che qui non passi il barbiere ogni giorno.» si corresse passandosi una mano sulle guance lisce e sui baffi regolati ad arte.

Lucci mosse un’obiezione: «Ma quest’isola è lontana settimane di navigazione da Catarina, e io non ricordo di essermi mai mosso da Catarina!»

Anche lui stava rovistando alla ricerca di documenti su di sé. Finalmente li trovò, e con un’esclamazione di vittoria li sfilò dalle altre schede.

Intanto anche Jabura aveva trovato la sua cartella.

Poi, quasi contemporaneamente, trattennero il fiato e si guardarono l’un l’altro.

 

~

 

«Dobbiamo trovare Kaku.» ruggì Lucci lanciandosi di nuovo nei corridoi che avevano appena percorso. «Troviamolo, e torniamo a casa.»

«Pensi davvero che sia ancora qui?»

«È la cosa più logica.» sussurrò il boss. «Siamo stati deportati tutti e tre, no? E la sua cartella personale dice che è tenuto prigioniero al livello appena sotto il suolo…»

«È assurdo…» mormorò Jabura scuotendo la testa.

«LO SO.» chiuse la questione Lucci.

Avevano tante domande, ma dovevano per prima cosa sbrigarsi a trovare Kaku, se c’era, e andarsene. Camminarono per un altro corridoio, evitando o sviando le guardie che mano a mano incontravano, o seguendole all’occorrenza. 

«Potremmo chiedere a loro…» osservò Jabura.

«Troppo rischioso.» lo chetò Lucci. «È meglio cercare la strada da soli. Non possiamo fidarci certo dei nostri carcerieri.»

Così i due continuarono a cercare per i corridoi la cella di Kaku, mantenendo un profilo più basso possibile ma contemporaneamente facendo prima che potevano, per evitare di essere scoperti. 

«Tieni gli occhi aperti.» ammonì il boss. «Se le guardie capiscono il trucco, la copertura è saltata.»

Camminarono per diverso tempo, ispezionando stanze e nascondendo i cadaveri mano a mano che li creavano. Ogni tanto trovavano qualche povero disgraziato, nudo come un verme, dietro le sbarre. Lucci all'inizio li aveva ignorati, ma Jabura aveva tirato un Rankyaku e aveva distrutto le loro gabbie, mentre quelli ringraziavano adoranti.

«Tutta questa beneficienza all’improvviso?» lo schernì Lucci.

«Idiota.» lo rimbeccò Jabura. «Più prigionieri evasi, più casino, più speranze per noi di filarcela.»

 

~

 

«Funzionerà?» sussurrò una guardia giovane, di nemmeno trent’anni. Oppure di vent’anni portati malissimo. Non è importante, ai fini della storia. La guardia era entrata da poco nella vigilanza di quel posto.

«Forse sì.» rispose rauco il più anziano di tutti i secondini. «Purtroppo non abbiamo scelta. Nessuno aveva previsto che si sarebbero svegliati di nuovo.»

Osservavano con timore quella giraffa, che giaceva sgraziata a terra, con il lunghissimo collo che arrivava fino al muro opposto. Si trovavano circa due piani più su di Lucci e di Jabura, quasi al livello del terreno, ed era lì che Kaku era stato rinchiuso.

«Ma è proprio sicuro che…»

«Ne sono sicuro e non possiamo correre rischi. Questo è uno di loro. Se si sveglia, ci ammazza.» disse gettando da parte il fucile con cui aveva sparato il tranquillante e passandosi una mano nei corti capelli grigi.

La giraffa aveva un dardo dal pennacchio rosso conficcato nel collo. Gli animali, ossia le persone con un Frutto del Diavolo di tipo Zoo-Zoo, bloccate in quella forma, si stavano rapidamente ritrasformando. Due di loro stavano devastando i piani inferiori, quindi bisognava prevenire che succedesse la stessa cosa anche lì, al primo livello.

«Questo qui completa il terzetto. Sono arrivati insieme, erano agenti governativi. Appena torna in forma umana, sbrigati con quelle corde: bisogna legarlo prima che abbia la possibilità di contrattaccare.»

«Non possiamo ucciderlo ora?»

«Sono troppo preziosi, servono ancora per gli esperimenti del Comandante!» si arrabbiò il superiore.

I due trattennero il fiato: lentamente, la giraffa perdeva le sue sembianze animali e ritornava umana: il pelo si ritirò fino a sparire, le lunghissime zampe divennero braccia e gambe, la testa sproporzionata ritornò un cranio umano, con un lungo naso squadrato. Il dardo, non più sorretto dai muscoli e dalla pelle della giraffa, cadde a terra con un minuscolo tintinnio.

«È un ragazzo.» disse il secondino più giovane, abbassando il suo fucile. «Gli è rimasto il naso da giraffa.»

Kaku giaceva per terra, nudo e riverso su un fianco, sui lastroni di pietra.

«Legalo, io ti copro con il fucile nel caso si svegli.» ordinò l’uomo dai capelli grigi.

 

~

 

«Carnivori nei livelli inferiori, onnivori agli intermedi, erbivori a quelli più vicini alla superficie.» riassunse Jabura, salendo le scale davanti a Lucci. «Certo che potevi risparmiarlo, è stato gentile.» ridacchiò.

«Era un testimone.» rispose glaciale Lucci.

«Stavo scherzando. È ovvio che andava ucciso.» tornò serio il Lupo, calcandosi meglio il berretto sulla testa. 

«Prima o poi arriverà la Marina. Dobbiamo uscire entro cinque minuti. Concentrati su quello che ricordi di quest’isola, ci serve un posto sicuro dove andare.»

«Ci ho già pensato, genio.» rispose piccato Jabura. «Ma magari non esistono più. Diamine, sono passati quasi vent’anni, da quando feci quella missione qui! Non mi ricordo più nemmeno in che consisteva.»

 

~

 

«Inutile fare il timido, te lo abbiamo già visto quando eri una giraffa... non era un bello spettacolo.» lo stuzzicò il secondino più anziano, ridacchiando e ammiccando all’arnese di Kaku.

A Kaku montò la rabbia, ma non poteva muoversi. Era stato incatenato prima che si svegliasse, e non riusciva a muoversi, i ceppi lo immobilizzavano. Era un’arma umana, avrebbe potuto liberarsi e uccidere le guardie anche senza ricorrere al Frutto del Diavolo, ma i carcerieri erano stati furbi e senza scrupoli, lo avevano reso quasi inoffensivo con un sapiente gioco di nodi e con delle saldissime manette.

Non sapeva che ci facesse lì, non riconosceva la divisa dei due uomini davanti a lui, sapeva solo di essere nudo, in catene e con un vecchio di merda che lo prendeva in giro per il suo Frutto del Diavolo. Era decisamente troppo da sopportare, per essersi appena svegliato!

«Capo, se è un ex agente del CP0, non è meglio non stuzzicarlo?»

«Se è un ex agente del CP0, non si offenderà per così poco.» minimizzò l’uomo.

«Sono ancora un agente del CP0!» riuscì a dire Kaku con fierezza.

I due uomini lo guardarono con superiorità mista a indulgenza.

«Il Cipher Pol è stato sciolto un bel po’ di tempo fa. Sembra che tu sia stato licenziato!»

«Oh no, ancora?» sospirò Kaku.

La porta si spalancò e una risata amara e sguaiata riempì la stanza. «Sciolto, il Cipher Pol? Perfetto, quindi non devo nemmeno preoccuparmi di un richiamo del capo!» disse Jabura facendosi schioccare le nocche.

Lucci lo fulminò con lo sguardo. «La situazione è gravissima e tu sei un idiota.»

«SPARA, PRESTO!» urlò la guardia al ragazzo.

BANG! BANG! BANG!

Jabura si scansò con un rapido Kami-E senza scomporsi.

«Bella mira, te lo concedo. Ma qui siamo ben oltre.» ghignò. «E poi una volta ucciso me, ti aspettavi che lui scappasse?» chiese, indicando Lucci.

Lucci scattò in avanti con Soru, prese per il collo il ragazzo e lo inchiodò al muro. «E soprattutto, pensavi di sparare a un agente del Cipher Pol e sopravvivere per raccontarlo?»

«Mi dispiace, eseguivo solo gli… ordini…» mormorò mentre il respiro gli si mozzava in gola, soffocato dalla stretta ferrea di Rob Lucci.

«Non mi aspettavo di vedervi.» disse Kaku.

Ai suoi piedi stramazzò la guardia più anziana, e Jabura si pulì le dita sporche di sangue sui pantaloni. «E invece eccoci qui.» disse prendendo dalla cintura del cadavere le chiavi delle manette di Kaku.

La morte del ragazzo fu più lenta, ma alla fine la vita scivolò via dai suoi polmoni, tra spasmi e sotto lo sguardo vitreo di Rob Lucci.

Il quale, a lavoro ultimato, ordinò a Jabura: «Muoviti a liberarlo, gli ho appena procurato una divisa della sua taglia.»

«Piantala, non è facile infilare la chiave nella serratura così, al buio!» rispose Jabura, accovacciato accanto a Kaku.

«Dove siamo?» chiese il ragazzo, infilandosi i pantaloni che gli passava Rob Lucci.

«In un bunker sotterraneo ad Under City.» rispose il capo dandogli gli indumenti ancora caldi mano a mano che spogliava il cadavere.

«Ti ricordi qualcosa di come siamo finiti qui?» chiese Jabura, a braccia incrociate.

Kaku scosse la testa mentre si allacciava gli scarponi. «Negativo.» ci pensò su, ma aveva come una nebbia che gli avvolgeva il cervello. «Mi ricordo Catarina. Mi ricordo la missione di Brix.» gli balenò in mente. 

«Sì, la ricordo anche io.» disse Lucci. «Eravamo con Fukuro e Kumadori. Ma ricordo anche che siamo ritornati, e Kumadori era contento perché a Brix era inverno fitto, mentre a Catarina faceva caldo, molto più del solito.»

«Ricordo quando siete tornati.» mormorò Jabura. «Però non mi ricordo altre missioni, dopo. Dovevamo avere un periodo di fermo alla base…»

«I nostri ricordi risalgono ai primi giorni di settembre.» disse Lucci, andando verso l’uscita. «Dev’essere successo qualcosa mentre eravamo a Catarina. Tieni.»

Mise in mano a Kaku la sua scheda personale, trafugata dall’archivio del bunker. Kaku lesse rapidamente le ultime righe del report. 

«“Trasportato ai laboratori di Under City in forma totalmente Zoo-Zoo. Non risponde agli stimoli intellettivi”.» oltraggioso!

«Vai oltre.» disse tetro Jabura.

Kaku scorse le pagine, scuotendo la testa. «Sono tutti nomi scientifici di sostanze, non ho idea di cosa…»

«Leggi le date.» disse Lucci.

«Sono arrivato qui a ottobre…» mormorò il ragazzo.

«Adesso guarda gli anni. Guarda la prima e l’ultima data che ci sono scritte.» suggerì ancora il leader.

«“Scheda aggiornata al sette gennaio del…”»

Kaku guardò prima Lucci, e poi Jabura.

Persino Jabura era serissimo.

Infine proferì: «Siamo qui da due anni e mezzo.»

 

 

 

 

 

 

 

 

Dietro le quinte...

ta ta taaaaaan!!! Due anni e mezzo di salto! Il Cipher è sciolto! I protagonisti sono nudi! E hanno già fatto una strage di massa!! E Bibi?? Bibi tenta Shanks con una rivoluzione... ma forse Shanks non è la persona giusta per una rivoluzione! Cosa c'entra Im? Cosa c'entrano i Draghi Celesti? 

Riusciranno i nostri eroi a uscire da questo buco fetente di laboratorio (laboratorio di chi??) e a tornare a Catarina?

Lo scopriremo tra una settimana!

Grazie a tutti voi per aver letto questa storia, spero vi stia piacendo! non esitate a lasciare una recensione, se vi è piaciuta! E un grazie speciale, ovviamente, a chi ha recensito il primo capitolo! 

Buone feste! ~

 

Yellow Canadair

  
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