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Autore: Zobeyde    16/04/2022    5 recensioni
New Orleans, 1933.
In un mondo sempre più arido di magia, il Fenomenale Spettacolo Errante di Maurice O’Malley si sposta attraverso l’America colpita dalla Grande Depressione con il suo baraccone di prodigi e mostri. Tra loro c’è Jim Doherty, l’unico a possedere capacità straordinarie: è giovane, irrequieto e vorrebbe spingere i propri numeri oltre i limiti imposti dal burbero direttore.
La sua vita cambia quando incontra Solomon Blake, che gli propone di diventare suo apprendista: egli è l’Arcistregone dell’Ovest e proviene da un mondo in cui la magia non ha mai smesso di esistere, ma viene custodita gelosamente tra pochi a scapito di molti.
Ma chi è davvero Mr. Blake? Cosa nasconde dietro i modi raffinati, l’immensa cultura e la spropositata ricchezza? E soprattutto, cosa ha visto realmente in Jim?
Nell’epoca del Proibizionismo, dei gangster e del jazz, il giovane allievo dovrà imparare a sopravvivere in una nuova realtà dove tutto sembra possibile ma niente è come appare, per salvare ciò che ama da un nemico che lo osserva da anni dietro agli specchi...
Genere: Azione, Fantasy, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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I QUATTRO STREGONI DI ARCANTA





«Adesso però togliti quell’espressione dalla faccia» disse Solomon. «Sembra che tu non abbia mai visto niente del genere prima d’ora.»
Ma infatti Jim non aveva mai visto una città così, e ne aveva girate parecchie in vita sua: l’unico aggettivo che gli veniva in mente per descrivere Arcanta era senza tempo. Gli edifici erano antichi, sì, ma di un antico che non aveva coordinate specifiche, né temporali né geografiche. Sembravano partoriti dalla mente di un artista visionario, che aveva cercato di dare forma a un sogno scolpito nel marmo bianco e nell’oro; obelischi, colonne, tetti a forma di pagoda e cupole che luccicavano come pepite al sole.
La città sorgeva in un luogo suggestivo, incastonata in una profonda valle attraversata da un fiume; era fiancheggiata su due lati da alte pareti di roccia che scendevano a precipizio, irrigate da cascate e con le sommità ricoperte da fitti boschi. In fondo alla valle, si stagliavano alti picchi innevati che identificò come le Alpi, ma Jim non aveva freddo; era come se l’aria non avesse una temperatura precisa, ma era piacevolmente mite, pulita e impregnata del profumo di resina e aghi di pino.
Mentre era ancora preso da quel paesaggio da fiaba, Solomon estrasse l’orologio. «Non perdiamo tempo, la Prova dell’Oro comincerà fra poco. Vieni, prenderemo il primo velodrago disponibile per la Cittadella, non possiamo usare il salto fin là.»
Dopodiché, lo guidò giù per una scala di pietra su cui si riversavano fiotti di bouganville; il parco in cui il Meridiano li aveva trasportati sembrava a sua volta una città distribuita su vari terrazzamenti, ognuno dei quali conteneva un micro-ecosistema di piante, insetti e uccelli. Mentre percorrevano un viale ombreggiato da palme, dei buffi pennuti simili a piccioni obesi attraversarono loro la strada starnazzando come oche. Incuriosito, Jim ne avvicinò uno, che però quasi gli staccò un dito col becco affilato.
«Non importunare i dodo» lo riprese Solomon, senza fermarsi. «Se dai loro confidenza poi non te li togli più di torno.»
Superarono i cancelli d’oro dell’Arboreto, maestosi come quelli di un palazzo imperiale, e si ritrovarono in una sorta di stazione ferroviaria ma senza rotaie, dove si era riunito un gruppo eterogeneo di persone, maghi e streghe indiani, caucasici, arabi, africani e asiatici. Vestivano abiti sgargianti ed erano tutti incredibilmente belli, ma le loro facce avevano qualcosa di strano: le iridi avevano colori eccessivamente brillanti, la pelle era priva di imperfezioni, i capelli tinti di assurde tonalità come se indossassero parrucche.
Sembrava che fossero in attesa di qualcosa e quando Jim domandò al maestro cosa stessero aspettando, un suono stridente riverberò nell’aria e subito dopo un’ombra oscurò il sole.
Jim alzò la testa e non riuscì a trattenere un’imprecazione, quando una creatura color bronzo planò verso la banchina; aveva una forma sinuosa, come quella di un serpente d’acqua, con ali sottili e il dorso irto di aculei. Non era più grande di una locomotiva, ma Jim ne fu così impressionato che rimase congelato sul posto con gli occhi sgranati.
Nell’istante in cui la creatura atterrò davanti alla banchina, generando un notevole spostamento d’aria, posò delicatamente a terra un grosso vagone di metallo, a cui stava saldamente aggrappato con le zampe posteriori provviste di artigli. Le porte del vagone si spalancarono per lasciar entrare i viaggiatori, ma quando Solomon si avvicinò Jim ebbe qualche esitazione a seguirlo.
«Sali, stai attirando l’attenzione» incalzò lo stregone. «Non c’è niente di cui aver paura…»
«Col cazzo che salgo! Quello è un drago?!»
«Tecnicamente sarebbe una viverna. Ma è del tutto innocua. Ti dai una mossa o no?»
Jim inghiottì le sue perplessità assieme alla poca saliva rimastagli e saltò sul predellino prima che le porte si chiudessero ermeticamente. Solomon trovò due posti liberi accanto al finestrino e, mentre la creatura si issava nuovamente in volo, Jim si aggrappò con forza al sedile; avrebbe tanto voluto che anche lì ci fossero cinture di sicurezza ma, ahimè, non ne vide.
«I veri draghi si sono estinti secoli fa» spiegò lo stregone sottovoce. «Gli esemplari che vedrai qui sono stati creati in laboratorio dagli alchimisti, partendo da fossili; possiedono una runa, stampata da qualche parte, che permette loro di controllarli.»
«In pratica questi alchimisti sono un po’ come degli scienziati?»
«Non dire la parola con la s» bisbigliò lui. «Lo sai che è tabù. Però sì, sono dediti alla ricerca e alla sperimentazione: il Cerchio d’Oro è il vero motore di Arcanta, ecco perché è così influente.»
C’era troppa gente a portata d’orecchio per continuare la conversazione in tranquillità, perciò, Jim represse le vertigini e guardò fuori dal finestrino; Arcanta sfilava sotto di loro, con le sue vie tortuose, le vaste piazze affollate, le scalinate ripidissime, gli anfiteatri e i giardini. Sembrava impossibile che una città tanto vasta fosse contenuta tutta in una gola così stretta. Si imbatterono in altri velodraghi, che attraversavano la valle trasportando altrettanti vagoni stipati di viaggiatori e tutti sembravano andare nella stessa direzione.
A un tratto, il velodrago compì una virata per aggirare un promontorio di roccia e fu inghiottito dall’ombra di un imponente edificio bianco: una gigantesca torre a spirale culminante con una cupola in vetro e acciaio, luminosa come un faro.
Jim dovette piegare la testa all’indietro per abbracciarla per intero con lo sguardo; era la stessa che aveva visto in foto sulla prima pagina dell’Oraculum. La Cittadella.
Lì, da qualche parte, c’era la sede del famoso Decanato e del Cerchio d’Oro.
Lì avrebbe rivisto Alycia.
Il velodrago scese di quota e dopo aver compiuto almeno sette giri intorno alla torre – era davvero immensa –, finalmente atterrò. La gente scese a frotte inondando il marciapiede di sbarco in un vociare eccitato. Ad accoglierli trovarono una gran folla e ancora una volta Jim ebbe l’impressione che fossero tutti belli in modo artificioso, quasi disumano. Esibivano sorrisi davvero troppo bianchi e nemmeno l’ombra di una ruga. La cosa iniziava a metterlo a disagio…
La Cittadella svettava proprio sopra di loro e all’ingresso vi erano tre statue così colossali che Jim dovette ripararsi gli occhi dal sole quando alzò lo sguardo per vederne le facce. Il primo, con tratti mediorientali e un turbante in testa, aveva tra le mani un libro. Il secondo portava una lunghissima barba e reggeva una bilancia e il terzo, imberbe e vestito alla greca, impugnava una spada.
Erano Farabi, Malachia e Tolomeo, i tre Fondatori. [1]
Ai lati delle statue fluttuavano nel vento degli stendardi neri, sui quali era ricamato lo stemma di Arcanta: gli attributi dei Fondatori, libro, bilancia e spada, più tre api d’oro.
Accanto a Jim, Solomon stava sistemando la giacca con aria nervosa; sembrava proprio che il loro arrivo non fosse passato inosservato e molti, riconoscendolo, avevano iniziato a bisbigliare e a indicarlo, tant’è che presto il nome di Solomon Blake risuonò svariate volte fra la folla. La cosa pazzesca era che il loro vociare conteneva una moltitudine di lingue diverse, ma nel momento in cui Jim prestava attenzione a ogni discorso si accorse di capire perfettamente cosa si dicevano:
«È proprio lui! Non pensavo che sarebbe più tornato!»
«Ma certo che è tornato! Sua figlia si sottoporrà alla Prova dell’Oro, era sull’Oraculum questa mattina.»
«E il giovane che è con lui?»
«Che possa trattarsi del suo nuovo apprendista?»
«SOLOMON BLAKE!»
Jim e Solomon si voltarono in sincrono: la folla, sconcertata da quell’improvviso ruggito, si aprì per lasciare spazio a un ometto magro, che stava venendo verso di loro a passo di marcia. Aveva i capelli azzurri sparati verso l’alto come se avesse preso la scossa, la carnagione color caramello e indossava una tunica viola svolazzante.
Lo sconosciuto giunse di fronte a loro con un’espressione talmente torva e con un tale furore, che Jim arretrò istintivamente.
Solomon invece si limitò a sollevare il cilindro in segno di saluto.
«Che la conoscenza ti illumini il cammino, Macon...»
«Oh, piantala con queste stronzate!»
L’ometto lo inchiodò coi suoi occhi di colori diversi: uno era verde brillante, l’altro marrone, entrambi cerchiati da un vistoso trucco dorato.
«Come ti permetti!» Era incredibile che un uomo così minuto potesse produrre una tale esplosione sonora. «Con che faccia ti ripresenti qui?»
Jim si volse verso Solomon, allarmato; quello strano tipo doveva essere Macon Ludmoore, l’Arcistregone del Sud. E aveva l’aria di volerlo prendere a pugni o peggio proprio lì, di fronte a tutti.
Lo stregone però continuava a ricambiare il suo sguardo con espressione indecifrabile.
«Con una faccia migliore della tua, poco ma sicuro.»
Macon Ludmoore sollevò le sopracciglia celestine.
«Non si direbbe, stai invecchiando. Ne sei in grado persino tu a quanto pare!»
«Dicevi sempre che ero vecchio anche a diciassette anni.»
Si fissarono per un lungo, teso istante negli occhi. Poi, scoppiarono a ridere e si abbracciarono. Jim era allibito.
«Ah, accidenti a te!» esclamò Macon, mettendo un braccio attorno alla vita di Solomon, che lo superava di una testa buona. «Giuro, quando mi hanno detto che saresti tornato non ci potevo credere! Ti sei fatto proprio desiderare!»
«Mi conosci: preparavo un’entrata a effetto» replicò Solomon con un sorriso smaliziato.
L’attenzione di Macon si spostò su Jim e un brivido d’ansia gli serpeggiò sulla nuca.
«È lui, vero?» chiese in tono eccitato. «Quello di cui parlano tutti?» 
«Lui è Winston» rispose semplicemente Solomon. «Winston Cavendish, il figlio di Roland. Ti ricordi di loro, vero?»
«Ah» fece Macon, con una smorfia malcelata. «Sì, me li ricordo: nessuno li sopporta. Strano vederne uno a un evento del genere.»
«Non ci sopportiamo neanche tra di noi» disse Jim. «Pur di stare alla larga dai miei andrei a convivere con un velodrago.»
Gli era venuta così, d’istinto e sebbene non fosse una battuta concordata, sembrò divertire l’Arcistregone del Sud.
«Questa è bella!» ridacchiò. «Un Cavendish col senso dell’umorismo! Perché diamine lo hai tenuto nascosto finora?»
«Nascosto? Oh, siamo solo stati molto presi dalle nostre ricerche» replicò Solomon con leggerezza. «Arcanta mi è sempre stata stretta: perché passare la vecchiaia chiuso in biblioteca quando il mondo offre così tante cose da scoprire?»
Se la stavano cavando piuttosto bene, pensò Jim. Forse, in fondo il maestro si era preoccupato eccessivamente, se i suoi colleghi erano tutti così alla mano.
«E che mi dici della piccola Alycia?» riprese Macon con calore. «Sembra ieri che si intrufolava dappertutto come un topolino e adesso sta per essere sottoposta alla Prova dell’Oro! Devi esserne orgoglioso! So anche che è diventata una donna davvero incantevole.»
«Il tempo vola» convenne Solomon. «È sempre difficile accettare che i ragazzi crescano così in fretta.»
«Anche noi siamo stati ragazzi» intervenne una voce femminile. «E adesso guardatevi: siete lì a rivangare i tempi andati come due vecchietti.»
Una donna alta, bionda, e con in testa un cappello con veletta aveva appena fatto la sua comparsa in mezzo a loro; la sua pelle era bianca come panna, le forme sinuose fasciate nella seta verde, e un sorriso ironico le aleggiava sul volto senza età. Era così affascinante ed emanava tale aura di potere che sembrò eclissare ogni altra persona attorno a loro, e Jim capì immediatamente che si trattava di Una Duval, l’Arcistrega dell’Est.
Solomon le fece un baciamano galante. «Nel tuo caso sembra che il tempo si sia fermato, Una. Sei sempre la stella più abbagliante.»
«E tu il solito mascalzone insolente» replicò la donna, con voce di seta. «Non immaginavo saresti venuto alla fine. Credevo ne avessi abbastanza di Arcanta, e soprattutto di noi.»
«Pare proprio che questa città abbia ancora qualcosa da offrire» replicò Solomon con un’alzata di spalle. «Inoltre sono sempre un papà e per la mia Alycia farei qualsiasi cosa.»
Una gli rivolse un lungo sguardo indagatore, dopodiché anche lei si volse verso Jim, puntando su di lui due inquietantissimi occhi gialli dalle pupille verticali, come quelli dei gatti o dei serpenti velenosi. Occhi da predatore.
«E chi è questo pulcino dall’aria sperduta?»
Jim sollevò un sopracciglio. In vita sua le donne l’avevano chiamato in tanti modi, alcuni molto poco lusinghieri…ma pulcino?
«Winston Cavendish, il mio nuovo apprendista» rispose Solomon tranquillo. «Ma ovviamente, questo lo sai già.»
La strega osservò Jim con più attenzione, dietro la rete di pizzo nero, e lui ebbe l’improvvisa sensazione che una pioggia di spilli gli stesse perforando il cranio.
Sentì ogni pelo in corpo drizzarsi. Solomon lo aveva messo in guardia sui suoi poteri psichici e l’unico modo per resisterle era mantenere il più possibile la mente sgombra, così si affrettò a recitare mentalmente una filastrocca, sperando che bastasse a sviarla.
«Bene» concluse lei in tono enigmatico. «Avremo modo di fare conoscenza.»
Fortunatamente tornò agli altri due, e Jim poté riprendere a respirare. «Dovreste affrettarvi a prendere posto, la cerimonia sta per iniziare.»
«Boris non si unisce a noi?» domandò Solomon con quello che voleva sembrare un tono disinteressato.
«Naturalmente» gorgogliò Una. «Non si perderebbe il debutto della sua favorita per nulla al mondo!»
Solomon mantenne intatto il suo sorriso, ma a Jim non sfuggì che le dita con cui stringeva il bastone erano sbiancate. Ci avrebbe scommesso qualunque cosa che si stava sforzando di non tirare fuori l’orologio.
I tre stregoni e il ragazzo seguirono la fiumana di gente su per delle gradinate di marmo fino all’ingresso della Cittadella, proprio ai piedi delle tre gigantesche statue: ad attenderli trovarono due stregoni e due streghe in uniforme che controllavano i documenti di ognuno. Erano armati di strani scettri con una pietra luminosa sulla punta e solo quando fu abbastanza vicino, Jim si accorse che accanto a ciascuno di loro vi era una imponente armatura di ferro che brandiva una lancia; se ne stavano immobili come statue, ma mettevano decisamente in soggezione. Erano alte almeno due metri e un complesso arabesco di simboli decorava le loro armature; le lunghe picche che stringevano nei pugni metallici avevano lame affilate come rasoi e incrostate di sangue secco. Quando però Jim osservò le fessure nei loro elmi, all’altezza degli occhi, si rese conto che erano cave.
Ve ne erano moltissime, disposte con ordine lungo tutto il perimetro alla base della torre. Sembrava controllassero la folla, attente a ogni insolito movimento.
Il suo cuore cominciò a battere più in fretta.
«Guardiani Silenti» sentì mormorare Solomon. «Hanno addirittura riesumato quei rottami inquietanti per una cerimonia del genere? Chi sperano di spaventare?»
«Cerca di capire» disse Macon a bassa voce. «Non è per spaventare, ma per rassicurare: dopo la Guerra Civile la gente aveva bisogno di tornare a sentirsi al sicuro. Tu non c’eri, non hai idea di che clima regnasse da quando... be’ da quando Lei ha abbattuto le nostre difese. Tempi duri richiedono misure dure.»
«Sì, l’ho sentito dire spesso» fu l’unico commento di Solomon.
Intanto, era arrivato il turno di Jim.
«Documenti, per favore» disse la strega in uniforme con voce atona.
Con lo stomaco annodato e il cuore in gola, Jim occhieggiò timoroso le armature e tirò fuori dalla redingote i fogli ripiegati, augurandosi che Solomon fosse un ottimo falsario. La strega diede una rapida lettura, dopodiché passò la pietra in cima allo scettro sopra la carta. Non accadde assolutamente niente e lei gli restituì il tutto con un formale: «Benvenuto, cittadino.»
Incredibile. Ce l’avevano fatta. Jim resistette all’impulso di svuotarsi in un gran sospiro e girarsi vittorioso verso Solomon, e si affrettò a valicare le porte prima che la guardia ci ripensasse.
Attraversarono un atrio rivestito di marmo ed entrarono in una vasta sala ottagonale dal soffitto a cupola. Il motivo delle tre api d’oro ritornava ossessivamente negli affreschi, nei dettagli architettonici, persino su vestiti, gioielli e acconciature delle signore.
Ancora una volta, alla vista di Solomon molte teste si girarono in sua direzione e subito dopo, per riflesso, su Jim. Era strano, di solito si trovava perfettamente a suo agio sotto i riflettori, ma in quel momento avrebbe dato qualunque cosa perché la smettessero di fissarlo...
Poi però vide Alycia e ogni altro pensiero passò in secondo piano.
Indossava un’austera veste di panno grigia simile a un saio e aveva i capelli tirati sulla nuca. Era più pallida di quanto ricordasse ma sempre bella, e non appena incrociò il suo sguardo tra la folla, gli venne incontro con passo deciso.
Lo stomaco di Jim fece un gran balzo, come se scendendo le scale avesse saltato un gradino, ma prima che riuscisse a formulare qualcosa di intelligente da dire, lei sbottò: «Che diamine ci fai qui?»
Le parole gli morirono in gola. Dopo il loro ultimo incontro, si era immaginato molte volte come sarebbe stato rivederla. Certo, non si aspettava che lei gli gettasse le braccia al collo e gli sussurrasse parole d’amore, dell’imbarazzo sarebbe stato più che normale. Ma non si aspettava neanche di essere aggredito in quel modo.
«Be’ ciao, anche io sono contento di vederti» disse in tono sostenuto «Accompagno tuo padre, visto che sono ancora suo apprendista e ho ricevuto l’invito.»
«Cosa?» fece lei, strabuzzando gli occhi. «Io non ne sapevo niente.»
«Non ci tratterremo a lungo» intervenne Solomon, comparendo al fianco di Jim. «È un momento importante per te, pensa solo alla cerimonia e non preoccuparti di nient’altro. Io e tuo cugino Winston saremo qui in disparte.»
Dopo un primo attimo di smarrimento, Alycia decise di reggergli il gioco, ma la sua espressione rimase tutt’altro che distesa.
In quel momento, le porte d’ingresso si spalancarono e una raffica di vento polare entrò di prepotenza nella sala: subito dopo, comparve un uomo molto alto, dalla barba screziata di grigio e avvolto in un pastrano orlato di pelliccia ispida. Al suo seguito entrarono con passo marziale una dozzina di ragazzi e ragazze, tutti in uniforme nera e argento, accompagnati da una scia di cristalli di ghiaccio.
«Ed ecco Boris!» disse Macon allegramente. «Le sue entrate sono sempre scenografiche!»
Boris Volkov, l’Arcistregone del Nord, venne loro incontro con andatura claudicante, aiutandosi con un bastone simile a quello di Solomon, ma con l’impugnatura a forma di testa di lupo.
«Si direbbe proprio una bella rimpatriata» commentò con voce aspra, simile al suono dell’acciaio che sfrega contro il legno. «Erano secoli che i Quattro non si riunivano nella stessa stanza.»
Si fermò di fronte a Solomon.
«Ciao, Bo» disse l’Arcistregone dell’Ovest in tono cordiale. «Ti trovo bene.»
Volkov scagliò su di lui i suoi taglienti occhi grigi; a differenza dei due colleghi, era evidente quanto la presenza di Solomon gli fosse sgradita e non si sforzava minimamente di nasconderlo.
«Tu invece hai perso smalto» valutò e un ghigno si disegnò sul suo volto, affilato come la lama di un coltello. «Ma forse è solo merito del naso: vanitoso come sei, mi aspettavo che lo sistemassi subito dopo che te l’ho spaccato.»
Jim lanciò un’occhiata tesa al maestro.
«Ci ho pensato, ma pare che le donne trovino affascinanti i piccoli difetti» rispose lui, ricambiando il sorriso.
Boris gli si fece più vicino, scrutandolo con estrema attenzione. «E dimmi un po’, com’è la pensione? Noiosa? Quando finalmente ti deciderai di tornare in azione, sappi che ci sono delle novità su cui dovresti essere messo al corrente.»
«Sono perfettamente informato su tutto ciò che di interessante accade da queste parti, ti ringrazio del pensiero.»
Gli occhi di Volkov divennero due scaglie di ghiaccio.
«Sempre un passo avanti a tutti, eh Corvo Bianco?»
«Ragazzi» li riprese Una, languidamente. «Potrete riprendere a sbranarvi in un altro momento. Oggi è un giorno importante per la tua Alycia, Boris.»
«Certamente» replicò lo stregone, senza smettere di scambiarsi occhiate di fuoco con Solomon. Passò oltre e mise una grossa mano sulla spalla di Alycia.
«Spero che tu sia orgoglioso di tua figlia almeno la metà di quanto lo sono io. Se è arrivata dov’è adesso è solo merito suo: ormai aveva perso le speranze che tu tornassi.»
«E invece sono qui» rispose Solomon, posato come sempre ma stavolta con una punta di freddezza. «E finché sarò in vita, lei sarà sempre la mia Alycia.»
Il suono di un gong chiamò tutti al silenzio, mettendo fine a quella tutt’altro che distesa chiacchierata. L’attenzione dei presenti si spostò verso un portone sulla destra, da cui erano entrati degli uomini vestiti di nero, che sfilarono ordinatamente fino ai dieci scranni di marmo allineati sul podio.
«Devo andare» balbettò Alycia, sgusciando via dalla presa di Volkov. «La Prova dell’Oro sta per iniziare.»
«Buona fortuna» mormorò Jim quando gli passò davanti. Se lo aveva sentito, lei non lo diede a vedere e proseguì senza voltarsi verso il podio.
 
[1] Le loro fisionomie sono ispirate al quadro “I tre filosofi” del pittore veneziano Giorgione.
  
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