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Autore: Violet Sparks    18/04/2022    16 recensioni
Ushijima Wakatoshi pensa di sapere tutto.
Pensa che la sua vita sia una strada dritta, precisa, incontrovertibile. Un percorso duro, forse, ma perfettamente definito, un segmento geometrico con un punto di partenza e un'unica meta, da tenere sempre a mente.
Ma Ushijima Wakatoshi ha dimenticato che, sopra alla strada, esiste il cielo, con un sole bollente che brucia e illumina e non vuole essere ignorato.
La domanda è: lui sarà pronto ad alzare lo sguardo?
***********************************************************************
Una notte come tante, dopo la sorprendente sconfitta della Shiratorizawa, Wakatoshi incontra Hinata Shoyo in circostante bizzarre ed è costretto a trascorrere con lui la notte più assurda della sua vita.
Wakatoshi prova una ostilità viscerale nei confronti del piccolo corvo e non vede l'ora di dividere nuovamente le loro strade.
Peccato però, che il mocciosetto non sia del suo stesso avviso.
E stia per stravolgere completamente la sua vita.
[USHIHINA - Ushijima Wakatoshi x Hinata Shoyo]
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Shonen-ai, Yaoi | Personaggi: Shouyou Hinata, Tendo Satori, Wakatoshi Ushijima
Note: Lemon, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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CAPITOLO XIII
Il lato oscuro della luna
 
La gente ha cicatrici in posti impensabili,
sono come mappe segrete delle storie personali,
diagrammi di tutte le vecchie ferite.
Il dramma è che non tutte le ferite diventano cicatrici,
ce ne sono alcune che non guariscono.
Certe ferite le portiamo con noi ovunque
e anche se si sono rimarginate da tempo,
il dolore resta per sempre.
- Grey’s Anatomy
 
 
 
Wakatoshi arricciò il naso, storcendo la bocca in un’espressione di autentico disgusto.
Non era da lui esibirsi in esternazioni così infantili, così poco educate e anche piuttosto teatrali, ma proprio non riusciva a trattenersi, si guardava intorno e tutto ciò che desiderava era soltanto fuggire da quella specie di inferno in terra.
Ma dove diavolo era capitato?
“Japan, stai bene?”
Il ragazzo non rispose.
I suoi occhi si spostarono lungo la confusione della sala gremita, palleggiando in maniera febbrile tra le macchie di olio translucide sulle superfici dei tavolini, i panini grondanti di salse, i distributori che elargivano bevande schiumose e zeppe di colorante. Il suo stomaco emise qualcosa di simile ad un rantolo di dolore, quando la sua attenzione si catalizzò su ciò che stava avvenendo dietro le spalle dei cassieri - tre ragazzi giovani che schizzavano da una parte all’altra del bancone, le facce paralizzate attorno ad un sorriso fintissimo: chili e chili di pollo fritto che venivano immersi in una vasca di olio bollente, mentre sulle piastre appena di fianco, fascette di bacon sfrigolavano tra le bollicine del loro stesso grasso sciolto, rilasciando un odore talmente acre da insudiciare non soltanto l’ossigeno, ma anche i vestiti, la pelle e qualsiasi altra cosa riuscisse ad avviluppare tra le sue spire.
Stava per vomitare.
“Lo sapevo che non dovevo proporre KFC!” sospirò Hinata, desolato “È la prima volta che entri in un fast-food, immagino…”
“Non pensavo fosse così.”
“Preferisci andare in un altro posto? Ce ne sono tanti in questa parte della stazione.”
“No, va bene qui.”
Era una menzogna bella e buona. Se avesse potuto, Wakatoshi avrebbe alzato i tacchi seduta stante e bollato per sempre quel putiferio di grassi saturi e carboidrati come ‘agglomerato di metastasi ambulante da cui tenersi lontano fino alla morte’, o almeno, avrebbe licenziato il personale e acquistato l’intero immobile, al solo scopo di mettere via tutto quell’olio e poter ridare una dignità salubre ai poveri ingredienti.
Quando il ragazzino aveva proposto KFC, Wakatoshi aveva storto il naso, ma poi, riflettendo brevemente sui pro e i contro, si era reso conto che era la scelta più comoda rispetto alla loro tabella di marcia: entrare in un ristorante avrebbe bruciato loro troppo tempo e non potevano correre il rischio di perdere il treno, considerato che il successivo era programmato per le sei e un quarto del giorno seguente; oltretutto, aveva intuito che Hinata non aveva molto denaro con sé e non sopportava offerte di sorta, sebbene Wakatoshi continuasse a ribadirgli che, per lui, non costituiva affatto un problema.
Stava valutando le offerte di street food dei numerosi stand disseminati in giro per l’area est di Shinjuko, quando il piccolo corvo aveva indicato entusiasta l’insegna bianca e rossa di KFC.
Conosceva la nota catena americana?
Sì, ovviamente, non interagiva molto con il mondo esterno, ma non era certo un alieno!
Aveva mai consumato in vita sua qualcosa di anche lontanamente riconducibile al loro tipo di cucina?
Nemmeno per idea!
Però il tempo era sempre di meno, la fame cominciava a farsi stringente, l’incontro con Oikawa e Iwaizumi gli aveva prosciugato le forze, per cui – alla fine- la comodità aveva vinto sul buon senso.
Che il luccichio gioioso negli occhi del ragazzino avesse contribuito in maniera rilevante a restringere le sue possibilità di scelta, era un dettaglio su cui preferiva non soffermarsi.
“Se vuoi ci sono delle insalate con il pollo grigliato!” provò Hinata, accennando un timido sorriso di incoraggiamento.
Erano in fila, uno accanto all’altro, e Wakatoshi doveva curvare la schiena per riuscire a guardare il suo viso.
Era così piccolo, Hinata Shoyo.
Wakatoshi se ne sorprendeva sempre, forse perché la sua gigantesca energia e l’irrefrenabile dose di caos che egli si portava dentro, finivano per trarre in inganno, portando a dimenticare le sue reali dimensioni.
Non era una questione prettamente di altezza, quella era evidente, soprattutto su un campo di pallavolo, dove i centimetri facevano parte del gioco.
Erano i dettagli, lampi piccolissimi che balzavano agli occhi di Wakatoshi all’improvviso - le orecchie bianche e delicate che facevano capolino tra le ciocche dei capelli, le ginocchia flessibili, le ossa iliache tese sotto la pelle, lo spessore esiguo del costato, oppure, come in quel caso, la linea morbida della sua nuca che si stagliava in mezzo al colletto della felpa.
“Prenderò quella, sì.” rispose allora Wakatoshi, reprimendo il fastidioso crepitio che lo aveva colto alla bocca dello stomaco. Riportò la sua attenzione sul grosso menù attaccato al soffitto, in cerca di un’ancora di salvataggio, ma più leggeva le offerte più si sentiva prendere dallo sconforto.
“N-non per farmi gli affari tuoi, non voglio costringerti a fare cose che non vuoi fare o simili, ma… questi cibi non sono poi tanto male, sai?” L’occhiata che lanciò al piccolino dovette essere fin troppo brusca, perché lo vide sussultare sul posto e ingoiare a vuoto. “Cioè sì, lo so che non sono affatto salutari, però sono… simpatici, ecco!”
“Il cibo non deve essere simpatico, deve permettere il nostro sostentamento.”
“Sì, certo, però può essere anche un piacere, qualche volta!”
“Un piacere?”
“Sì, cioè il cibo non è solo nutriente, è anche… buono! Come il gelato al limone! Non trovi?”
Wakatoshi soppesò attentamente quella considerazione, pensando in cuor suo che, appena qualche settimana prima, forse non avrebbe potuto comprenderla affatto.
Mangiare era sempre stato per lui niente di più che un’azione come un’altra, uno dei tanti anelli di quella catena che ruotava nell’ingranaggio della sua routine tutta uguale, giorno dopo giorno. Non aveva mai pensato al cibo come qualcosa di diverso da un miscuglio di nutrienti necessari al suo fabbisogno giornaliero, eppure da quando cucinava fianco a fianco con il piccolo corvo, era come se dentro di lui si fosse risvegliato il senso vero del gusto, permettendogli di  cose a cui prima non faceva caso: la spinta del sale, il pizzicore del pepe, l’amarezza buona di certe verdure, il dolce pastoso del miele, la pienezza del coriandolo o del cumino.
“Sì, è vero.” acconsentì dunque Wakatoshi, mentre la coda di avventori si muoveva, cosicché lui e Hinata potessero compiere un ulteriore passo verso il bancone.
“Perché non provi a prendere delle patatine?” esclamò all’improvviso Hinata, spalancando le braccia per dare ancora più enfasi alla sua idea malsana.
“Intendi le patatine fritte?”
“Sì! Non tornerai mai più in un posto del genere, no? Potrebbe essere l’occasione per te per assaggiare qualcosa di nuovo!”
Wakatoshi strinse le labbra, per niente allettato dalla proposta del piccolo; tuttavia, non ebbe il tempo di riflettere oltre, dato che ormai era giunto il loro turno.
Sospirò, ascoltando le domande di rito del giovane cameriere – “Buonasera signori, benvenuti da KFC! Come posso esservi utile? Avete già dato un’occhiata al nostro menù? Acqua o bibita?”- e osservando Hinata che ordinava, senza alcuna esitazione, un panino farcito, una coca e una vaschetta di ali di pollo alla paprika.
“Perfetto! E lei, signore? Cosa desidera?” gli chiese a quel punto il ragazzo al bancone, rivolgendo completamente a lui quella sua espressione così statica e zuccherina da apparire vagamente inquietante.
“Un’insalata con pollo grigliato e una bottiglietta d’acqua.” recitò allora Wakatoshi, scandendo ogni lettera per il terrore che l’altro potesse non capire e decidesse di fargli trovare un panino zuppo di olio sul vassoio.
“Va bene! Nient’altro?”
Gettò un’occhiata furtiva in direzione della cucina, nell’esatto istante in cui un’intera confezione di sale veniva gettata su un cesto di patatine ancora sfrigolanti, appena uscite dalla frittura.
Scrollò le spalle.
Ultimamente faceva fatica a riconoscersi.
“E una porzione di patatine fritte, per favore… piccola!”


***
 

Trovarono posto al piano superiore, in una specie di banchetto accanto alle enormi vetrate dello stabile, che davano sul paesaggio metropolitano di Kabuki- Cho, variopinto di mille insegne al neon.
L’area che avevano scelto non era molto illuminata, a causa di qualche faretto rotto proprio sopra le loro teste, inoltre la superficie del tavolo, sporca di rimasugli, necessitò dell’intervento di un inserviente e di un paio di passate di disinfettante, prima di poter essere utilizzata, eppure quando vi si sedette, Wakatoshi sentì i muscoli del proprio corpo cominciare a languire lentamente, allentando la tensione.
Quella giornata bizzarra, caotica, stava giungendo al termine.
Non rimaneva loro che mettersi sul treno e fare ritorno a casa, dove la vita avrebbe ripreso il solito, confortante, corso delle cose, un passo più vicino al momento in cui la sua strada e quella di Hinata Shoyo sarebbero tornate a correre su due rette parallele, destinate a non incontrarsi mai più.  
Lo scrutò di sottecchi dalla parte opposta del tavolo, giocherellando distrattamente con la confezione di insalata: metà del viso del piccolo corvo era sporcata da un bagliore artificiale di colore viola, proveniente dall’esterno, aveva le maniche della felpa tirate su fino al gomito, a scoprire la forma affusolata dei polsi e le sue ciglia lunghe, chiarissime, sfarfallavano con lentezza mentre succhiava della Coca-cola dalla cannuccia di cartone.
Il panino che aveva scelto era così grande che gli servì più di qualche goffo tentativo, prima di riuscire a rifilargli un morso, e quando nell’impresa qualche goccia di formaggio fuso finì per colargli tra le dita, non ci pensò sopra due volte nel portarsi il pollice e l’indice alle labbra.
Wakatoshi sapeva che avrebbe dovuto provare molto più fastidio di quello che effettivamente provò alla vista del gesto – maleducato, inopportuno, infantile- ma la verità era che, in quel momento, la sua mente era invasa da un pensiero tanto illogico quanto intrusivo, che aveva come punto focale il contrasto armonioso del verde della felpa di Hinata con l’arancio sgargiante dei suoi capelli, il bianco latteo della sua epidermide, per cui si limitò a rimanere in silenzio, attendendo pazientemente che quel frastorno lo abbandonasse.
Aprì la scatolina di plastica in cui era racchiusa la sua insalata e le diede una rimescolata veloce, affondando la forchetta in mezzo al fogliame.
Alla fine, non sembrava così malvagia, non differiva molto da quelle che era solito prepararsi da solo a casa, quando non aveva molta voglia di mettersi ai fornelli.
Peccato che lo stesso discorso non valesse per le patatine fritte.
Le studiò attentamente, palpandone la consistenza, scrutandone il colorito brunito, la patina lucida dell’olio freddo.
L’odore era abbastanza neutrale, quindi quanto poteva mai essere cattivo il sapore?
Ne prese una, se la ficcò in bocca in un colpo solo e nel giro di un istante, il suo palato venne invaso dai granelli di sale, poi dalla croccantezza della superficie più esterna, poi ancora dalla pasta farinosa del loro interno.
Era buona?
Non riusciva a capirlo.
Ne assaggiò un’altra e un’altra ancora.
“Allora? Sono così terribili?” proruppe all’improvviso la voce di Hinata, distogliendolo dalla sua analisi certosina.
Alzò la testa di scatto, così notò che il ragazzino lo stava fissando, nascondendo a stento un sorriso divertito dietro al suo panino morsicato.
“Non so decidere…” disse quindi Wakatoshi, sinceramente dubbioso, prima di prendere una generosa manciata di patatine e ingurgitarle, ipotizzando che una dose più grande, magari, avrebbe prodotto maggiori risultati per la sua indagine.
Questa volta Hinata non si contenne, posò il cibo sul vassoio e scoppiò a ridere, piegandosi sul tavolino con le braccia intorno alla pancia.
“Cosa c’è da ridere?” chiese l’asso, stranito più che irritato da quella reazione.
La risata di Hinata aveva un bel suono, somigliava a un sacchetto di biglie che veniva scrollato nell’aria – pensiero che Wakatoshi si ritrovava a formulare più spesso di quanto avrebbe voluto ammettere, ad esempio ogni volta che gli arrivava alle orecchie attraverso i corridoi di casa, e lui immaginava i muri scuotere via la polvere del silenzio sotto quegli accenti.
“Scusa… scusa, davvero… ma la tua espressione… è troppo buffa…”
Buffa.
La sua espressione era buffa.
Nessuno aveva mai associato una parola del genere a lui, soprattutto non con quella leggerezza, con quel grado di confidenza. Ushijima Wakatoshi era il capitano della Shiratorizawa, l’aquila, il super-asso, il ragazzo dei miracoli. Il mondo non rideva dinanzi a lui – di lui, per lui- lo trattava con riverenza, ammirazione, a volte invidia, osservandolo dal basso di quella torre gigantesca che aveva imbastito per proteggere sé stesso da ciò che era superfluo per il suo obiettivo, ciò che era distrazione, intralcio, debolezza.
Quando aveva permesso a Hinata Shoyo di avvicinarsi tanto?
Come era successo?
Perché se ne accorgeva soltanto adesso?
Dov’era la rabbia?
Che fine aveva fatto il fastidio?
Quando si fermava a guardarsi dentro, si accorgeva che, sbiadita l’avversione, adesso non vi era rimasto altro se non un istinto di fuga che non comprendeva, un rifiuto verso il contatto talmente irrazionale e potente da avvicinarsi alla fobia.
Ma di cosa mai poteva avere paura, lui, che in campo non conosceva rivali, non conosceva nemmeno l’angoscia della sfida? Lui che era essere razionale, abituato a incasellare ogni cosa in un posto definito, dove poterla controllare e manipolare nel modo più confacente ai propri bisogni, lui che non faceva, non diceva e non provava niente che non fosse strettamente programmato?
Hinata, nel frattempo, si asciugò le lacrime con il dorso delle dita, intervallando altri ‘scusa’ ai propri singhiozzi e tentando di mettere a freno la propria risata, quantomeno – immaginò Wakatoshi- per recuperare il panino abbandonato sul vassoio prima che diventasse immangiabile.
Aveva le guance di un rosso ciliegia e i suoi occhi erano liquidi come pozze d’acqua, anche se il loro colore era sfalsato dalle luci artificiali della città al di là del vetro.
Ci si era perso, in quegli occhi, Wakatoshi.
Appena qualche ora prima, in mezzo al clamore generale del Tokyo Metrepolitan Gymnasium, lo sguardo intenso del ragazzino lo aveva accalappiato, per poi tirarlo giù, imprigionandolo nei meandri di un abisso che però non intimoriva, al contrario donava un inaspettato senso di conforto.
“È questo che voglio fare, nella mia vita.” gli aveva detto Hinata, esaltato dalla partita in corso, senza un briciolo di paura.
Così, per una volta, Wakatoshi non era stato in grado di eccepire le solite questioni relative alla carenza di tecnica o di preparazione atletica, perché la fede nel futuro di quel ragazzino, all’improvviso, gli era parsa troppo potente per ammettere obiezioni e, al contempo, talmente simile alla certezza che invece albergava nel suo, di cuore, che smontarla avrebbe significato sradicare anche quest’ultima, di conseguenza. 
Forse Hinata Shoyo era un giocatore acerbo, poco promettente, ma amava la pallavolo con ogni fibra del suo minuto organismo, esattamente come lui.
Prese un altro boccone di insalata, insieme a un paio di patatine, dopodiché si addossò allo schienale della sedia, osservando Hinata che riprendeva ad aggredire il proprio cibo, rimasugli sulle dita compresi.
La domanda gli uscì così spontanea che non ebbe il tempo materiale di flirtarla dalla testa.
“Perché hai cominciato a giocare a pallavolo?” pronunciò, attirando subito la curiosità del piccolo corvo che infatti sollevò la testolina aranciata verso di lui, proprio come avrebbe fatto un uccellino su un ramo. Prese un sorso di coca-cola, per aiutarsi a mandare giù la crocchetta di pollo alla paprika che aveva appena ingurgitato, quindi “O-oh! P-perché me lo stai chiedendo in questo modo?” balbettò, prima di pulirsi il muso con un tovagliolino di carta.
“In quale modo?”
“C-come se stessi chiedendo ad un assassino perché ha ucciso la vittima…”
Wakatoshi aggrottò la fronte.
Ok, forse era stato un po' troppo veemente, ma non capiva quella fantasiosa associazione, tanto più che faticava a pensare ad Hinata – mingherlino, innocente – capace di perpetrare qualsivoglia violenza fisica.
“Stavo solo pensando che è illogico che tu abbia scelto la pallavolo.” prese allora a spiegare, modulando il proprio tono affinché apparisse un po' più morbido “Sei abbastanza agile e veloce, saresti riuscito bene in tanti altri sport. Perché hai scelto quello meno adatto alla tua statura?”
Un piccolo, timidissimo sorriso si stirò sulle sue labbra, “P-pensi che io sia agile e veloce?” domandò.
“Sì, non è una cosa oggettiva?”
“Non lo so… però di solito ti soffermi più su ciò che mi manca che sulle mie qualità. Non mi hai mai fatto un complimento.”
Wakatoshi trattenne il fiato per un secondo.
La sua intenzione era quella di esprimere un giudizio effettivo e preciso della situazione di Hinata Shoyo, ciò corrispondeva ad un complimento? Decise che non gli importava, tanto più che spegnere la genuina felicità che stava colorando il sorriso del ragazzino in quel momento, gli pareva terribilmente insopportabile.
“Comunque,” riprese quello, scrollando le spalle “ho scoperto la pallavolo grazie al piccolo gigante, non so se lo conosci! L’ho visto giocare per televisione un pomeriggio, mentre camminavo con la bicicletta e… sono rimasto folgorato!” 
“Parli di Udai Tenma?”
“Sì, proprio lui! Ha portato il Karasuno alle Nazionali per la prima volta nella storia!”
“Sì, è vero. Ricordo di aver visto qualche video delle sue partite: non godeva di una statura particolarmente elevata, ma era forte, aveva una tecnica salda, seppur ancora acerba.” constatò Wakatoshi, ripensando alle impressioni che aveva avuto nel vedere l’idolo di Hinata giocare, grazie ad alcuni dvd che gli erano stati procurati dai manager del suo team “Ti rivedi in lui? Nella sua fisicità?”
“Sì, però non era soltanto questo! Lui… lui era un po' come te… quando giocava sembrava invincibile, come se niente avesse potuto fermarlo… mi ha ispirato a non arrendermi…”
“A non arrenderti rispetto a cosa?”
Hinata ebbe una reazione strana a quella semplice domanda, uno scatto improvviso e brusco, che lo portò perfino a retrocedere di qualche centimetro con la sedia, come un animaletto braccato.
Wakatoshi lo studiò attentamente, cercando di comprendere il motivo di tanto allarme: Tendou gli rimproverava spesso di esprimersi in maniera inopportuna, pur avendo le migliori intenzioni, ma anche esaminando e riesaminando la domanda che gli aveva appena posto, non riusciva a comprendere in quale maniera essa avesse potuto mai causare l’abbattimento e la ritrosia che stava leggendo negli occhi di Hinata Shoyo.
“Ho detto qualcosa di sbagliato?” chiese quindi, non trovando altra via d’uscita dalle sue elucubrazioni.
Il ragazzino si ritrasse nelle sue stesse spalle, sempre più a disagio, “No… no, tranquillo…” mormorò, spostando gli occhi sulla superficie ingombra del loro tavolino.
“Ma sembri turbato.”
“N-non sono turbato!”
“Sì, lo sei, lo percepisco. Non sei capace di nascondere i tuoi stati d’animo.”
“Davvero io… ho detto così per dire! Intendevo che vedere il piccolo gigante, mi ha ispirato a cominciare a giocare e a non arrendermi nonostante la mia bassa statura, tutto qui.”
La versione del ragazzino non convinse Wakatoshi neanche per un secondo, tuttavia la sua difficoltà era diventata talmente evidente che l’asso preferì annuire e lasciar semplicemente morire lì il discorso.
Tornarono a mangiare, lui la sua insalata scondita, le ultime patatine accatastate sul fondo della scatolina, Hinata le poche crocchette di pollo rimaste, spiluccandole con molta meno voracità di prima.
Il chiacchiericcio degli altri avventori rendeva il silenzio fra di loro meno pesante, ma non meno fastidioso, almeno per Wakatoshi che non smetteva di cercare la logica dietro al misterioso comportamento di Hinata.
Ma forse non valeva la pena ossessionarsi in quel modo.
Forse stava esagerando circa le reazioni di Hinata – d’altronde, ultimamente, il suo cervello pareva captarle costantemente, senza alcun motivo apparente, con la stessa precisione di una sonda- forse aveva visto un enigma dove in realtà non c’era.
Guardò l’orologio; non c’era fretta ma, dato che ormai entrambi avevano finito, tanto valeva cominciare ad avvicinarsi al binario del loro treno.
Stava per proporre a Hinata di alzarsi, quando la voce del piccolo – sottile, malferma- arrivò a distoglierlo dai suoi intenti.
“Quando avev-“ le parole gli si incespicarono sulla lingua, prese un respiro profondo, quindi ricominciò “Quando avevo all’incirca sei anni, ho avuto un incidente con mio padre.”
Wakatoshi restò immobile.
Hinata aveva le mani congiunte sul tavolo e gli occhi bassi, puntati sulle sue dita.
“I miei nonni paterni vivevano a Kitakata, nella prefettura di Fukushima, a circa tre ore da Miyagi. Erano troppo anziani per viaggiare o prendere i mezzi di trasporto, per cui mio padre mi portava a far loro visita una volta al mese, per passare insieme la giornata. Era uno dei miei momenti preferiti in assoluto: i nonni erano buoni, giocavano sempre con me e mi regalavano un sacco di giocattoli. Nonno conosceva tantissime leggende, adoravo starlo a sentire, soprattutto quando di pomeriggio ci mettevamo sul patio e lui mi faceva appoggiare la testa sulla sua gamba accarezzandomi i capelli, mentre mia nonna aveva un giardino pieno di fiori, che in primavera riempivano la casa di un profumo buonissimo.”  chiuse le palpebre lentamente, una lacrima piccola, trasparente, gli attraversò la guancia, cadendo sul tavolino.
“Una sera ho insistito per rimanere a cena, non mi bastava mai il tempo con loro. Mio padre era titubante: il viaggio era lungo e il cielo prometteva pioggia, ma alla fine acconsentì. Si raccomandò: un piatto veloce e basta, Shoyo, non possiamo tardare! Ma tra una cosa e l’altra, chiacchierando, ridendo, il tempo passò senza che ce ne accorgessimo. I miei nonni si offrirono di ospitarci per la notte, ma mio padre doveva lavorare l’indomani, era un architetto, aveva un cantiere da portare avanti, pieno di operai che aspettavano le sue direttive, così ci mettemmo in macchina.” il suo corpo venne scosso da un tremito simile a uno spasmo.
Provò ad asciugarsi il viso, ma le lacrime aumentavano invece di diminuire - un fiume senza fine.
“Ha avuto un colpo di sonno a mezz’ora da casa, siamo finiti contro il guardrail. Papà è morto sul colpo, io sono rimasto in coma per otto mesi.”
Wakatoshi era pietrificato.
Si era fermato tutto, il mondo esterno, il tempo, forse il suo stesso sangue, il suo stesso cuore.
Hinata Shoyo stava andando in pezzi innanzi a lui, si stava sbriciolando sotto i colpi di quel dolore antico che pur nel silenzio delle sue lacrime, nella sobrietà delle sue parole graffiate e pronunciate a fatica, sembrava gridare di disperazione e logorare tutta la vita che c’era intorno.
E lui, intanto, se ne stava lì, immobile, non riuscendo a fare altro che non fosse fissarlo a denti stretti, reprimendo impulsi talmente irrazionali che a tratti lo spaventavano, come quello di lanciare da parte il tavolino che li divideva, prendere Hinata e tenerlo insieme, in una qualche maniera, una qualsiasi, non importava quale; oppure rovistargli dentro, cercare il nocciolo della sua sofferenza e gettarlo via, lontano da lui, per farlo tornare il solito ragazzino troppo luminoso e troppo sorridente, facile da detestare.
Ripensò alla sera in cui lo aveva salvato nel vicoletto – la sera che aveva maledetto infinite volte, il centro di ogni suo rammarico. Aveva odiato vederlo sanguinante, spaurito. Anche in quella occasione - ricordava, con una punta di vergogna- si era ritrovato a desiderare cose strampalate come scrollargli di dosso il male che gli stava incupendo lo sguardo, ma adesso era molto peggio.
Il sangue poteva asciugarsi, un osso ricomporsi, la paura sparire.
Un ricordo come si estirpava?
Un dolore del genere come si leniva?
Quale era la terapia?
Dove era la cura?
Esistevano medicine adatte?
“Q-quando mi sono svegliato, non ricordavo niente, è stata mia madre a dirmi la verità qualche settimana dopo. Ho pianto ininterrottamente per tre giorni, e anche quando ho smesso mi sentivo vuoto, non volevo vivere, non ne trovavo il senso. C’era soltanto dolore. Un oceano infinito di dolore… in ogni parte di me.” continuò ancora Hinata, gli occhi rigorosamente chiusi, a fare da setaccio a quelle lacrime quiete che non smettevano di scorrere “Il fatto è che… l’incidente mi aveva provocato dei lievi danni alla colonna vertebrale… i medici mi avevano sottoposto ad un paio di interventi già durante il coma, ma avevo bisogno di un duro lavoro di fisioterapia per riuscire a riacquistare la piena mobilità. Sono rimasto bloccato in ospedale per altri cinque mesi. È stato il periodo più brutto della mia vita.”
All’improvviso, le immagini della sera dell’aggressione trafissero Wakatoshi come dei pugnali affilati.
- Ti prego, io… non mi piacciono gli ospedali, mi fanno paura…-
- No! Non ci voglio andare in ospedale!-
- Tu non capisci, Japan… non puoi capire…-
Quanto era stato stupido, quanto era stato meschino.
Provava soltanto ribrezzo per se stesso e la sua cecità.
“Quando sono stato dimesso, ho cambiato scuola, ne serviva una che fosse abbastanza vicina all’ospedale, dato che continuavo a fare avanti e indietro per la fisioterapia. I medici dicevano che ormai quello che c’era da aggiustare era stato aggiustato ed in effetti, con il passare del tempo, le mie condizioni migliorarono parecchio… anche se non completamente. Era una questione psicosomatica: non guarivo perché, semplicemente, non volevo guarire. Ed era vero. Mi sentivo rotto, ero dilaniato dal senso di colpa: se non avessi insistito per rimanere, quella sera, non si sarebbe fatto tardi e papà non avrebbe avuto quel colpo di sonno. Lo avevo condannato io. Lo avevo ucciso io.
“Quando è stato il momento di scegliere la scuola media, mia madre ha seguito la stessa logica delle elementari, ne ha scelto una che mi permettesse di continuare le mie terapie. Tanto, non avevo tempo per frequentare i corsi pomeridiani, una valeva l’altra.” sospirò, si portò una mano alle labbra per stabilizzare la voce che, di tanto in tanto, finiva per venirgli meno.
“Era tutto nero, pensavo che sarebbe stato così per sempre. Poi un pomeriggio, per caso, su un televisore da esposizione in un negozio di elettrodomestici, ho visto lui, il piccolo gigante!“
“Era molto più piccolo rispetto ai suoi compagni di squadra, sembrava quasi un bambino in confronto agli altri, eppure emanava una forza spaventosa! Era come una stella incandescente, bruciava di orgoglio e possedeva una passione smisurata che bucava lo schermo!”
“Quando ero in ospedale, la mia stanza affacciava su un campo di pallavolo, per cui mi era capitato spesso di vedere dei ragazzi giocare. Sembrava divertente, avevo anche pensato che sarebbe stato simpatico imparare. Ma il modo in cui stava giocando lui era… era diverso da quello che avevo visto! Non era semplicemente pallavolo, era… qualcosa di più! Mi lasciò di stucco! Quando lui saltava per schiacciare sembrava librarsi in volo come un uccello, era leggerissimo, ma allo stesso tempo potente… non avevo alcun dubbio che avrebbe portato a casa il punto, perché pareva inarrestabile. Niente avrebbe potuto fermarlo. Fu allora che pensai: voglio essere come lui! Sono stanco di rimanere incatenato a terra, non ce la faccio più a soffrire! Voglio sentirmi leggero e spiccare il volo! Voglio provare qualcosa di diverso dal dolore! Voglio tornare a vivere, proprio come lui! Lo devo a mio padre…”
Finalmente, un sorriso minuscolo – affaticato, tremulo- stirò le labbra umide di lacrime di Hinata.
Si asciugò il viso, trascinandosi sulle guance le maniche della felpa, passò brevemente una mano tra le lingue di fuoco dei capelli per ravvivarli un po', quindi riaprì le palpebre, ma solo per puntare uno sguardo stanchissimo verso le strade di Kabuki- Cho.
“Da quel momento mi sono rimboccato le maniche. Ho completato il percorso di fisioterapia poco tempo dopo, riacquistando la piena mobilità. Ho imparato le regole del gioco, ho comprato una palla Mikasa, ho cominciato ad allenarmi. Purtroppo, la scuola media che avevo scelto non aveva una squadra di pallavolo, ma questo non mi ha demoralizzato, ho continuato ad esercitarmi. Al momento di scegliere il liceo, ho pregato mia madre di mandarmi alla Karasuno, la squadra del piccolo gigante, anche se era lontano da casa. Ed è stata la scelta migliore della mia vita! Lì sto realizzando tutti i miei sogni! Ho incontrato Kageyama e la mia squadra… ma non soltanto loro! Ho conosciuto anche degli avversari fantastici, che mi hanno aiutato a crescere e migliorare! Tra di loro ci sei anche tu, ovviamente, che sei la persona più simile al piccolo gigante che io abbia mai incontrato!”
A quel punto, Hinata emise un respiro prolungato, come se intendesse sgonfiare il petto dalla tristezza che lo avevo intrappolato fino a quell’istante. Raddrizzò le spalle, scrollò la testa, dopodiché lanciò un’occhiata furtiva verso Wakatoshi e scoppiò in una risata forzatissima.
“Oddio, mi dispiace! Scusami, sono davvero desolato! Non so perché ti ho raccontato questa cosa! Insomma, che diavolo te ne può fregare della storia della mia vita! Mi avevi fatto una semplicissima domanda…”
“No, io…”
“Che stupido! Devi esserti annoiato a morte! Lo so che non ami le chiacchiere, Ushiwaka! Scusami tanto!”
“Non mi hai annoiato, Hinata.” si affrettò a ribattere l’asso, ma aveva la lingua impastata, il cervello in panne.
Si sentiva un mostro.
Da quando lo conosceva, non aveva fatto altro che recriminare al ragazzino la sua scarsa preparazione atletica, la sua mancata prestanza fisica. Era stato severo con lui, addirittura violento con le parole. Lo aveva ignorato, lo aveva allontanato, lo aveva maltrattato. Lo aveva salvato, certo, eppure gli aveva fatto pesare ogni singolo grammo di quell’atto di civiltà. Lo aveva portato in ospedale, eppure aveva odiato prestargli la sua vicinanza e, la seconda volta, aveva perfino rifiutato la sua richiesta di supporto, mentre lui veniva mangiato vivo dai ricordi e dalla paura, con un sorriso sulle labbra.   
“Non so cosa mi sia preso, non racconto mai a nessuno questa storia! L’ho detto soltanto a Suga e al professor Takeda, che aveva accesso al mio fascicolo personale… nemmeno Yachi o Kageyama ne sono a conoscenza… io non…” continuò Hinata, scrollando le mani di fronte a sé con aria desolata.
“Hinata, non ti devi scusare.” lo interruppe allora Wakatoshi, cercando di formulare il suo pensiero in maniera coerente “Io… mi dispiace per quello che ti è successo. E mi dispiace ancora di più per tutto quello che ti ho detto in queste settimane, se avessi saputo io…”
“NO!”
Wakatoshi strinse le labbra.
All’improvviso, lo sguardo ferito, ma caparbio di Hinata Shoyo lo stava trapassando, intenso al punto che gli sembrò penetrare attraverso la pelle e ustionargli le ossa. 
“Ti prego, non lo fare, non lo sopporterei.” disse, più adulto di quanto non lo avesse visto mai “Non so perché ti abbia raccontato la mia storia, ma di certo non l’ho fatto per avere la tua pietà. Mi hai sempre detto tutto ciò che pensavi veramente di me, anche le cose più brutte, e sebbene a volte mi abbia fatto male, questo mi ha spinto a impegnarmi ancora di più. Io avrò anche vinto il torneo di primavera, Ushijima, ma tu sei molto più avanti di me e ho intenzione di assorbire da te tutto quello che posso per avanzare, che tu lo voglia o no. Perciò non è della tua pietà che ho bisogno. Ho bisogno che tu sia te stesso, sempre, al cento per cento.”
Orgoglio, determinazione, passione, ambizione.
Dignità.
Hinata Shoyo diceva di aver scorto in lui le peculiarità del vero asso, di ritenere lui il giocatore quanto più simile al leggendario Udai Tenma verso cui provava tanta ammirazione, eppure Wakatoshi si sentì tremendamente piccolo di fronte a quelle parole, riconoscendo nell’aura incandescente che stava inglobando il corvo del Karasuno, le qualità di cui tanto parlava, e non più in sé stesso.
“Io non provo pietà per te, Hinata Shoyo, non ne ho mai provata e non comincerò adesso.” disse, sincero.
“Ti ringrazio, Japan.” annuì il ragazzino, grato, prendendo a giocare nervosamente con i margini del suo vassoio “Questa… questa cosa che è successa… non deve cambiare niente tra me e te, per favore…”
“Non lo farà.”
Fra di loro calò un silenzio perfetto, che Wakatoshi decide di godersi, spegnendo la testa e il subbuglio che provava alla bocca dello stomaco.
Hinata Shoyo continuava a mettere a soqquadro il suo mondo, le sue convinzioni.
Avrebbe dovuto averci fatto l’abitudine, oramai, ma la verità era che ogni volta era esattamente come la prima - spaventosa, destabilizzante.
Notò che, sulla superficie rossa del tavolino, c’era poco meno di un centimetro fra le loro dita.
Anche quello, gli scaldò il centro del petto sotto le fiamme di un fuoco che non riconosceva.
“Andiamo, adesso, rischiamo di perdere il treno.”
“D’accordo.”
 
***

 
Wakatoshi tamponò il sudore che gli stava gocciolando dalla fronte con l’asciugamano che teneva appoggiato al collo, poi si lasciò cadere sulla panchetta della palestra, osservando i suoi compagni di squadra che finivano gli esercizi di raffreddamento o, come lui, si rifocillavano prima di raccogliere le forze e correre sotto la doccia.
Era stato un allenamento utile ma sfiancante, infatti non vi era un solo muscolo del suo corpo che non fosse dolorante.
Quando avvertì lo squillo del suo cellulare, non si preoccupò nemmeno di guardare lo schermo, era sicuro che si trattasse di qualcuno del suo staff che gli spostava un appuntamento o qualcosa di simile, per questo necessitò di qualche istante per metabolizzare la provenienza della voce squillante che lo accolse dall’altra parte della cornetta.
“Ehi! Japan! Ti disturbo?” lo salutò Hinata, festoso.
“Hinata Shoyo.” convenne Wakatoshi, ancora un po' incredulo “È successo qualcosa? Di solito mi mandi un messaggio, è la prima volta che mi fai una chiamata.”
“Oh! No nulla, è che avevo un momento di pausa e ho pensato che avrei fatto prima a telefonarti piuttosto che a scrivere un messaggio!”
“Non capisco, hai bisogno di qualcosa?”
“No, volevo solo sapere se, alla fine, le patatine fritte di ieri ti hanno fatto così tanto male! Sembravi disperato quando ti sei accorto di aver finito tutta la confezione!”
“Non ero disperato.”
“Lo sembravi però.”
Wakatoshi scosse la testa, mordendo il piccolo sorriso che rischiava di apparirgli sulle labbra e “Ti assicuro che non lo ero.” puntualizzò nuovamente “Sto benissimo, comunque, non ti preoccupare.”
“Allora puoi mangiarle di nuovo, le patatine fritte intendo! Adesso che sai che non fanno male!”
“Non ho intenzione di farlo.”
“Dai! Una volta al mese!”
“Hinata…”
“Va bene, la smetto! Ciao, Japan!”
“Smettila di chiamarmi Japan, non è questo il mio nome.”
“Che?! Ma non ti sei mai opposto, pensavo ti piacesse!”
“Anche se mi fossi opposto, non credo che avresti smesso di utilizzarlo.”
“Certo che sì!”
“Ne dubito fortemente. Se vuoi fare una cosa, è impossibile farti cambiare idea.”
Hinata emise una piccola risata e a Wakatoshi parve quasi di vederlo davanti a sé - gli occhi socchiusi, il mento alto, la faccia che si stropicciava intorno a quel suono pulito e fragile.
“D’accordo, hai ragione! Ma avrei cercato di utilizzarlo meno spesso, almeno!” acconsentì, gioioso “Lo sai che quando sei sarcastico sei quasi simpatico, Jap- cazzo, scusa! Niente più Japan! Nessunissimo Japan, giuro!”
Wakatoshi valutò di rimproverargli quello spergiuro senza consistenza, così come il linguaggio sboccato che poco si confaceva alla sua aria da bambino, ma alla fine scosse semplicemente la testa e lasciò correre, troppo stanco per spendere fiato invano: d’altronde, era da un po' che i suoi rimproveri verso Hinata sembravano aver perso di consistenza, oltre che di efficacia.  
“È Wakatoshi il mio nome, Hinata, chiamami così.” disse però, insieme ad un breve sospiro.
“Davvero?”
“L’ho appena detto.”
“W-Wak-“
La voce del ragazzino si interruppe di colpo, dopodiché ci furono una serie di rumori indistinti, come se qualcuno stesse scuotendo in aria il cellulare con forza.
“Hinata?”
“Allora tu devi chiamarmi Shoyo.”
“Non lo farò.”
“Io credo di sì, invece!”
“Hin…”
“Devo scappare! Ci vediamo a casa, Wakatoshi!”
E riattaccò.
Il giovane asso osservò lo schermo del suo cellulare per qualche istante, ancora tramortito dalla conversazione lampo appena avvenuta, dopodiché si alzò dalla panca e si avviò verso gli spogliatoi con la testa fra le nuvole.
 
Ci vediamo a casa.
Non glielo aveva mai detto nessuno.
Doveva ammettere che il suono gli piaceva.
 
 
 
 


NOTE AUTORE
Sì, avete indovinato: Hinata ha occultato il microfono e si è messo a saltellare come un grillo impazzito, erano questi i rumori che ha sentito Wakatoshi per telefono :P
Per chi non lo sapesse, in Giappone permettere a qualcuno di utilizzare il proprio nome, invece del cognome, è sinonimo di grande fiducia e confidenza. Wakatoshi lo fa più per esasperazione, in realtà, ma non si può dire che non costituisca un evidente passo avanti nei confronti di Hinata!
 
BUONASERA A TUTTI AMICI! BEN RITROVATI
Lo so, è stato un capitolo corposetto, vi passo un bicchiere d’acqua per rifocillarvi!
Vi avevo detto che questo sarebbe stato un passaggio fondamentale per la storia e, immagino, adesso avrete capito il perché delle mie parole!
 
Prima di tutto, Wakatoshi sta avvertendo sempre più chiaramente che qualcosa sta cambiando dentro di sé. Al rifiuto iniziale, adesso si è sostituita una sana confusione verso questi nuovi e misteriosi sentimenti. E così, seppur sempre frenato dalla paura dell’ignoto, c’è indubbiamente qualcosa che lo attrae nei confronti di Hinata, facendo sì che le sue difese siano sempre più deboli. Inoltre, sono dell’idea che condividere un momento così intimo e sentimentale, porti inesorabilmente due persone ad avvicinarsi: Hinata si è messo a nudo e Wakatoshi ne è rimasto profondamente colpito.  
Spero di star rendendo il suo percorso quanto più lineare e realistico possibile.
Il fatto è che, quando prendo in mano il suo punto di vista, mi rendo conto che gestirlo non è affatto facile. Wakatoshi è un ragazzo troppo maturo per la sua età che, in realtà, non sa che nel profondo di sé è ancora bambino sotto mille e uno aspetti: rendere queste sfumature intellegibili è un lavoraccio! ^^’’
 
Dall’altra parte, abbiamo la storia di Hinata, per cui ho deciso di discostarmi dal canone (ergo, è tutta farina del mio sacco! Hinata ha una vita serena nel canone, non vi preoccupate! Sono io la stronza che lo fa soffrire qui!). Non so esattamente cosa mi abbia spinto ad optare per questa versione… il fatto è che, fin dall’inizio, ho avuto l’impressione che la figura di Hinata avesse una vena sottile- quasi impercettibile- di malinconia dentro, così ho deciso di sviluppare questo spunto. Spero che abbiate apprezzato la scelta.
 
Sottolineo anche che, per chi non lo avesse mai notato, anche nel canone Hinata associa il suo idolo, il piccolo gigante, a Ushijima Wakatoshi, non dal punto di vista fisico – ovviamente- ma per l’aura da asso che emana in campo! Scusate, era una cosa tenerissima che mi ha sempre fatto fangirlare da matti: DOVEVO inserirla ad ogni costo!
Comunque, NON ho niente contro i fastfood, sia chiaro, ANZI!! Mentre scrivevo, mi veniva puntualmente una fame da lupi! Però, ammetto che scrivere il pov schifatissimo di Ushijima da KFC mi ha divertito parecchio! :P Fatemi sapere se è stato lo stesso per voi!
 
Sono davvero curiosa di conoscere le vostre impressioni riguardo questo capitolo!
Grazie mille a tutti voi che state seguendo/leggendo la long!
A presto,
 
Violet Sparks
   
 
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