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Autore: speechlessback    29/04/2022    3 recensioni
"Questa Drabble partecipa alla challenge "Una drabble per Haikyuu: fratelli e sorelle", indetta sul gruppo Facebook Haikyuu!! Italia."
Natsu, Hinata: Hinata, Natsu.
Atti separati, percorsi paralleli; due fratelli che crescono, il legame che cresce con loro.
*manga spoiler*
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Natsu Hinata, Shouyou Hinata
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Questa storia partecipa al concorso "La distanza tra me e te" del profilo WattpadFanfictionIT

(Si tratta di un'esplorazione della drabble del primo capitolo; spero vi piaccia!)

 

In geometria, si definiscono rette parallele due linee che si trovano sempre sullo stesso piano, sempre alla stessa distanza l'una dall'altra, senza mai incontrarsi.

 

È la lunga fila di emoji e onomatopee che ti avvisano della sua gioia e del suo orgoglio - ha saputo dalla mamma che sei già diventata titolare per il Niiyama.

Poi, una serie di grida eccitate - ha ricevuto l'offerta per la Nazionale! Tu lo hai sentito nelle ossa, ancora prima che lo annunciasse.

Quel torpore sereno che ti avvolge, quando lo rivedi dopo mesi e mesi; la rabbia e la stanchezza si trasformano subito in gioia a stento contenuta, che si perde in quell'abbraccio che sa di casa, anche quando sa di aereo.

Lo sguardo fugace che getti alla chat quando, laconica, raccogli il coraggio e decidi di parlargli del tuo cuore spezzato. È la rabbia nel sapere che lui non è lì accanto a te - per il fratello che vorresti che fosse. È la flebile luce della notifica che ti dice che lui è proprio lì, a diciottomila chilometri di distanza.

È la tristezza che leggi nei suoi occhi che lenisce la tristezza nel tuo cuore. È la notte passata a piangere e scherzare, dimentichi della distanza, dimentichi del fuso orario.
È un fratello che cerca se stesso dall'altra parte del mondo, è una sorella che è rimasta indietro.

È l'urlo impotente che vorresti disperatamente riuscire a contenere, una domanda sulla punta della lingua che strepita per essere ascoltata. (Ma solo da lui).

Un turbine che infuria dentro di te, minacciando una scia di feriti e rami spezzati - ma tu riuscirai a contenerlo, non è vero?

Sei una brava ragazza, che si preoccupa così tanto per il fratellone  - asso del mondo, fulgida stella della pallavolo - che sicuramente moriresti pur di non ripetere mai la domanda che ti ha attanagliato l'intestino e distrutto le viscere, mentre lo guardavi dirigersi verso quello stesso terminal, quella volta per davvero, mentre ti chiedevi soltanto una cosa... di nuovo?

Cosa c'è in me che non è abbastanza? Cosa c'è in questo posto, i fiori di ciliegio che fioriscono in primavera e il buio delle strade quando è inverno, il freddo gelido che ti penetra nelle ossa, le curve e i tornanti che sono tutti uguali quando li percorri ogni mattina alle sei. (Ogni mattina, alle sei. Freddo-pioggia-sole-afa.)

Cosa c'è in questo cibo che porta il segno della tradizione, cosa c'è in quella squadra che non era abbastanza?

Cos'è di Miyagi - pensi - e di tua sorella, - cominci a credere -, che non ti basta per restare.

Non oserai mai chiedere.

*

È il tuo nome: Hinata Natsu. Lo senti sotto le tue stesse mani callose - i bordi netti del cognome, impresso sulla maglia - quando ti viene consegnata la divisa della squadra.

Ti chiedi se lui ha sentito quella stessa ondata di orgoglio, che arriva fino agli angoli più remoti dell'individuo; ti chiedi, quando ha messo piede per la prima volta nello spogliatoio dei Black Jackals, se già lo sapeva. Dopo aver spazzato via la concorrenza ai provini, assicurandosi un posto in una delle squadre più ambite della V-League. Ti chiedi se abbia guardato con stupore e un po' di panico infantile i bordi sottili e le cuciture, e se indossandola si sia chiesta se vestiva bene; se abbia tenuto stretta la maglia tra le mani, per sentire il tessuto, pur di imprimere a fuoco - in quel cassettino della memoria che è inaccessibile fino a quando la disperazione lo reclama, e dietro alle palpebre, per quando un singolo secondo può rinfrancare le ore tediose di palestra - la sensazione indescrivibile di toccare, con mano, la versione tangibile del proprio sogno.

La stessa ondata di meraviglia ronza intorno al tuo spogliatoio; sei veloce a scattare una foto della maglietta - la invierai alla chat di famiglia più tardi - una fitta di dolore al petto che ti opprime e che pesa come la somma di tutte le domande, senza risposta. Mai poste.

Si è sentito allo stesso modo, quando ha toccato il tessuto, e si è girato nello spogliatoio, ed un mare di sorrisi era lì ad accoglierlo; sapeva già che era solo un passo, verso una meta più grande o più alta o più lontana?

Un'altra domanda che indugia tra voi due.

Sul tuo telefono c'è un nuovo messaggio che ti informa quanto sia emozionato, la fila di emoji ed onomatopee che annunciano il suo passaggio: vuole pianificare una chiacchierata nel fine settimana. Quando vuoi. Se sei libera, sorellina.

A che punto, la distanza, diventa un sentimento?

*

Non è stato sempre così, o almeno così ricordi. O lo è stato? Forse hai iniziato a interpretare il tuo passato in modo diverso, a gettare sulle ombre una luce nuova, a cercare indizi per il legame che verrà e per il fratello che sentivi così vicino, e che ora ti sembra così lontano.

C'è una scena che ricordi così vividamente, impressa nelle tue palpebre, fuoco vivo.

Il ritorno dai suoi primi campionati Nazionali, tua madre preoccupata a morte, la sua postura - affaticata, spettinata, cambiata nella sua interezza - la corsa all'ospedale per riprenderlo e poi la corsa a casa, il parlare flebile perché tu eri troppo giovane per capire gli adulti che parlavano. Ma non era giovane anche lui, allora?

Lo era, ma era comunque qualcos'altro.

Entrare nella stanza in silenzio, guardarlo da lontano; ma eccolo di nuovo in piedi - "Dai, la mamma non si accorgerà che sei qui" -, ti zittiva ed insieme gesticolava per farti avvicinare. Mascherine che a nulla servivano perché non aveva più la febbre - era solo stanco per aver giocato troppo a pallavolo! Un concetto che la sua piccola mente, allora, non poteva afferrare. Come può succedere qualcosa di così sbagliato quando stai facendo qualcosa di così giusto?

La paura, l'ospedale, le mascherine; il futon, il fuoco nei suoi occhi, il cielo azzurro e terso delle mattinate passate a palleggiare.

Già in quella stanza di un passato che sembra appartenere ad un'altra vita, eri piena di domande; ed in quella stanza è iniziata la distanza che sarebbe stata più ampia di Brasile/Giappone, San Paolo/Miyagi, sogni che erano uguali e non lo erano allo stesso tempo. Come è possibile? E te lo chiedi, ancora. Te lo chiederai sempre?

Quando oggi, al mattino, ti svegli abbastanza presto per cogliere il primo scorcio dell'alba che ti saluta; pensando a quelle poche fatidiche volte in cui i vostri orari si sono allineati e siete riusciti a trovarvi alla stessa ora nello stesso posto con la stessa fame, e vi siete svegliati abbastanza presto per fare una corsetta insieme e siete stati atleti professionisti - tutti e due, riesci a crederci? - e non importava il fatto che in pochi giorni lui sarebbe tornato all'altro capo del mondo, non importava il fatto che l'irrisolto e le domande pesassero sulle vostre membra in modo così duro e doloroso, avete fatto jogging insieme, avete guardato l'alba, vi siete scattati un selfie che hai accuratamente infilato nella cover del tuo telefono, hai preso una cover trasparente in modo che la foto si veda, non la tieni nel tuo portafoglio ma sul tuo telefono, così che - in silenzio, senza fare rumore - tutto il mondo possa sapere che tuo fratello sta facendo l'impossibile, sta sfidando le leggi della fisica e la legge del mondo intero, saltando così in alto e così veloce e così lontano che nessuno può avere anche la minima possibilità di raggiungerlo.

Quella scena, in cui vi siete avvicinati e, silenziosi, avete dormito tutta la notte nello stesso futon - tua madre senza parole che ti scuote dal torpore il giorno dopo, un luccichio di qualcosa di incomprensibile nei suoi occhi, quando realizza che entrambi vi coprirete sempre le spalle a vicenda, entrambi, su strade diverse, come le madri prevedono il futuro in un modo che non riescono mai a spiegare - quella scena, che risiede nel punto più remoto della tua testa - nel cassettino accessibile solo quando la disperazione lo richiama - impressa, a fuoco vivo, nelle tue palpebre.

Quella mattina, appena sveglio, lui voleva andare fuori ad allenarsi. Tua madre era contraria, tanto aveva paura. Ma tu avevi sporto il mento in avanti, allungato le mani all'epoca ancora lisce, avevi tenuto le sue nelle tue. Volevi proteggerlo anche se eri la sorella più giovane. Volevi aiutarlo e, soprattutto, volevi conoscerlo - il fuoco che giocava nelle sue iridi.

Vi siete esercitati insieme; ti ricordi di lui, che cercava di passarti la palla, il brivido della prima schiacciata che valeva davvero la pena di essere considerata tale. Il modo in cui la tua mano si arricciava intorno alla palla, il fuoco e la fossa nello stomaco. La tua mano che prima era liscia, bambina, e che in quel momento diventava potente, feroce. La fossa nello stomaco che si apriva: il tuo battesimo del fuoco. Hai capito il fuoco e gli hai dato una forma diversa; ma ricordi il brivido e la gioia - condivisa. Il modo in cui guardavi il tuo pugno chiuso, e si spiegava la consapevolezza.

Il modo in cui lui si guardava, valutava il suo approccio: potevi quasi vedere il fumo uscirgli dalle orecchie, l'idea formarsi e prendere le redini. Potevi vederlo, andare via; potevi già immaginarlo, come poi lo avresti visto - tuo fratello, ace del mondo, allora diciannovenne alto a malapena un metro e settanta centimetri, che attendeva l'aereo che lo avrebbe portato lontano, a lottare contro la sabbia.

Quella mattina, in una piccola città all'estremità di Miyagi, quando pochi centimetri di distanza vi separavano, lui era già lontano.

*

Da: Mamma (18:39 p.m.)

Ho sentito tuo fratello al telefono; mi ha detto che ha cercato di contattarti. Gli faresti una telefonata tesoro? Grazie. Oh, e stai benissimo con l'uniforme!

Mandami un'altra foto così posso appenderla in salotto. Anche lui ne vorrebbe una!

A: Mamma (18:45 p.m.)

Ok.

A: Nii-chan (19:01 p.m.)

_immagine allegata_

Sono libera questo fine settimana se vuoi fare una videochiamata.

*

Tu odi le videochiamate.

Odi quando lui è qui perché non riesci a smettere di piangere e i tuoi occhi diventano tutti gonfi e ti chiedi perché non potrebbe essere come quando eravate bambini e poi ti ricordi che quando eravate bambini non vedevi l'ora di diventare grande e quindi ora? Poi ti chiedi se stai interpretando le cose in modo diverso perché ti ha preso la nostalgia e ti ci sei bloccata e poi ti ritrovi all'aeroporto e lui è lì, baciato dal sole, bellissimo, tuo fratello, asso del mondo, sei così orgogliosa così incredibilmente orgogliosa e tutto ti si blocca in fondo alla gola, così lo abbracci in quell'abbraccio che puzza di aereo e lui sbuffa e arranca delle scuse ma tu lo abbracci lo stesso perché una cosa che nessuno ti dice sui sogni è che inseguirli significa lasciarsi qualcosa alle spalle e non c'è un manuale sull'essere lasciati alle spalle perché tu sei contenta di Miyagi, e lui non lo è. E questo è quanto. Dimentichi tutto, perché la cosa divertente del sentire la mancanza di qualcuno è che il dolore torna a farsi sentire nei momenti più inaspettati e nelle cose più banali - leggere un libro, guardare un film stupido che probabilmente dimenticherai di commentare quando lo rivedrai -, e quando sei lì con lui, lui ti manca ancora di più perché ricordi e dimentichi e perdoni, e ti manca di più per i momenti in cui non ci sarà ma comunque lui è qui, e quindi ti perdi nell'abbraccio che sa di aereo.

*

Ha appeso la foto che gli hai mandato di te con la tua prima uniforme. Nell'appartamento in penombra, dietro il suo viso e il sorriso che copre tutto lo schermo. Sfocata nel modo in cui queste cose sono e nessuno ti dice che lo sono.

Ha appeso la tua foto accanto alle sue più importanti, quelle con i Black Jackals, con la Nazionale, con la sua squadra attuale di cui non sai nulla perché in uno stupido tentativo di fingerti più forte di quello che sei, ti sei rifiutata di chiederglielo.

"CIAO!" - La sua voce riempie tutto lo schermo, tutto il vuoto che senti, il pozzo senza fondo nel tuo stomaco. Lo odi. Lo ami.

"Ciao, nii-chan. Come stai?"

Di nuovo, il suo sorriso - allegro; la sua voce - così lontana eppure così vicina.

"Scusa, so che odi le videochiamate". Se n'è accorto.

"Volevo parlarti. So che sono stati due mesi intensi. Come ti stai adattando alla Lega Pro?"

Lui si perde in chiacchiere, tu fai lo stesso. È così facile fingere. È un meccanismo ben assestato. Tu parli, lui parla, vostra madre si mette in mezzo e tu non lo ignori poi così tanto.

"Ti ricordi... una delle nostre prime videochiamate?" Sembra un po' incerto, è strano vederlo così. Umano.

(Certo che te lo ricordi.)

"Quando quel ragazzo mi ha lasciato per stare con quella pattinatrice sul ghiaccio che aveva conosciuto... mi si è spezzato il cuore!" Eri così affranta che hai pianto per settimane e poi quando hai trovato il coraggio di videochiamarlo sembrava che il peso del mondo ti fosse stato tolto dalle spalle. Proprio così. Solo sfogandoti con il tuo fratellone sulla prima volta che un ragazzo ti aveva spezzato il cuore.

"Quando... quando è stata la prima volta che ti hanno spezzato il cuore?"

È un meccanismo ben oliato. Tu parli, lui parla. Tu chiedi, lui chiede. Domande semplici.

Lui però si prende il suo tempo per rispondere, e tu riconosci lo stesso sguardo che aveva, quella mattina, quando stavate giocando a pallavolo fuori nel vostro piccolo giardino in quella piccola cittadina arroccata sulla montagna alla periferia di Miyagi - quando lui ha deciso di sradicare tutta la sua vita per inseguire un solo sogno.

"Quando... sai, quando ho visto Kageyama giocare alle Olimpiadi?"

"Lo sapevo! Avevi una cotta per lui quando eri al liceo, vero? Era così ovvio!"

Sorridi. È facile muoversi in una conversazione come questa. Prenderlo in giro per i suoi sentimenti non così segreti.

"Quando ti ho salutato per la prima volta. Quando mi hai accompagnato all'aeroporto per la mia prima stagione per l'Asas."

I pixel sono sufficienti? Le invenzioni umane sono così infinitamente perfettibili, che i sentimenti che fluttuano nello spazio intorno a te vengono gettati dall'altra parte del mondo?

"Poi... una volta ero in un mercato e ho sentito un odore strano e in realtà era un negozietto che vendeva gamberi con salsa teriyaki! Voglio dire, erano GWAH, e poi, dal nulla-", una singola lacrima gli incide il lato della guancia, ma lui continua, imperterrito. "Ti ricordi quel festival a Miyagi? Quello a cui andavamo ogni anno con quella vecchia bancarella che vendeva i gamberi! Ci sporcavamo tutte le dita e dovevamo correre a nasconderci perché se mamma avesse scoperto che ci stavamo sporcando i vestiti sarebbe stato tremendo. Ma lo facevamo lo stesso."

Il modo in cui ha appeso le tue foto accanto alle sue preferite.

"Mi ricordo. Mi ricordo." Dovremmo andarci di nuovo quando torni, è quello che pensi. Ma annuisci soltanto, esortandolo a continuare.

"Quando ho detto ad Atsumu-san dell'ASAS. Per un millisecondo, lo sguardo sul suo viso."

Non gli dici che lo sai; che hai passato innumerevoli notti senza volto a tenere il broncio, allungando la mano verso di lui perché sentivi che era l'unico che poteva capire, con solo uno sguardo, stesi sui sedili di Onigiri Miya con un Osamu-san impassibile che cucinava infinite quantità di cibo con un cipiglio preoccupato - anche lui era un fratello, anche lui capiva.

"Dovresti dirglielo."

La sua testa scatta così velocemente che il video non riesce a stargli dietro. Non importa la potenza del wi-fi, o le capacità umane di progettare cose nuove. Quando lo schermo torna vivo, vedi tuo fratello.

Lo vedi per la prima volta: triste, e speranzoso, un essere umano - sull'orlo delle lacrime, che si scusa per com'è, e per il fatto che non può essere altro.

Lo vedi, per la prima volta. Vuoi allungare la mano per scompigliargli i capelli. Vuoi allungare la mano per prendere la sua nella tua come hai fatto tanto tempo fa. Così lo dici.

"Se fossi lì, allungherei la mano e ti scompiglierei i capelli, sai?"

Senti il sorriso che si insinua rapidamente, sollevando la curva delle tue labbra. Su, su, su. Non riesci a farne a meno.

"Hai una cotta gigantesca per quel ragazzo e non glielo dici nemmeno? Certo che non ci sai proprio fare."

Sorridi. Anche lui sorride.

"Potresti, lo sai? Vieni a trovarmi, possiamo giocare un po' in spiaggia, se vuoi. Quando puoi prenderti qualche settimana di vacanza, ovviamente."

È questa la forza straordinaria che risiede nell'essere umano? Tra le invenzioni infinitamente perfettibili ed i pixels sempre più nitidi: il fuoco che divampa nello stomaco, che rovina i rapporti nella sua irruenza e che poi li aggiusta nel giro di pochi minuti.

È così che si fanno domande, così si ottengono risposte?

"Un po' di sole potrebbe farmi bene."

"Lo faresti, davvero?"

"Lo farei."

*

E lo farai: troverai il tempo per pianificare il viaggio e vedrai con i tuoi occhi e il tuo cuore cosa significhi vivere senza radici. Vedrai, respirerai, manderai fantastici video del tuo bellissimo fratello baciato dal sole al tuo compagno di bevute, così anche lui saprà cosa si sta perdendo.

E capirai anche tu: cosa significa nascere e stare insieme, cosa significa percorrere il proprio cammino ed arrivare al bivio.

Cosa significa essere Miyagi - casa, ricordi.

Cosa significa essere lasciati indietro - la sorella di Hinata Shouyou.

Cosa significa essere se stessi. Vai su quella spiaggia, voli sempre più in alto. Ora il suo palleggio ha una precisione straordinaria.

Torni a casa, ospitando il tuo amore - in silenzio. È il modo in cui stanno le cose.

Due persone - un fratello, una sorella -, sullo stesso piano, sempre alla stessa distanza l'una dall'altra: senza mai intersecarsi.

Miyagi, San Paolo. Brasile, Giappone. 

Natsu, Hinata; Hinata, Shouyou.

Linee parallele: sempre sullo stesso piano. 

 

   
 
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