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Autore: Yellow Canadair    11/05/2022    3 recensioni
Lucci, Kaku e Jabura si svegliano nudi in un laboratorio sconosciuto. Dove sono? che è successo al resto del gruppo? perché non riescono più a trasformarsi? Tutte domande a cui risolvere dopo essere scappati, visto che sono giustamente accusati di omicidio plurimo.
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Nefertari Bibi è sparita da Alabasta: Shanks il Rosso l'ha portata via per salvarla da morte certa, perché qualcuno vuole il suo sangue per attivare un'Arma Ancestrale leggendaria. Ma i lunghi mesi sulla Red Force suggeriscono a Bibi che forse chiamare i Rivoluzionari potrebbe accelerare i tempi...
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Intanto Caro Vegapunk ha una missione per gli agenti: recuperare suo padre, prigioniero nella Sacra Terra di Marijoa. Ma ormai Marijoa è inaccessibile, le bondole sono ferme, e solo un aereo potrebbe arrivare fin lassù...
I Demoni di Catarina, una long di avventura, suspance e assurde alleanze in 26 capitoli!
Genere: Angst, Avventura, Azione | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Cipher Pool 9, Jabura, Nefertari Bibi, Rob Lucci, Shanks il rosso
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Dal CP9 al CP0 - storie da agenti segreti'
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Capitolo 7

Recuperare un aereo

 

«E quindi Im vuole distruggere quelli della D. facendo precipitare la Luna sulla Terra.» riassunse Jabura.

«Esatto.» sospirò Kaku, affacciato al parapetto.

«Senza sapere che così ci ammazzerà tutti.» continuò il Lupo.

«Perché la Luna in realtà è l'Arma Ancestrale Uranos, l'arma del cielo.» confermò il timoniere annuendo con il capo.

«…ma senza saperlo distruggerà tutti, compresi quei maledetti Nobili Mondiali che vorrebbe proteggere! E che non sono affatto degli dèi immortali come credevi tu!!» concluse ridendo in direzione di Rob Lucci, che reggeva il timone.

Rob Lucci si voltò di scatto, adirato. «Era quello che il Governo ha sempre detto. E non c’era ragione di dubitarne.»

«Sì ma eri l’unico ad averlo preso in parola. Divinità? I Draghi Celesti? Con le bocce dei pesci in testa? Che stronzata…» lo sfotté Jabura.

«Sono il simbolo dell’equilibrio mondiale.» gli ricordò Lucci.

«Erano solo la nostra licenza di uccidere. Tutto qui.» rispose il Lupo.

Erano passati otto giorni da quando si erano lasciati alle spalle Caro Vegapunk e l’isola di Barjimoa, con la barca piena di scorte per affrontare il viaggio.

Caro Vegapunk aveva permesso loro di comprare cibo, vestiti pesanti, medicinali, strumenti per la navigazione, strumenti per riparare l’aereo, pezzi di ricambio, persino materassini per le cuccette, cuscini, coperte e stoviglie. Non avevano dovuto pagare niente: il proprietario del negozio si era appuntato con precisione tutte le spese, e poi ci avrebbe pensato Caro Vegapunk a saldare il conto.

Recuperato l'aereo, sarebbero andati alla ricerca dei loro compagni, poi però dovevano arrivare alle isole Sabaody e unirsi al gruppo che doveva attaccare Marijoa; giunti alla Terra Sacra, poi, loro avrebbero recuperato Vegapunk, il padre di Caro, tenuto in ostaggio da Im.

Caro aveva dato loro una vivre card del padre, ma per il momento era stata messa da parte: la priorità era quella di ritrovare tutta la truppa.

Avevano cercato prima di tutto di lumacofonare alla Torre di Catarina, componendo tutti i numeri che ricordavano a memoria, ma risultavano inesistenti; gli uffici, la guardiola, gli appartamenti privati: non esisteva più nessun lumacofono in quella Torre. Jabura aveva fatto un tentativo con il bar di Gigi L’Unto, ma aveva risposto un tizio che gli aveva spiegato che Gigi non viveva più lì, e il bar aveva da poco cambiato gestione. Il Lupo non gli aveva nemmeno fatto finire la spiegazione, e gli aveva attaccato la cornetta in faccia.

Poi aveva composto il numero della casa della segretaria e pilota, Lilian, ma aveva risposto un’estranea, dicendo che era un anno e mezzo che viveva con la famiglia in quell’appartamento e non aveva mai conosciuto la precedente inquilina.

Kaku guardava il mare davanti a loro, affacciato con gli avambracci sulla balaustra di tribordo. La brezza era fresca, riempiva le vele, ma non era abbastanza forte da portargli via il berretto di lana, tenuto ben calcato in testa. Affondò di più il volto nel bavero della felpa impermeabile, fin quasi al naso. «Ancora non mi capacito, di quello che ha raccontato Caro Vegapunk.» disse voltandosi verso il suo collega più fidato.

Lucci, che stava reggendo il timone, si strinse nelle spalle. «Però, nonostante i contorni siano…»

«…un casino» suggerì Jabura senza voltarsi, seduto rivolto verso prua con le possenti spalle appoggiate all’albero maestro. 

«…un racconto incredibile e a tratti più mitologico» lo corresse, ostentando stoica pazienza. «Nonostante questo, il nostro compito è semplice: è una missione di recupero con infiltrazione e sortita in tempi brevi. Non è nulla che il nostro reparto non abbia già visto.» concluse.

«E sbaglio, o Caro Vegapunk ci ha detto anche abbastanza chiaramente che alla fine della storia riavremo i nostri poteri? …oltre a salvare il mondo, intendo.»

«Infatti sbagli, caro Jabura» scandì Lucci. «Caro Vegapunk non ci ha promesso niente del genere. Ci ha detto che suo padre stava lavorando a questa possibilità, ma non l’ha mai data come cosa certa, né come promessa.»

Jabura sbuffò, anche se il suo soffio venne coperto dallo spumeggiare delle onde. Il vento non era precisamente a favore, ma Kaku riusciva sempre a posizionare le vele in modo da avere tutta la spinta possibile, e il brigantino procedeva speditamente con la costa in vista.

«…poteva essere un bell’incentivo.» disse infine il Lupo.

«La Luna sta per schiantarsi qui e ti serve un altro incentivo per muovere il culo?!»

«A proposito di culo» si ricordò Jabura «Non ho capito come ha fatto Uranos a diventare la Luna. Cioè l'Arma Ancestrale.»

«Ah sì, questo me l'ha spiegato Caro mentre uscivamo…» sospirò Kaku. «Non è diventato la Luna, l'ha costruita lui stesso, prendendo pezzi di asteroidi e di rocce dategli da Gea. I due avevano una qualche sorta di relazione complicata…»

«E devono avere avuto figli, visto che Caro ha nominato un "penultimo discendente".» osservò Lucci.

«Che poi se Im è il penultimo, ci sarà anche un ultimo. Chi sarebbe?» disse Kaku.

«Ma poi che fine hanno fatto? esistono ancora?» chiese ancora Jabura.

Kaku scosse la testa: «No, Caro ha detto che alla fine si sono lentamente fusi con i loro elementi fino a sparire del tutto. Comunque sia…» disse risoluto, rimettendo in ordine le idee per le mosse successive «prima di cominciare la missione vera e propria, bisogna andare all’Arcipelago Sabaody.» ricordò Kaku. «Per fare un rivestimento all’aereo che…»

«Un rivestimento per farlo andare sott’acqua. Ma sono sicuro che quel bestione non possa assolutamente immergersi, gli mancano del tutto i comparti stagni.» completò Lucci.

«Era studiato per raccogliere l’acqua dal mare, forse si potranno sfruttare le cisterne. Ma del resto è proprio per questo problema che, prima di rivestirlo, dobbiamo portarlo alla Galley-La.» rifletté Kaku.

Jabura, seduto dando le spalle agli altri due uomini, girò la testa e ghignò perfido: «Ma che bei discorsi da carpentieri.» ridacchiò. «Vi state riscaldando per il trionfale ritorno a Water Seven?»

Kaku scattò con ira, ma la lingua di Lucci fu più veloce. «Hai poco da fare lo spiritoso, visto che a parlare con i carpentieri non saremo noi, ma tu.»

«Io? E perché?! Voi li conoscete, sapete parlare di navi, magari vi fanno anche lo sconto!»

«Dopo che li abbiamo traditi, abbiamo incendiato la loro sede, cercato di ucciderli e di consegnarli al Governo Mondiale?» gli ricordò Lucci con sufficienza. Non che si pentisse di quanto fatto anni addietro, chiaramente, ma non si illudeva certo che Iceburg, rivedendolo, avrebbe fatto i salti di gioia e ucciso il vitello grasso.

«Sarai tu a portare l’aereo dai carpentieri, e tu a occuparti della faccenda.» decise il leader.

«Secondo me è meglio se mandi Bluen- ah, no. Allora Califa… ah giusto, c’era anche lei. E Kumadori, allora? E Fukuro?»

Intervenne: «Non mi fido di nessuno dei due per una missione così delicata.» con i melodrammi dell’uno, e con la parlantina sciolta dell’altro, Iceburg avrebbe scoperto i proprietari di quell’aereo in meno di mezzo minuto.

«Ohhh, non ti fidi di Kumadori e Fukuro ma di me sì?» ridacchiò Jabura rovesciando la testa all'indietro. «Quale inaspettata dichiarazione!»

Lucci sembrò perdere l’aplomb per una frazione di istante. «Non dire assurdità.»

«Così mi spezzi il cuore. Ormai l’hai detto, non puoi rimangiartelo.»

«Stai tenendo d’occhio la vivre card della pilota, vero?» gli ricordò Lucci.

«Tanto lo so che stai cambiando discorso di proposito. Eccola qui, la vivre card. Ancora dritto. Ehi! Ehi! Aspettate!» esclamò il Lupo all’improvviso. «La direzione sta cambiando.»

Kaku si avvicinò a lui e guardò il foglietto. «Sta puntando verso l’entroterra. Vuol dire che siamo quasi arrivati.» dissero osservando la linea della costa in lontananza.

«Alla prossima città portuale allora attraccheremo.» Disse Lucci. «E continueremo le ricerche sulla terraferma.» 

 

~

 

Poche ore più tardi i tre uomini approdarono in una città costiera lungo la Grand Line, a circa centocinquanta chilometri a nord di Alexandra Bay; si trattava di Bitter Gold O’Mine, cittadella mineraria dove si estraeva il metallo dei Berry.

Tutto, in quella città, era coperto dalle pesanti polveri che si spandevano nell’aria dalla zona delle miniere, avvolgendo tutto in una cappa grigia e malsana. C’erano poche persone in giro per la città, perché entravano nelle miniere prima che il sole sorgesse e tornavano a casa quando era già tramontato, in un lavoro faticoso e alienante: si narrava che le lavoratrici partorissero tra le gallerie della miniera, e i bambini venissero messi a lavoro con il cordone ombelicale ancora attaccato.

Solo la zona del porto era più viva, per via di qualche modesto cantiere navale e dei moli per lo scalo delle navi di passaggio. L’aria di mare spazzava un po’ via le polveri, si respirava meglio.

«Accidentaccio, ci vorrebbero le maschere antigas.» si lamentò comunque Kaku affondando il volto nel bavero della felpa.

«Prima la troviamo, prima andiamo via.» disse pratico Lucci, calando in mare l’ancora dello sloop mentre Jabura lanciava una cima ai portuali mesti e stanchi, che aiutavano il modesto equipaggio con le manovre di attracco.

La vivre card, che loro consultavano durante la navigazione, indicava perpendicolarmente verso l’entroterra di quella città: la cosa migliore da fare era ormeggiare e seguire le tracce di Lilian Rea Yaeger nel continente.

Cammin facendo, passarono in una piazza molto ampia, al centro della città, e trovarono una carovana in partenza. Incuriositi, si fermarono: era una lunghissima carovana di bradipi.

Erano bradipi enormi, alti almeno cinque o sei metri, pigri e assonnati, ognuno con uno zainetto di pelle sulle spalle ben assicurato da robuste cinghie. La fila di animali si snodava attorno alla fontana al centro della piazza, e tutt’attorno si affaccendavano diversi uomini in divisa grigioverde che caricavano gli zainetti dei bradipi e li issavano sulle loro spalle.

C’era anche uno stalliere che eseguiva una delicata manicure ai grandi unghioni di uno dei bradipi.

La sicurezza era altissima: la piazza era piantonata da diversi agenti della Grande Armata, la forza di polizia che aveva sostituito Cipher e Marina.

«Che succede qui?» chiese Kaku a un giovane agente dall’aria un po’ svanita e dai capelli ricci, spessi e azzurri.

«Oh! Siete turisti!» saltò quello. «Oh! Questo è il carico di metallo che dalle miniere va alla zecca! Oh! La zecca della città di Sweet Gold O’Mine, nell’entroterra!» spiegò.

«E come mai usate dei bradipi?» domandò ancora Kaku. «Non sono lenti?»

«Oh! E chi altri se no? Tra Bitter Gold O’Mine e la bella Sweet Gold O’Mine c’è un immenso bosco di oh! lame taglienti come rasoi! Oh! Solo i bradipi possono attraversarlo!»

«Non dire scemenze! Maledetti giovani d’oggi…» si intromise una guardia più anziana, con una bandana nera che gli cingeva la fronte e gli occhi color acqua azzurra acqua chiara. «Una volta esisteva un sistema di staffette: un povero diavolo si metteva a cavallo di un Gorilla Verde, e percorreva chilometri e chilometri nella giungla. Arrivava a una stazione di cambio, gli sostituivano il Gorilla, e lui proseguiva. Per giorni e giorni! Ed erano gustosi, quei gorilla…» 

«Oh vecchio! Basta! Non dategli retta! Quello dei Gorilla Verdi era un sistema massacrante! Morivano i Gorilla e morivano i poveracci che li cavalcavano, perché la foresta è fitta e oh! Le foglie del sottobosco sono taglienti e dure come lame! Solo il pelo ispido dei Gorilla Verdi poteva, un pochino, far da barriera a quelle lame! Ma bastava una disattenzione e OH! Un ramo basso conficcato nella tua testa!!» raccontò il ragazzo puntando un dito tra gli occhi di Kaku, che parò con una mano rivestita di Tekkai.

«Sì, ecco, insomma…» si ridimensionò la guardia più anziana. «Usare i bradipi è più sicuro. Non toccano il suolo, vanno di ramo in ramo. Sono più grandi, più intelligenti, e seguono il tragitto da soli, non serve mettere qualcuno alla guida della carovana… del resto hanno imparato, lo fanno una volta ogni due settimane da diversi anni. E sono molto gustosi anche loro.»

«Oh! Esatto!» esclamò l’altra guardia. «Oh, e nessuno osa fermarli, no, no! E pensa… quando tornano, portano viveri da Sweet Gold O’Mine! Roba da ricchi! Pane! Biscotti! Carne in scatola!! Oh! Non vedo l’ora!»

«…qui non mangiate carne e pane?» intervenne Jabura.

«Oh, no… qui possiamo mangiare solo il pesce dal mare!» disse la guardia indicando il porto con un dito. «L’inquinamento della miniera ha avvelenato i campi e fatto ammalare gli animali… solo il pesce pescato al largo, a volte, è ancora buono!»

«Andiamo.» disse Lucci. «Non possiamo perdere tempo con le usanze locali.» 

«Arrivo.» mormorò laconico Kaku, guardando un attimo ancora un bradipo dall’aria calma e tranquilla.

I tre agenti, tenendo in mano il cartiglio un po’ rovinato, ripresero il cammino. Attraversarono la città che odorava di gas di scarico e di ferro, e si lasciarono presto alle spalle le case sgangherate e le fonderie, ritrovandosi prima in periferia e poi in aperta campagna. Ma i campi erano vuoti, non c’era nemmeno la sterpaglia, i vecchi recinti chiudevano rettangoli di crepe e di terra grigia. Faceva anche abbastanza freddo, era come stare abbracciati a uno di quei freddi pezzi di ferro che venivano estratti dalle profondità delle miniere.

La vivre card puntava ancora oltre.

Camminarono ancora, velocizzarono con il Geppo, il paesaggio cambiò: la costa era ormai lontana, si stavano avvicinando ad altissime montagne verdi e boscose. Gli uomini chiusero le lampo delle felpe e dei giacconi, il vento si infilava fin sotto la loro pelle nuda.

Jabura chinò la testa per chiudere la zip della sua felpa e del suo giaccone ma, tornando a guardare davanti a sé, si ritrovò davanti a una grande e rigogliosa selva oscura, che si estendeva a pochi passi dalle sue scarpe. Verdissima, umida, con gli alberi alti e cupi, le cui frasche impedivano al Sole di raggiungere il suolo. Ed ecco i famosi cespugli e gli sterpi del sottobosco, con le loro foglie acuminate che svettavano verso l’alto come una palizzata di lance ben tese contro qualsiasi invasore. La vivre card puntava proprio verso la foresta, verso il bosco di cui gli aveva parlato la guardia in piazza, quello che separava la povera città mineraria dalla ricca città della zecca.

«Cosa ti serve, il tappeto rosso?» lo sbeffeggiò Lucci. «Rankyaku.»

Rob Lucci, mani nelle tasche ed estrema disinvoltura, sferrò due calci velocissimi e precisi, e due lame d’aria verticali spianarono una stretta ma agevole strada nel bosco, che si estendeva tra due cortine di vegetazione ostile.

«Ora puoi passare.» 

«Cosa cerchi di dimostrare, fenomeno?» ringhiò subito Jabura. «Vuoi farci attaccare da chissà che bestia si nasconde lì dentro?»

«Se hai paura puoi sempre andare a fare la spesa per il viaggio, mentre noi ce la sbrighiamo qui. Non sei più in grado di combattere, ora che sei senza poteri?» insinuò Lucci.

Jabura lo prese per il bavero e lo sbatté di peso contro uno degli alberi superstiti, sovrastandolo per rabbia e per ampiezza toracica. «Non ti azzardare mai più a dire una cosa del genere.» minacciò a un soffio dal muso del rivale. «Per tua informazione, senza Frutto del Diavolo ho più Doriki di te.»

Lucci gli assestò un calcio nello stomaco per toglierselo di dosso, e Jabura si allontanò di mezzo passo. «Cane selvaggio che non sei altro.» sibilò. «Hai parecchia strada da fare, per arrivare al mio livello.»

«Avete finito?» li richiamò Kaku, già sul sentiero tagliato da Lucci. «Io vado.»

E i due, ringhiando e insultandosi, si incamminarono dietro Kaku nel cuore della foresta.

Camminarono facendosi strada a colpi di Rankyaku e castigando qualche belva feroce che aveva avuto la malsana idea di prendere quell’invasione di campo troppo sul personale. Erano decisamente più pericolosi di qualsiasi creatura celasse quella selva, e non avevano nessunissima difficoltà a passare sopra a belve alte cinque metri e più e procedere, spietati e inesorabili, verso la direzione che indicava loro la vivre card.

 

~

 

Uno stormo di uccelli si levò in direzione di Bitter Gold O’Mine. Qualcosa li aveva spaventati e loro avevano spiccato il volo con un concerto di strilli e di frullo d’ali.

Lilian guardò gli uccelli sorvolare la boscaglia e si irrigidì. Stava davanti al tugurio dove viveva, godendosi il poco sole tiepido; si riscosse, chiuse fino al mento la zip della grande e vecchia felpa stinta che indossava da sotto a un grosso cardigan infeltrito e trattenne il fiato.

La carovana di quel mese doveva ancora passare, ma… i bradipi si muovevano in branco, in una lunga processione, e producevano un suono ben diverso! Che fosse stato mandato qualcuno in avanscoperta dalla città, per controllare la strada dei bradipi?

Che qualcuno avesse capito che quegli squarci negli zaini dei bradipi non erano frutto di rami impigliati, ma di lei che saltava sui bradipi e li derubava mentre erano in corsa? 

Si mise in ascolto dei rumori che venivano da dove erano partiti gli uccelli, ma la foresta era insolitamente silenziosa: gli uccelli avevano spiccato il volo e, spaventati, si erano andati a nascondere. 

No, non erano i bradipi. C’era qualcuno, ed era sempre più vicino. Posò un orecchio al suolo e chiuse gli occhi: rami spezzati, foglie calpestate, gente che si stava facendo strada troppo in fretta. Ma quel posto era impenetrabile… o almeno così aveva sempre creduto.

Erano loro. Stavano venendo a prenderla. Erano loro. 

Si rialzò e rientrò nel suo rifugio in fretta, passando attraverso una soglia sormontata da un disegno ormai vecchio e sbiadito di un gorilla, proprio sull’architrave.  

Prese il coltello, una pistola con poche munizioni e uscì fuori dalla vecchia catapecchia lasciando tutto così com’era, sperando che gli inseguitori avrebbero perso qualche minuto per analizzare i suoi stracci e le sue pentole.

Posò di nuovo l’orecchio al suolo, ascoltò. Il suo battito del cuore copriva qualsiasi suono, strinse i denti, si concentrò: erano almeno due. No, di più. Troppi. 

Nessuno poteva entrare in quella foresta, i rovi del sottobosco avevano lame al posto delle foglie, lei stessa aveva raggiunto quel rifugio strisciando e aprendosi la strada a fatica; soltanto i bradipi giganti riuscivano ad attraversarla, saltando di ramo in ramo. Non c’erano cacciatori, non c’erano strade, difficile che si fossero persi: allora erano lì per lei? Era stata scoperta…? Lilian strisciò via dal piccolo edificio quadrato di cemento e scivolò via, silenziosa, senza calpestare le foglie secche, senza far crepitare i rami, seguendo uno strettissimo sentiero che lei stessa si era spianata per raggiungere il ruscello, con l'intenzione di far perdere le proprie tracce sui sassi del greto.

 

~

 

Lucci fu il primo ad arrivare, dopo essersi fatto strada con il Rankyaku nella vegetazione fitta e inospitale. 

Assottigliò lo sguardo, disgustato dalla scena pietosa di quell’abitazione. Era un luogo misero, una catapecchia rovina, un edificio abbandonato in cemento di un paio di stanze, mezzo avvolto dai rampicanti verdi. Il tetto era di lamiera fatiscente, e le finestre erano serrate da assi di legno. Prendeva aria e luce dal solo uscio d’ingresso, chiuso a mala pena da una porta tarlata senza serratura né pomello. Lucci spinse quella porta con la punta del piede, e quella si spalancò verso l’interno, senza opporre la minima resistenza. 

La prima cosa che notò fu, sulla destra, un buco per terra con su una grata di metallo: un focolare. In corrispondenza, nel soffitto, c’era un foro per far uscire il fumo. Jabura, entrato dopo di lui, frugò con un piede fra la cenere, scoprì dei minuscoli tizzoni. Abbandonata da poco.

Vicino c’era un giaciglio con delle povere coperte, qualche libro malandato e con le pagine deformate dall’umido, pentoline e un secchio rotto. Poi c’erano delle buste con dentro dei vestiti. C’era un forte odore di umido e di sporcizia, ma gli uomini non indagarono.

«Dev’essere stata una delle stazioni di cambio di cui ci ha parlato la guardia.» osservò Kaku.

«Quella per i Gorilla Verdi?» chiese Lucci.

«Esatto. Siamo abbastanza lontani dalla città, una persona normale ci metterebbe almeno una giornata ad arrivare fin qui. E poi c’è proprio un gorilla disegnato sull’ingresso, l’hai notato?» rispose il giovane indicando l’uscio con il pollice.

«Secondo te è qui che vive Lili?» domandò Jabura a Lucci, guardando costernato l’estrema miseria del posto. Notò un quadernino per terra, vicino al letto, e scorse le pagine. Un mozzicone di matita penzolò sconsolato, legato con un pezzo di spago al dorsetto. 

Lucci non rispose, e guardò la vivre card: non puntava più verso Ovest, ma a Sud. «Ha cambiato direzione.» disse, ma senza preoccuparsene seriamente. «Si è accorta di noi. Sta scappando.»

 

~

 

Il fiumiciattolo che strisciava nella foresta le sembrava sempre lontanissimo da casa quando doveva andare a prendere il secchio d’acqua per lavarsi, adesso invece era diventato troppo pericolosamente vicino al suo rifugio: l’effettiva distanza, che sembrava così grande con un peso in mano, adesso si rivelava del tutto insufficiente per sfuggire a degli inseguitori.

Raggiunse i ciottoli umidi del greto, e vide il torrente scorrere. Quella era l’unica “strada” che non fosse bloccata dalla vegetazione, l’unica che potesse percorrere velocemente. Pazienza per le vecchie scarpe che si sarebbero inzuppate: entrò senza esitazione nell’acqua, raggiunse il centro del fiumiciattolo e cominciò a risalire la corrente, prendendo a mano a mano velocità, mentre i vestiti cominciavano a inzupparsi di acqua gelida e ad appesantirsi, incollandosi alle gambe, ma lei nemmeno li sentiva, tanto il terrore di venire raggiunta.

Cercavano lei. Cercavano assolutamente lei.

Ogni tanto si fermava per ascoltare i rumori della foresta: si avvicinavano, li sentiva, sentiva che abbattevano i rami degli alberi per farsi strada.

Saltava sui sassi umidi, rischiava di cadere, ma continuava ad andare avanti. Quando le sembrò di aver percorso abbastanza strada nell’acqua, decise di uscire dal torrente. L’argine era alto in quel punto, si arrampicò conficcando le unghie nella terra, ben attenta a non toccare i cespugli spinosi e taglienti che aveva accanto ma, quasi in cima alla sponda, ormai a tre metri dall’acqua del torrente, i piedi persero l’appiglio sul terreno scivoloso del greto e scivolò giù, finendo con i piedi su un arbusto spinoso e poi schiantandosi duramente sui massi del greto. Infine scivolò in acqua, dove la corrente la trascinò qualche metro più a valle.

Tramortita, riuscì ad afferrarsi a una canna e a trascinarsi a riva. Sentì la gamba sinistra bruciare, si rialzò e si trascinò sotto un albero lì vicino per riprendere fiato.

Si tolse i capelli fradici dal volto e tossì nel gomito per fare meno rumore possibile, poi ascoltò: per un attimo sentì silenzio; forse il trucco del cambio di direzione aveva funzionato. Ma poi le voci ripresero, in lontananza. Gente che chiamava. Avevano capito il trucco? Ed erano già troppo vicini a lei, erano troppo veloci, erano disumani: non riusciva a seminarli. 

Tremava: faceva freddo ed era completamente bagnata. Si sfilò il cardigan di lana infeltrita, che si era inzuppato nella caduta ed era diventato pesantissimo, e lo lanciò dall’altra parte del fiume (magari l’avrebbero visto e avrebbero perso tempo a capire se fosse una traccia), si tirò su il cappuccio della felpa e cercò di farsi strada tra i rami, tagliandoli con il coltello da caccia e avanzando faticosamente.

 

~

 

Stufo per l’inseguimento, e soprattutto stufo di stare vicino a Rob Lucci, Jabura fece un salto e partì con Soru tra gli alberi della foresta, stringendo la vivre card e avanzando veloce come un lupo nei boschi grazie al suo Rankyaku saettante, con quei lupi azzurri che sembravano mangiare rami e cespugli.

«Lili!!» gridava. «Fermati, cazzo!»

Ma non era nemmeno sicuro che riuscisse a sentirlo.

 

~

 

Lili all’improvviso uscì dal bosco e si ritrovò in una prateria. Era senza fiato. Si guardò intorno: era allo scoperto, nella fuga si era persa, era finita in un luogo senza alberi e senza nascondigli. Non c’erano nemmeno più le piante basse e taglienti, non aveva mai visto quel posto. Un piazzale enorme di erba gialla e alta al centro della foresta dai cespugli taglienti.

Attraversò l’erba davanti a lei e si accucciò al centro della pianura, strinse i denti e contò di nuovo i proiettili, poi strisciò verso il limitare della spianata, arrivando ai primi alberi per avere protezione. Le arrivavano voci che erano sempre più vicine. Ormai era tragicamente palese che non ce l’avrebbe fatta a seminarli. Fine della corsa. Stava battendo i denti per il freddo e per la paura, ma era così spaventata che non se ne accorgeva neanche.

Si accovacciò dietro un cespuglio, aguzzò lo sguardo tra le foglie sottili e pungenti. 

Vide del movimento dalla parte opposta della pianura: una sagoma scura avanzava nell’erba gialla.

Prese la mira.

Jabura, ignaro, rallentò. Davanti aveva ancora qualche metro di frasche, poi il sole lasciava intravedere finalmente una radura e, ancora oltre, la ragazza. Non la vedeva bene, nascosta tra l’erba, però la percepiva chiaramente con l’Ambizione.

Lilian sparò puntando al petto.

Click!

Jabura, sentendo il rumore di un grilletto, irrigidì i poderosi pettorali con il Tekkai, ma non serviva. La pistola di Lili si era bagnata, il colpo non era partito.

La ragazza sbiancò terrorizzata, si era tradita inutilmente.

Si alzò per ricominciare a correre, ma Jabura alzò le mani e gridò: «Fermati Lili, sono io!»

«Io chi?»

«Io, Jabura!» 

«NON RACCONTARE PALLE!» urlò la preda, senza abbassare l’arma. «CHE CAZZO VUOI?»

Cazzo, pensò Jabura, era parecchio nervosa.

Meglio farsi riconoscere subito. L’uomo si avvicinò ancora e, ormai a poche decine di metri, gridò: «Che c’è, non mi riconosci più?» e si mise allo scoperto, nella radura priva di alberi che li separava. Adesso la vedeva benissimo: era sporca e bagnata come un cane, ma era proprio lei.

Anche Lilian vedeva Jabura, e il suo cervello, semplicemente, si spense.

Fece un passo in avanti barcollando come in trance, sempre con quella pistola fradicia puntata in avanti.

Non era possibile.

Ma quella voce… quella voce la ricordava bene, anche se erano passati due anni che sembravano cento.

Non si accorse nemmeno delle due lacrime che scivolarono giù lungo le guance scavate dalla fame.

«Sei… sei tu?»

«In muscoli e artigli, tesoro.» sghignazzò l’agente avvicinandosi ancora.

«Come… come si chiamava il bar dove andavi sempre, sull’Isola dell’Inverno?» 

Brava ragazza, mai fidarsi delle apparenze. «Il bar di Gigi l’Unto. Ed era sull’Isola della Primavera, non dell’Inverno.» rispose Jabura.

Lilian scoppiò a piangere e attraversò la piana correndo, incespicando tra gli sterpi e finalmente approdò sull’ampio petto del Lupo, che la strinse con trasporto, e si lasciarono scivolare in ginocchio sull’erba.

«Se fai così penserò che ti sono mancato!» la prese in giro. «E che diavolo hai fatto ai capelli?» disse scherzando, ravviandole i capelli gelidi, zuppi, corti in alcuni punti e più lunghi  in altri. 

Non rispondeva. Jabura sentì le braccia magre circondargli la vita, e i singhiozzi sconnessi gli fecero spegnere il ghigno. Qualche domanda si affacciò alla sua mente: che ci faceva lì? perché era in quello stato? «Ehi, tranquilla. Ti sei solo spaventata, va tutto bene.» mormorò a voce più bassa. La abbracciò anche se era completamente bagnata, le accarezzò la testa per calmarla. Lo sguardo gli cadde sui piedi della ragazza, sentì l’odore ferrigno del sangue.

«Sei caduta nel torrente, vero?» le chiese. «Fammi vedere…»

Sollevò il largo pantalone quel tanto che bastava per scoprirle la gamba: lo scivolone sui sassi le aveva aperto una bella ferita che andava dalla metà dello stinco alla caviglia, il sangue brillava tra il fango e le foglie marce. Forse l’adrenalina non le stava facendo sentire dolore, ma non ce l’avrebbe fatta a correre a lungo. Abbassò il sipario sopra quello spettacolo. La ragazza piangeva ancora disperata, stringendosi a lui con talmente tanta forza che sembrava gli volesse entrare in petto. E tremava così tanto che sembrava di abbracciare un piccolo terremoto. Jabura si sfilò la felpa e gliela sistemò addosso.

«Che ti è successo…?» mormorò, ma in quel momento arrivarono gli altri agenti.

«Che razza di condizioni… sarà in grado di pilotare l’aereo?» proferì una voce severa.

La ragazza si pietrificò, il Lupo lesse lo stupore sul suo volto. «C’è anche Kaku.» le disse.

Un’altra voce altera e dura rispose: «Lo spero per lei.»

«Ma che le prende?» si chiese Kaku, guardandola con curiosità mista a ripugnanza.

Lilian Rea guardò i tre uomini, incredula, tra i singhiozzi. Cercò di tirarsi in piedi, ma la gamba sinistra non glielo consentì, rimase a terra a quattro zampe e poi svuotò lo stomaco davanti ai piedi di Rob Lucci.

L’uomo fece un passo indietro, disgustato. «Questa non ci sale, sulla barca.»

Jabura si voltò verso il leader: «Non ce la fai proprio, a non fare lo stronzo per cinque minuti?» lo rimbeccò, spostando la ragazza dal proprio vomito. 

«Io, a differenza tua, tengo gli occhi puntati sulla missione.» 

«E su nient’altro.» sentenziò il Lupo troncando la conversazione. Sollevò Lilian prendendola in braccio da dietro le spalle e da dietro le ginocchia, e si rivolse al rivale: «L’aereo non ti serve a niente, se non tieni la pilota in buone condizioni. Andiamo cocca, hai bisogno di una doccia.»

 

~

 

Jabura depositò la ragazza davanti alla porta del minuscolo bagno, nel ventre caldissimo e accogliente della nave.

«Lavati e poi ti aiuto a medicarti.» le promise con una pacca su una spalla.

Lili aveva lo sguardo basso, era abbracciata alla busta con le sue povere cose dentro, e tremava. 

«Ehi» con due dita sotto il mento Jabura le sollevò la testa. Lili si ritrasse spaventata, ma l'uomo disse solo: «Non sprecare troppa acqua.» 

L'informazione crudamente pratica sembrò riportare la ragazza alla realtà. «No, no… certo…» mormorò tirando su col naso. 

L’agente aprì la porticina e mise un piede nel minuscolo bagno, ma all’apparenza non c'era nessuna doccia; l'uomo afferrò con decisione il braccio del rubinetto del lavandino e lo tirò a sé: invece di rompersi, si staccò docilmente dal lavabo, rivelando un tubo di gomma che scendeva dentro al mobiletto. Jabura appese il braccio del rubinetto a un gancio in alto, sul muro, ed ecco formarsi la doccia. L'acqua sarebbe defluita dentro le fessure sul pavimento, che probabilmente scaricavano a mare. 

«E non uscire prima di essere presentabile.» le intimò Rob Lucci, affacciatosi dal boccaporto d’ingresso in coperta. 

Jabura risalì la scaletta apposta per tirargli una pedata, e cominciò una rissa sul pontile sedata a fatica da Kaku. Poi il Lupo lasciò fuori alla porta del piccolo bagno dei suoi vestiti puliti, perché Lili potesse cambiarsi.

 

~

 

«Allora?» incalzò Lucci. «È in grado di pilotare?»

«Ma sei cieco, oltre che stupido?» ringhiò Jabura tornando sul ponte. «Non hai visto che non aveva nemmeno la forza di tenere gli occhi aperti? Falla lavare e lasciala riposare. Tra qualche ora risponderà a tutte le tue domande da stronzo… ricordati che se quella ragazza non si riprende, il tuo aereo te lo scordi.»

«Ehi.» li richiamò entrambi Kaku. «Non distraetevi. Che facciamo? Rimaniamo ancora qui?»

Lucci prese le redini della situazione. «Neanche per sogno. Leviamo le ancore, proseguiremo verso nord e ci fermeremo nel primo porto disponibile dove non rischiamo di intossicarci.»

 

~

 

Shanks, a dispetto del suo ruolo di Imperatore, era una persona gioiosa, una persona comprensiva, un compagno su cui contare per una bevuta e una spalla su cui poter piangere.
Però essere convocati nella sua cabina non era mai un buon segno, Bibi lo sapeva benissimo e nel momento in cui aveva varcato quella soglia aveva capito di essere davvero nei guai.

Non era la sua camera da letto, lui preferiva il dormitorio comune con i compagni più fidati oppure semplicemente il ponte di prua, sotto le stelle. C'era una branda, ma Shanks non la usava mai: avrebbe dovuto condividerla con vecchie mappe, vecchi scatoloni pieni di oggetti trovati chissà dove, Log Pose rotti, calamai vuoti, pennini spuntati, un grande cuscino dove Roccia, la scimmia del colossale Vanja, andava sempre a sonnecchiare.

Sul grande tavolo di legno massiccio e dalle gambe a forma di piedi di creatura marina erano srotolate tre mappe, tenute ferme da tre candelabri a cinque braccia che sgocciolavano cera pallida lungo i loro lunghi steli. Non tutte le candele erano accese, alcune erano spente, altre mancavano del tutto. I tre oblò, in genere aperti, erano stati chiusi.

Shanks era seduto a un capo del tavolo.

Bibi dall'altra parte.

Benn Beckman camminava piano alle spalle della ragazza.

«Da quanto tempo va avanti?» Shanks era arrabbiato e rattristato, nella penombra di quella sera sulla Red Force.

Bibi non rispose, tenne gli occhi bassi. Ma non era pentita, e si vedeva.

«Da quanto tempo?» ripeté paziente il Rosso.

Bibi aprì la bocca e proferì: «Una lettera prima di quella.»

«Almeno quattro mesi.» fece rapido il conto Benn Beckman, voltandosi così di scatto da far tremolare le candele con lo spostamento d'aria.

Avevano beccato una delle lettere che Bibi inoltrava ai Rivoluzionari per caso, perché l'occhio acuto di Benn aveva notato nel cestino della cambusa dei rimasugli di limone. E si era detto "no, ma cosa vado a pensare". Però poi aveva notato che in quel periodo Bibi, come concordato, avrebbe mandato delle lettere ad Alabasta. E aveva pensato di nuovo: "ma no, è una coincidenza". Però più ci pensava, e più il suo istinto gli diceva che le coincidenze non esistono, così quando Bibi gli aveva consegnato innocentemente la lettera perché venisse spedita, e lui l'aveva letta per accertarsi che non contenesse elementi compromettenti, aveva studiato la reazione di Bibi quando si era pericolosamente avvicinato a una candela accesa.

No, le coincidenze non esistono.

La Percezione sulla ragazza registrava una nenia insistente, come se si stesse concentrando con caparbietà sui versi di una canzone sentita per radiolumacofono i giorni prima: molto sospetto.

Infine, glielo aveva confermato la smorfia di Bibi durata solo una frazione di secondo -abbastanza-, e glielo aveva confermato quell'intricata cornice bruna che, piano piano, appariva sul margine della missiva.

Shanks sospirò. Era difficile fare il padre. «Bibi, non ti abbiamo mai messo vincoli. Perché fare le cose di nascosto?»

A Bibi la risposta sembrò ovvia: «Perché mi avreste messo vincoli.»

Benn Beckman non disse niente, segno che probabilmente Bibi aveva ragione. Col cazzo che avrebbe fatto partire lettere del genere dalla Red Force, lui.

Il Rosso era arrabbiato, ma contemporaneamente provava una sorta di affetto per Bibi. Diamine, avrebbe potuto essere sua figlia, aveva quasi la stessa età di Rufy, erano sul mare insieme da due anni, avevano condiviso piogge, temporali, battaglie (anche se a volte Shanks non permetteva a Bibi di partecipare, ed erano battaglie talmente ciclopiche che la regina aveva il buon senso di ascoltarlo, per fortuna), gattini abbandonati, gelosie (di Karl), influenze, polmoniti e mal di gola. Non era una piratessa, eppure era in qualche modo "una dei suoi", ormai.

«Mi dispiace non avervene parlato.» ammise Bibi in fretta. «Ma credevo che non me l'avreste lasciato fare, mentre invece credo sia importante.»

Mandare lettere ai rivoluzionari dando appuntamenti a Marijoa per quando ci sarebbero andati loro. Certo che era importante!

«Proprio perché era importante avresti dovuto dircelo.» disse Benn. «Siamo in mezzo al mare da più tempo di te. Un minimo di esperienza in più ce l'abbiamo.» la sferzò.

Era difficile mettere in soggezione Bibi Nefertari.

Ma loro erano Shanks il Rosso e Benn Beckman.

Shanks sospirò. «C'è altro che dovremmo scoprire?» disse, dandole la possibilità di vuotare il sacco ed essere sincera.

Bibi scosse la testa. «È tutto.» poi aggiunse: «Ma a un certo punto ve l'avrei detto. Solo… volevo prima mettere a punto il mio piano.»

«Che piano?» chiese l'Imperatore.

Bibi strinse le labbra. «Volevo… insomma, pensavo che quando sareste saliti a Marijoa con l'aereo di Caro Vegapunk, avreste potuto rimettere in funzione le bondole…» poi si diede un contegno: andiamo, era la regina di Alabasta. Stava mettendo a punto un accordo con i Rivoluzionari. Fece un sospiro e riprese con più sicurezza: «Vogliamo sbloccare le bondole che portano a Marijoa. I Rivoluzionari potranno salirci, rovesciare i Draghi Celesti e dichiarare l'indipendenza delle nazioni. Tutta la Grande Armata e il Cipher Pol Aigis Zero saranno impegnati sul vostro fronte: è il momento migliore per colpirli… saranno più esposti.»

I due uomini la fissavano, muti.

Bibi aggiunse, torturandosi le mani: «Avrebbe funzionato anche da diversivo, credo… no?»

 

~

 

Erano salpati da un po’; dalle nubi pesanti e plumbee della cittadina mineraria avevano fatto capolino le prime stelle, e la notte era diventata meno buia, meno fosca. La nave si era fatta strada nella notte d’inchiostro, lasciandosi alle spalle una scia bianca. 

Mille casette brillavano nel buio della terraferma, lontano lontano, e poi sparivano.

L’aria pesante di metalli e carbone di Bitter Gold O’Mine era lontana, e finalmente il vento del mare aveva spazzato i ponti della Catarina, restituendo respiri profondi ai tre uomini a bordo. 

«Tra poco finisce il mio turno al timone.» ricordò Kaku a Jabura.«Se devi fare qualcosa, falla subito, perché poi tocca a te e per tre ore non ti muovi da qui.»

«Sì sì, ok… pensi che me ne dimentichi?» sbottò di malavoglia il Lupo, alzandosi da terra, dove si era seduto a sonnecchiare. 

Si stirò e si diresse sottocoperta, scendendo le ripide scalette del boccaporto d’ingresso. Era diretto verso la cucina, per prendere un sorso di acquavite dalla sua fiasca e mangiare un boccone di qualsiasi cosa gli fosse capitata a tiro. Ma, appena messo il muso nel grande ambiente che divideva le tre cuccette e faceva anche da cucina e sala da pranzo, notò Lili.

Dormiva tranquilla sulla grande panca, con la testa sullo spartano tavolo, sotto una coperta di pile blu notte. Aveva addosso gli abiti puliti e asciutti che le aveva dato, e vicino aveva una busta di plastica con dentro i pochi averi che aveva portato via dalla sua tana: della biancheria stinta, un quadernino piegato dall’umidità, qualche elastico per i capelli, degli assorbenti ancora sigillati. Roba che probabilmente Lucci si stava trattenendo dal bruciare. 

Si era procurata una brutta distorsione alla caviglia, e si era ferita cadendo sulle foglie acuminate, però era stata da lui stesso medicata e consolata, e la ferita era chiusa da una serie di steri-strip e fasciata a dovere. Le dita nude dei piedi spuntavano dall’orlo del pantalone di tuta, penzoloni dall’alto della panca su cui era seduta, costruita sulle esigenze di tre omaccioni alti circa due metri. 

«Ehi… Lili…» la chiamò cauto, scuotendola per il braccio.

Lei si svegliò di soprassalto, disorientata. Si guardò intorno: era su una barca. Sulla Catarina.

«Calma, sono io… se vuoi dormire più comoda, puoi usare la mia cuccetta. Sono di turno al timone, non mi serve.»

L’aveva chiamata cuccetta, ma per Lili, che dormiva in un bosco da tanto tempo, era un letto vero. Aveva un materasso, aveva delle coperte, c’era persino un cuscino floscio che riposava fiacco contro la parete. La ragazza si stese sotto le coperte e abbracciò il cuscino, che odorava di muffa e di Jabura.

«Che hai da sorridere sotto i baffi?» chiese brusco Lucci a Jabura, guardandolo che reggeva il timone tutto orgoglioso come se avesse appena ammazzato qualcuno.

«Fatti i cazzi tuoi.»

 

~

 

Il mattino dopo, la Catarina gettò le ancore nel porticciolo di Albuquerida, un posto del tutto dimenticabile sulla Red Line. 

«È bello vederla, boss.» sorrise Lilian Rea Yaeger, seduta al tavolo sotto coperta, e avvolta in un morbido plaid. Una volta sveglia, aveva divorato tutto quello che i tre le avevano messo davanti: biscotti, merendine, prosciutto, formaggio, una confezione di riso pronto, e bevuto acqua e aranciata. Nella foresta doveva essere difficile procurarsi del cibo.

«Dove hai messo l’aereo?» chiese immediatamente lui, andando al sodo e togliendole senza pietà il piatto con i rimasugli di formaggio.

«E cos’è successo a Catarina mentre eravamo in forma Zoo-zoo?» chiese Kaku requisendole il pacco di merendine.

Lili si tenne stretta un pacco di biscotti. Quante domande. Cercò di ripescare dalla memoria i ricordi di due anni e mezzo prima. Sembravano passati secoli. Guardava gli uomini davanti a lei… non pensava che un giorno li avrebbe rivisti. Il modo di spostare il peso da un piede all'altro di Kaku, gli occhi freddi e inquisitori di Rob Lucci, Jabura teso in avanti come un lupo a caccia, tutti in attesa del suo racconto. 

Si coprì il volto con le mani per ritrovare le parole, e cominciò dall'inizio di quella storia: «Era mattina. Eravate tutti tornati da poco dalla missione a Brix. Poi mi ricordo che bussò Souzette, la figlia di Gigi, e ci disse che tu» si rivolse verso Jabura «ti eri trasformato in lupo e avevi perso il controllo. Subito dopo Kaku, dal primo piano, si deve essere trasformato e ha sfondato il soffitto della mensa, cadendo giù… sono andata a chiamare lei, boss, ma… anche lei si era trasformato. Non riconosceva nessuno, nemmeno il povero Hattori…» 

Poi forse notò un lieve trasalire in Lucci, perché aggiunse: «Hattori stava bene, finché sono stata a Catarina… ma non so dove sia. Mi dispiace.» 

Poi riprese il racconto, rivolgendosi a Lucci e a Kaku: «Voi due eravate già nella Torre, gestire l’emergenza fu meno complicato. Tu invece stavi devastando la taverna di Gigi L’Unto, abbiamo chiamato una guardia forestale per sedarti.» disse verso Jabura. «Vi abbiamo chiuso in tre stanze diverse del pianterreno e vi davamo da mangiare attraverso una fessura nella porta.» si sentì in dovere di aggiungere: «Sono mortificata, boss, non… non ci riconoscevate…»

«Non mi interessano le chiacchiere. Dov’è l’aereo?» tagliò corto l’uomo. 

Lili sospirò e scosse la testa. Non riusciva a rispondere.

«Allora?» incalzò Lucci. Non era bravo con gli interrogatori, preferiva le esecuzioni.

Jabura le fece un cenno col capo per dirle di parlare senza paura: vuota il sacco, non ti faccio succedere niente.

Lilian si fece coraggio, e mormorò: «Mi ci sono schiantata due anni fa.»

 

 

 

 

Dietro le quinte...

Eeeeeed eccomi qua! Bene!

Poco da dire a questo giro, salvo Bibi che si fa beccare come una polletta da Shanks e soci... ma non bisogna arrabbiarsi, lei è intelligente, ma loro hanno trent'anni di più! 
Mentre Lili poveretta, ma cosa le è successo?? 

Spero che il titolo del prossimo capitolo vi intrighi... sarà CAPITOLO DUE.

Arrivederci a presto!! (rispondo appena possibile alle recensioni! grazie tantissimo ♥♥♥)

Yellow Canadair

 

  
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