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Autore: Ode To Joy    12/05/2022    1 recensioni
[Dazai & Mori Centric]
[Spin-off di “Poems By A Ghost”]
Dazai non aveva la minima idea di chi fosse Mori Ougai, ma non vi era alcun timore nel modo sfacciato in cui lo scrutava. Starnutì.
Nel silenzio assoluto della stanza, suonò come un colpo di pistola. Mori saltò come una molla e la lametta gli tagliò la pelle. Poche gocce di sangue caddero nel lavandino, andando a mischiarsi a quelle che rimanevano del vecchio Boss.
Brutto presagio.
“Oh, ti sei distratto,” commentò Dazai, con voce incolore. “Ma dalle cicatrici che hai sulla schiena, sei abituato a essere colpito alle spalle.”

[…]
Un passo indietro, all’inizio della storia, ai giorni in cui Mori muoveva i suoi primi passi come Boss e Dazai cominciava la sua educazione per divenire il più giovane dei cinque Dirigenti.
La nascita della Port Mafia come Yokohama la conosce oggi.
[Trans!Dazai] [Accenni Fukumori]
Genere: Drammatico, Introspettivo, Mistero | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kouyou Ozaki, Nuovo personaggio, Osamu Dazai, Ougai Mori, Ougai Mori, Ryurou Hirotsu
Note: What if? | Avvertimenti: Tematiche delicate, Violenza
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'These Brand New Pages'
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0.2

 

Ernst Jünger era inquieto.

Il suo campo sorgeva a una cinquantina di chilometri da Colonia e aveva a sua disposizione abbastanza uomini da tenere il confine, ma erano sprovvisti di portatori di abilità. Di fatto, non stavano andando da nessuna parte.

Una striscia di fango, sangue e filo spinato divideva le forze tedesche da quelle francesi. Quest'ultime, inoltre, potevano godere dell’appoggio del vicino alleato Belgio. L’epica guerra - la Grande Guerra - tra semi-divinità, di cui già scrivevano i romanzieri e cantavano i poeti dell’età contemporanea, si era spostata più a sud. 

Ernst Jünger era l’unico possessore di abilità sul quel campo di battaglia, ma il suo potere non era utile in una strategia di attacco. La sconfitta di Parigi era stata troppo per il Governo di Germania. 

“Il Generale Jünger non si è dimostrato idoneo al compito assegnatogli.” Erano state le parole del portavoce del consiglio. “Per tanto, la Germania non lo ritiene più in grado di restare alla testa dell’Armata di Dotati di Abilità. Non verrà, tuttavia, privato del suo grado. Non appena il Consiglio di Guerra avrà valutato con attenzione la sua situazione, verrà riassegnato a un’altra armata, su di un nuovo fronte. Da oggi in poi, verrà tenuto all’oscuro di ogni piano top secret del Dipartimento Speciale.”

Ernst Jünger era stato mandato a combattere una guerra di trincea tra comuni esseri umani, dove gli uomini morivano come topi su entrambi i fronti ed erano più i proiettili sprecati che quelli che centravano un bersaglio vivo.

Se qualcuno avesse vinto la guerra non sarebbe accaduto lì e, soprattutto, non sarebbe mai avvenuto per sua mano. Per il suo orgoglio di uomo e di soldato non esisteva sconfitta e umiliazione peggiore. La storia si sarebbe ricordata di lui nel più pietoso dei modi e tutto per colpa di un moccioso di poco più di vent’anni, che si era rifiutato di usare il suo potere per decimare un’intera nazione.

Che Johann Goethe fosse maledetto, insieme ai suoi alti principi morali e alla sua puttana giapponese. Che bruciassero tutti e due all’inferno, insieme a quell’abominio che avevano messo al mondo. 

L’Arma di Weimar. Jünger sperava con ogni fibra del suo essere che il Governo di Germania prendesse quella bambina e ne facesse ciò che riteneva più utile per le sorti della guerra. Solo allora Johann Goethe e Mori Rintarou sarebbero stati dilaniati a sufficienza dagli eventi di quel conflitto, così come lo era ora lui.

L’aria della notte penetrava nella tenda gelida e fastidiosa, ma Ernst Jünger, seduto con gli stivali affondati nel fango, non sentiva il freddo, né i crampi della fame - era da un po’ che non mangiava. La sua barba si era fatta incolta e i capelli biondi erano unti e gli ricadevano scompostamente sugli occhi. L’immagine del soldato integerrimo era ormai un lontano ricordo. Andava avanti nel suo lavoro per pura inerzia, perché della Germania non gli importava sinceramente più nulla.

Al centro della sua scrivania, tra le mappe del campo di battaglia scarabocchiate con la posizione dei suoi soldati e quella dei nemici, saltava all’occhio una lettera che portava il sigillo dell’esercito tedesco. Era lì da almeno una settimana e, a causa dell’umidità, cominciava a ripiegarsi su se stessa. 

Jünger l’aveva letta una sola volta. Non era servita una seconda occhiata: il messaggio di poche parole era molto chiaro nel suo tragico significato. Forse avrebbe dovuto scrivere a sua moglie. Se lei lo aveva fatto, era probabile che le lettere fossero rimasta bloccate a Colonia e non c’era altro mezzo di comunicazione per raggiungerlo lì, dov’era.

La schietta e crudele verità era che a Jünger non importava più nulla nemmeno della donna che aveva sposato. La sola ragione per cui non estraeva la pistola e non si piantava una pallottola in testa era perché la sua natura di soldato glielo impediva. Le sostanze stupefacenti erano la sua unica consolazione, un vizio che aveva fatto suo ben prima che quel conflitto di dotati di abilità cominciasse. Era illegale, sì, ma gli permetteva di evadere dalla realtà quanto bastava per evitare di fare di peggio.

Certo, la Grande Guerra lo avrebbe ucciso, ma lo avrebbe fatto come si addiceva a un uomo del suo calibro: sul campo di battaglia.

Nella notte, giunse alle sue orecchie l’urlo di dolore di un uomo in lontananza. Doveva trattarsi di uno dei feriti o di qualcuno tornato alla realtà, dopo un incubo particolarmente violento. Il vento si fece più impetuoso e l’ingresso della sua tenda si aprì per pochi secondi, mostrandogli un’immagine veloce del campo silenzioso. Ma non vide solo quello.

Attirato dall’impressione di aver scorto qualcosa nel buio, il Generale Jünger sollevò la testa e aspettò che il vento sollevasse il tendaggio una seconda volta. Accadde: la figura si era fatta più vicina e, per il tempo di un respiro, Jünger riuscì a vedere i suoi occhi. Brillavano di una luce violacea.

“Rintarou…” Chiamò. 

Il giovane dai capelli corvini emerse dall’oscurità, facendo due passi all’interno della tenda. Jünger inspirò dal naso: nella notte, gli era parso un Demone e, invece, era solo un ragazzo. Quanti anni aveva? Forse venti. Jünger ricordava solo che era poco più giovane di Johann.

“Che cosa ci fai qui?” Domandò il Generale. 

Rintarou non rispose. Il suo viso non indossava nessuna espressione in particolare e i suoi occhi erano due pozzi neri, senza luce. Aveva addosso la divisa dell’esercito tedesco, ma era sporca di fango e sangue.

Per nulla interessato alle ragioni che avevano spinto quel giovane ad affrontare un viaggio da Weimar a Colonia, Jünger si alzò in piedi. “Ascolta,” disse, stancamente. “Come saprai, non sono più al comando dell’Armata Speciale e tutto ciò che concerne Johann non mi riguar-“

Forse per la stanchezza, forse per le sostanze chimiche che circolavano nel suo sangue, Jünger non vide Rintarou muoversi. No, sentì solo la lama che penetrava nell’addome, sul lato sinistro. 

“Quando ero bambino, mio padre mi raccontò che, un tempo, la nostra era una famiglia di samurai,” gli sussurrò Rintarou all’orecchio, come se gli stesse rivelando un segreto. “Forse è per questo che le lame mi affascinano più delle armi da fuoco.” Fece un passo indietro.

Jünger barcollò per un paio di metri in un misero tentativo di mettersi in salvo, poi cadde riverso sul terreno fangoso. Nella confusione accentuata dal dolore cercò l’elsa del pugnale, ma Rintarou fermò la sua mano tremante premendovi sopra il tacco dello stivale. Vi appoggiò tutto il peso del corpo e le ossa si ruppero con un sonoro crick.

Jünger emise un lamento gutturale e tossì sangue.

Rintarou storse la bocca in una smorfia contrariata. “Penso di averti preso il fegato, avrei dovuto pugnalarti più in basso. Perdonami, sono giovane e mi serve ancora tanta pratica.”

Sul terreno, Jünger si dimenava, cercando con la mano sana qualcosa che non c’era: la pistola era rimasta sulla scrivania. 

“Johann è morto,” disse Rintarou e un bagliore violaceo illuminò i suoi occhi scuri. “Mi hanno consegnato la sua testa. Il viso era deturpato. Non ho idea di dove sia il resto del corpo.”

Jünger apprese quella notizia con gioia. Nonostante il sapore del sangue in bocca, sorrise come un uomo completamente privo di ragione. 

Rintarou premette lo stivale vicino alla ferita che gli aveva inferto e il Generale urlò di dolore, sputando altro sangue, che si andò a mischiare col fango.

Il giovane dai capelli corvini s’inginocchio accanto alla sua testa. “Johann non è caduto in battaglia, ma è stato assassinato,” disse. “Sei tu il mandante?”

Jünger gli sputò addosso, ma riuscì solo a sporcargli la parte alta degli stivali col proprio sangue.

Rintarou alzò gli occhi al cielo. “Diciamo che sei tu il mandante, ma sei troppo snob per andarti a sporcare le mani in una maniera tanto macabra. No, a te piace dare ordini. Bene, a chi hai ordinato di uccidere Hans?”

Jünger rideva. La compostezza che lo distingueva era ormai andata al diavolo. La morte stava arrivando e il Generale le rideva in faccia, sprezzante.

“Avete pagato il prezzo per la vostra superbia, mocciosi,” sibilò, come un serpente velenoso. “Credevate davvero che il mondo avrebbe giocato secondo le vostre regole? Johann Goethe ha condannato se stesso nel momento in cui non ha decimato la Francia e i suoi alleati e ha trascinato nell’abisso anche te!”

Mori strinse le labbra, poi allungò la mano sull’elsa del pugnale, rigirando la lama nella carne. Jünger prese a urlare e dimenarsi, mentre altro sangue risaliva su per la gola.

“Sì, penso di averti preso il fegato,” disse Rintarou, spostandosi sopra di lui per tenerlo fermo. “Pazienza, non morirai velocemente comunque. Usa quell’inutile abilità che ti ritrovi e dimmi dove si trovano gli assassini di Hans,” ordinò, gelido. “Anche ammesso che tu non abbia nulla a che fare con questa storia, ne conosci senza dubbio i colpevoli.”

Non appena smesso di urlare, Jünger cominciò ad annaspare, come se gli mancasse aria.

“Piantala, i tuoi polmoni funzionano ancora benissimo.” Rintarou lo torturava con la stessa calma con cui avrebbe aperto un cadavere per la lezione di anatomia del giorno. Johann Goethe non aveva avuto il coraggio di massacrare una nazione, ma Mori Rintarou era nato per uccidere.

Da parte sua, Jünger non aveva più nulla da perdere ed era troppo pragmatico per sprecare tempo a invocare pietà. “Non vuoi sapere dov’è la piccola Elise, Rintarou?”

Qualcosa cambiò nello sguardo del più giovane. Il gelo si tramutò in fuoco e un nuovo bagliore violaceo illuminò quelle iridi scure. Jünger poteva avere una lama infilata nel fegato, ma il giovane Rintarou ne aveva una nel cuore.

“Ah, ti hanno portato via anche lei.”

Rintarou digrignò i denti, come una belva pronta a sbranare la sua preda. “Dimmi dov’è?” Gli bastò così poco per perdere il controllo.

Jünger glielo lesse negli occhi: l’assassinio di Johann passava in secondo piano, se c’era una possibilità di riavere sua figlia viva.

“Dimmi dov’è e ti sarà risparmiata l’agonia!” Urlò Rintarou. 

Era partito bene: freddo e controllato. Nel momento in cui Jünger aveva nominato ciò che amava di più al mondo, aveva smesso di essere l’assassino a sangue freddo per essere solo un giovane genitore disperato. 

“Vedi la lettera sulla mia scrivania?” Domandò Jünger.

Rintarou non si voltò nemmeno.

“È la comunicazione ufficiale dell’esercito che m’informa che mio figlio è morto in battaglia,” proseguì il Generale. “Era uno dei dispersi di Parigi, la sconfitta che Johann avrebbe potuto evitare, se avesse seguito la tua strategia fino in fondo. Ha tradito te, prima di tradire l’intera Germania!”

Rintarou non lo ascoltava. Lo afferrò per il bavero della divisa da soldato. “Dimmi dov’è Elise!”

Jünger allargò le braccia. “Il Governo mi ha chiuso fuori da tutte le missioni e tutti i progetti top secret. Sappiamo entrambi che puntavano a tua figlia da quando è nata.”

“Voglio sapere dove si trova!”

“Lo stai chiedendo al mio potere, Rintarou?” Domandò Jünger. “Ho il bel faccino d’angelo di tua figlia impresso in testa. Non importa dove si trovi in questo momento. Se è ancora viva, il mio potere potrebbe essere in grado di trovarla senza errori…” Una pausa crudele. “Se tua figlia non fosse l’abominio in grado di annullare tutte le abilità. È un’arma, Rintarou, e il suo destino è quello di cui tu e Johann avevate tanto paura e non c’è alcuna cosa che tu possa fare per-“

Rintarou non gli permise di aggiungere una parola di più. Afferrò l’elsa del pugnale e usò tutta la forza del braccio per spingerla in su, verso le costole. Jünger urlò come non aveva mai sentito urlare nessun essere umano. Quando non riuscì più a usare la voce, si contorse. Rintarou ebbe difficoltà a tenerlo fermo.

Quando sentì il polso destro tremare per lo sforzo, il giovane si aiutò con la mano sinistra. Il sangue zampillava in ogni dove: sul suo viso, sui suoi vestiti e sul terreno fangoso.

Andò avanti per quelle che parvero ore, ma furono pochi, terribili, minuti.

Quando si rese conto che Ernst Jünger non si muoveva più, Rintarou si fermò.

Sollevò la schiena, il fiato corto per lo sforzo e il corpo completamente indolenzito. Guardò quanto aveva fatto e non gli fece alcun effetto.

“Maledizione!” Urlò. Si sollevò in piedi e prese a calci il cadavere dell’uomo, fino a che non scivolò a terra, privo di forze. Ignorando il sangue sulle sue mani, infilò le dita tra i capelli corvini. Aveva la gola chiusa e stava per mettersi a piangere di nuovo. Il potere era lì, in fondo al suo petto e batteva veloce come il suo cuore. 

Rintarou non provò a sopprimerlo ma, al contrario, concentrò tutta la sua rabbia su di esso. Sollevò lo sguardo e lo rivolse fuori dalla tenda, verso la notte.

I suoi occhi scuri divennero un viola vibrante.

Un respiro più tardi, un bagliore dello stesso colore ridusse a pezzi tutto ciò che aveva intorno. 

Vite umane comprese. 



 

VIII
Secondo Atto


-12 anni dopo-


Mori svegliò Dazai di buon’ora e lo portò con sé al quartier generale della Port Mafia.

Quando varcò la porta dell’ufficio in cima al grattacielo principale, il quattordicenne non era ancora riuscito a liberarsi del tutto del sonno. Mori alzò le tapparelle elettriche senza nemmeno disturbarsi ad avvisarlo. Il sole che sorgeva inondò la stanza e Dazai fu costretto a stringere gli occhi e a coprirli con entrambe le mani.

“Mori!” Si lagnò ad alta voce. 

“Non abbiamo tempo da perdere,” disse Mori, quasi cinguettando. 

Era troppo presto per essere tanto allegri.

Irritato oltre l’inverosimile, Dazai lo spiò attraverso le dita aperte. “Pensavo non volessi più mettere piede qui,” disse. “Almeno per un po’.”

“Vero,” confermò il Boss, togliendosi sia il cappotto nero che la giacca per abbandonarli in modo sgraziato sopra la scrivania. “Ma dobbiamo preparare il tuo debutto in Europa e questo è il posto più sicuro per farlo.”

Dazai allontanò le mani dal viso, animato da un’espressione orripilata. “Il mio ?”

“Non puoi presentarti al cospetto di un Lord inglese con la maniere che hai.”

“Hai descritto quello stesso Lord inglese nel peggiore dei modi,” gli ricordò Dazai.

Mori si afferrò il mento, fingendo di non ricordare. “Dettagli,” disse, alla fine della recita. “Lui può essere un nobile decaduto, ma il trucco sta nel nascondere la nostra decadenza.”

Dazai allargò le braccia. “E io che ho a che fare con tutto questo?”

Mori si slacciò il bottone del polsino destro e arrotolò la manica fino al gomito, poi fece lo stesso con la sinistra. Il processo richiese tanto di quel tempo che a Dazai scappò uno sbadiglio. “Hai finito?”

Il Boss annuì, entusiasta come non mai. “Bene!” Esclamò. “Cominciamo.”

“Cosa?”

“Il tuo addestramento.”

“Il mio che?”

Mori sospirò. “Hai fatto qualcosa per distruggerti l’udito e non me lo hai detto?”

“Quando deliri, è difficile anche per me fingere di capire quello che dici,” rispose Dazai. Non solo il medico lo aveva svegliato con il cielo ancora scuro, ma ora pretendeva anche che partecipasse attivamente a qualunque diavoleria avesse in mente? Si sarebbe buttato dal tetto di quello stesso grattacielo, piuttosto.

L’allegria infantile di Mori finì lì. “Non ne abbiamo mai parlato,” iniziò, “ma tu odi la tua abilità, non è così?”

Dazai lo fissò con quella sua espressione un po’ inquietante, un po’ annoiata e totalmente disincantata. “L’intuizione del secolo,” rispose, sprezzante. “Non sono l’unico in questa stanza, per quel che ne so.”

“Nah!” Mori fece un gesto con la mano, come a dirgli di lasciar perdere. “Odiavo Vita Sexualis alla tua età, quando la subivo, invece di comandarla.”

“Il modo in cui la comandi non ha senso,” commentò Dazai. “Sprechi energie per parlare con una proiezione della tua stessa coscienza. Ridicolo.”

“Dazai, oggi non sono dell’umore per ignorare i tuoi insulti,” lo informò Mori. “Non esagerare: potrei perdere la pazienza.”

Il ragazzino alzò gli occhi al cielo. “Allora sii chiaro e dimmi perché mi hai buttato giù dal letto a quest’ora!”

“Oh, povero bambino, avevi sonno?” Lo prese in giro Mori, facendo un paio di passi in avanti. “La natura della mia abilità è complicata,” aggiunse. “Ma la tua…” Fece una pausa e sorrise. “Se avessi combattuto la Grande Guerra, non ci sarebbe stata storia: la nazione che avresti servito avrebbe vinto.”

Dazai storse le labbra in un ghignetto. “E perché avrei dovuto servire una nazione?”

“Vuoi la verità? Mi sorprende che qualche Governo non ti abbia trovato e cresciuto sotto una campana di vetro, di quelle da rompere in caso di emergenza.”

Dazai scosse la testa. “Perché dobbiamo fare questo discorso?”

“Perché l’ho rimandato troppo a lungo,” confessò Mori. “Ora ti dirò cosa ho capito della tua abilità e ti sarei grato se riempissi le lacune.” Sollevò il pollice della mano destra. “Uno, ogni abilità che entra in contatto fisico con te viene annullata, indifferentemente dalla propria natura o raggio di azione. Mettiamo che io voglia farti a pezzi come è accaduto con gli uomini del Generale, non riuscirei nemmeno a farti un graffio.” Seguì l’indice. “Due, tu non hai alcun controllo su questo processo. In breve: se il tuo potere avesse un interruttore, sarebbe perennemente acceso. Non sai direzionarlo. Non sai amplificarlo e, tantomeno, spegnerlo.” Infine, toccò al dito medio. “Tre, penso che gran parte della tua condizione psicologica sia dovuta proprio al dono con cui sei nato. Anche se tu non lo vivi come un dono, certo. Il motivo per cui percepisci te stesso come uno zero, l’incarnazione del nulla, è a causa di questa terribile potenzialità che hai… Almeno in parte.”

“Terribile?” Domandò Dazai. “È un’abilità invisibile. Nessuno la definirebbe terribile.”

“A parte te.”

Il quattordicenne sorvolò su quel punto. “Vuoi spingermi a controllare la mia abilità?” Intuì.

Mori scrollò le spalle. “Lo faccio per te!” Esclamò con aria drammatica.

Dazai non ci pensò due volte: si voltò e prese la direzione della porta. “Io me ne vado. Torno alla villa a piedi, non scomodarti. Magari c’è ancora in giro qualche uomo del Generale disposto a spararmi a vista!”

Mori appoggiò la schiena alla scrivania. “Tu hai il potere di far cadere le divinità.”

Dazai si bloccò con la mano sulla maniglia della porta e il Boss seppe di aver centrato il punto. “Te lo hanno già detto, non è vero?”

Il ragazzino esitò per pochi secondi, poi tornò a guardarlo. 

Mori sorrise, paziente. “È un modo di parlare tipico delle due generazioni che ti hanno preceduto,” spiegò. “Mi riferisco a quelle che hanno combattuto la Grande Guerra. Tu sai che si è trattato del primo conflitto tra possessori di abilità. Per i Governi che servivamo eravamo un’arma. La nostra utilità dipendeva da cosa eravamo capaci di fare, da quanto potevamo uccidere.”

“La mia abilità non uccide,” sottolineò Dazai

“La mia può farlo,” ribatté Mori. “A diciotto anni non sapevo usarla in quel modo. Non sono mai stato un soldato della prima linea per la Germania. Johann lo era.”

“Il tedesco con cui sei fuggito,” ricordò Dazai. “Quello che ha scritto quel taccuino di poesie per te.”

Mori annuì due volte. “Sai nulla della Battaglia di Parigi?”

Dazai si allontanò dalla porta lentamente. “So che i tedeschi arrivarono alle porte della città, probabilmente con un piano per far cadere tutta la Francia con un singolo attacco. Nei libri non ci sono i dettagli, c’è scritto solo che un violento e improvviso terremoto investì le truppe nemiche fuori Parigi e, di fatto, salvò la nazione.” Una pausa. “Che cosa avessero in mente i tedeschi per spingersi tanto in là e che cosa li abbia sconfitti in realtà non è dato saperlo in modo ufficiale. Per i più interessati esistono molte teorie a riguardo.”

Mori lo guardò con aspettativa. “E la tua qual'è?"

“Chi ti dice che abbia perso tempo a crearmene una?”

“Dazai, ti conosco, accettalo.” Disse Mori, piegando le labbra in un sorriso intenerito. “Non sei uno storico, certo. Quando però la tua mente è posta davanti a un problema, elabora una soluzione quasi in modo automatico. È la maledizione dei geni, facci l’abitudine.”

Dazai inarcò le sopracciglia. “Stai dando del genio a me o a te stesso?”

Mori scrollò le spalle. “Se non fossimo entrambi neurodivergenti, non staremmo qui a parlare.” Era un commento molto da medico. “Quindi?” Lo incalzò. “Qual è la tua teoria?”

Dazai inspirò dal naso, come se si stesse rassegnando al fatto che non era lui a condurre il gioco. “Credo che i tedeschi avessero tra le mani il potere di commettere un genocidio o qualcosa di altrettanto grande,” rispose. “A Parigi devono averlo capito. Non so quando, non so come. So solo che tutto ciò che era fuori la capitale è stato raso al suolo, provocando moltissime vittime francesi. È stata un’azione disperata.”

Mori annuì. “Stai dando per scontato che quel terremoto non fosse naturale,” dedusse.

Dazai sbuffò. “Quale idiota lo crederebbe? La Germania ha mandato avanti un possessore di abilità dal potenziale altamente distruttivo e la Francia si è difesa giocando la stessa carta, a costo di perdere le vite di molti civili. Quello che non ha senso è il tempismo.”

“Vai avanti,” disse Mori.

“Perché i tedeschi hanno esitato?” Domandò Dazai. “I francesi non hanno avuto informazioni sul piano nemico per tempo, altrimenti avrebbero evacuato le zone che poi hanno distrutto con le loro mani. Immagino che l’attacco della Germania fosse iniziato, ma qualcosa deve averli fermati… Ed ecco perché i francesi hanno ricorso a una strategia tanto disperata.”

Mori piegò le labbra in un sorriso malinconico. “La gentilezza di un animo umano,” disse. “È una variante a cui gli storici non pensano mai. Quel giorno, fece la differenza.”

Dazai sgranò gli occhi e si diede dell’idiota per non esserci arrivato prima. “Tu eri lì.”

Mori annuì. “Hai ragione quando parli delle intenzioni della Germania. Beh… Si può dire che hai ragione su tutto, in realtà.”

Il quattordicenne rifletté velocemente. “Johann era quello a dover commettere quel genocidio,” concluse. “Alla fine, non ha avuto la forza di farlo, non è così?”

Mori non rispose ma la sua espressione bastò a dare al ragazzino la conferma che gli serviva.

“E tu…” Riprese il Boss. “Tu avresti potuto annullare tutto. Ogni cosa. Se fossi stato lì, né Johann né il francese che ha provocato il terremoto avrebbero potuto fare niente. Niente. Capisci la portata del potere che hai, adesso?”

Dazai scosse la testa. “Io non sono in grado di agire su larga scala in quel modo.”

“Ed è per questo che siamo qui,” disse Mori. “Le abilità si possono manipolare, bisogna solo esercitarsi a fa-“

“Non ci pensare neanche!” Urlò Dazai. “Se pensi che me ne starò qui a farmi addestrare come un soldato, ti sbagli di grosso!” Quegli occhi scuri ardevano d’ira.

Mori si era aspettato delle obiezioni, ma una risposta tanto violenta non era riuscito a prevederla. “Ho bisogno che tu sia capace di difenderti da solo,” disse con voce quasi gentile. Aveva bisogno che il ragazzino ragionasse.

Dazai rise e fu un suono spiacevole. “Ancora non lo hai capito?” Domandò, esasperato. “Vivere non m’interessa. Essere ucciso è uno dei miei desideri più grandi, mi risparmierebbe un sacco di seccature!”

Mori esaurì la distanza tra loro, torreggiando su di lui in modo minaccioso. “Ti ho già detto di non farmi arrabbiare, Dazai. Questo non è un gioco.” Non era il metodo giusto da usare, lo sapeva. Tuttavia, non sapeva in che altro modo agire. Aveva visto Dazai arrabbiato, ma questa volta era diverso. 

Il quattordicenne ingoiò a vuoto ma non abbassò lo sguardo, “Bene, non mi piace giocare,” disse. “Hai detto che Byron non ha un’abilità, giusto? Se decidesse di spararci addosso, la mia sarebbe completamente inutile!”

“Questo è vero, ma-“

Ma niente!” Quella di Dazai non era semplice rabbia, era ira pura.

Suo malgrado, Mori sapeva che se era difficile ragionarci in situazioni normali, figurarsi in quel modo. Tra l’altro, non poteva prenderlo a schiaffi e obbligarlo ad annullare tutte le abilità presenti nel quartiere. 

Abort Mission. 

Ma c’era una cosa che Mori aveva bisogno che Dazai sapesse. “Byron non deve sapere della tua abilità per nessun motivo. È chiaro?”

Dazai non si disturbò a indagare sulle ragioni di una simile richiesta. “E come Diavolo potrebbe mai scoprirla, se non ne ha una? Piuttosto, preoccupati di tenere quella ridicola incarnazione della tua coscienza lontano da me!” Sbottò. “Se qualcosa può tradirci, è solo quella!” Si voltò una seconda volta, dirigendosi verso la porta a passo di marcia. “E non seguirmi!”

Mori finse di sentirsi minacciato. “E dove vorresti andare, di grazia?”

“Vado di sotto a sparare su un bersaglio, immaginando che sia tu!” Tuonò Dazai. “Se riesco a colpirlo, ci sono buone possibilità che possa difendermi con un’arma. Sicuramente mi sarà più utile delle tue geniali idee!” 

“Dovresti trovarle un nome,” aggiunse Mori, con voce calma. “Alla tua abilità, intendo.”

“Vai al diavolo, Mori!” Dazai se ne andò sbattendo la porta.





 

L’aria di marzo era pungente e gli feriva il viso, sebbene non vi fosse molto vento. Più che essere alle porte della primavera, sembrava che stesse per arrivare una bufera di neve. In quella stagione dell’anno, non sarebbe stata la prima volta. Mori ricordava nitidamente l’immagine dei ciliegi in fiori sposarsi con quella della città di Yokohama completamente ricoperta da una coltre di neve.

In quel momento, mentre scendeva dall’auto che si era fermata direttamente a lato della pista di decollo, una perturbazione era davvero l’ultima cosa di cui aveva bisogno. Il jet privato della Port Mafia era di un nero lucido. Di quale altro colore avrebbe mai potuto essere? Mori apprezzava la coerenza, ma cominciava a sentirsi annoiato da tutto quel monocromo.

“Che cos’è l’arma di Weimar?” La voce di Dazai lo raggiunse dall’interno dell’auto. Aveva freddo e non si era azzardato a fare una mossa verso la portiera dal suo lato per scendere. Da quel loro litigio nell’ufficio del Boss, il ragazzino aveva preso a leggere libri su libri riguardanti la Grande Guerra. 

Mori accennò un sorriso, accontentandosi del fatto che avesse scelto un libro in autonomia per intrattenersi da solo. 

“Era un’arma scoperta dal Governo della Germania, poco dopo l’inizio della guerra,” rispose, rivolgendo lo sguardo alla sua città. I cinque grattacieli neri erano visibili anche a quella distanza. Lo stavano salutando o lo deridevano per la sua codardia?

Dazai che gli afferrava la manica e tirava lo distrasse da quel pensiero infantile. “Sì, ma che significa?”

Mori prese un respiro profondo: erano appena le cinque del mattino, si erano svegliati con la luna ancora alta e quel ragazzino, risaputamente pigro, aveva voglia di fare conversazione. 

“Nessuno lo sa con esattezza,” disse. “Quando ero un soldato, nel mio ambiente si vociferava che solo quella sarebbe bastata a porre fine alla guerra.” 

Oramai Dazai gli sedeva accanto, tanto vicino che la spalla gli toccava il fianco. “E perché non è stata usata?” 

Se fosse stato meno stanco, Mori avrebbe maledetto il destino per aver guidato l’attenzione del più giovane proprio su quel particolare capitolo della storia della Grande Guerra. Era anche il meno interessante, composto più da congetture che da fatti reali.

“È andata perduta,” tagliò corto. “Il Governo tedesco lo aveva reso un progetto top secret, ma la Grande Guerra fu combattuta più dalle spie che dai soldati sul campo. Per quel che ne sappiamo, alla fine del conflitto poteva anche trovarsi in Russia.” Non aveva altro da dire a proposito.

Per sua fortuna, Dazai richiuse il libro e lo guardò dal basso. “Sai che questo aereo non subisce un’adeguata manutenzione da anni?”

Mori non lo guardò in faccia, perché sapeva che lo avrebbe visto sorridere con aspettativa e non era il caso di cominciare quel viaggio dando uno schiaffo al braccio destro che non aveva chiesto di avere. “Hirotsu mi ha informato,” si limitò a dire.

“Sai quante possibilità abbiamo di schiantarci e morire tragicamente?” L’allegria nella voce di Dazai era una provocazione.

Mori aveva imparato a capirlo e faceva tutto quello che era in suo potere per ignorarlo. La verità era che, trentadue anni o meno, era un infantile patentato anche lui e quando lo punzecchiava in quel modo, Dazai sapeva benissimo quello che faceva.

“Se ci schianteremo,” disse Mori, sadico, “spero che accada sulla cima di una montagna, dove recuperarci sarà pressoché impossibile. E spero che tu sia l’unico a sopravvivere, così sarai costretto a scegliere se morire di fame - e, credimi, è una dipartita molto dolorosa - o cibarti di cadaveri.” Abbassò lo sguardo solo a quel punto: Dazai non sorrideva più, anzi lo guardava con disprezzo.

“Potrei prenderti la pistola e spararmi in testa,” ribatté il quattordicenne. 

“Se ti rompessi le braccia e le gambe nello schianto, non ci riusciresti.” Mori condì quella possibilità di dettagli sempre più macabri. “Pensaci. Da solo, immobilizzato, impossibilitato a fare qualsiasi cosa, a parte aspettare la morte. Quanto pensi che soffriresti?”

Dazai assottigliò gli occhi. “Ti odio.”

Mori sbuffò. “Quando ti porterò a morire in qualche modo macabro e doloroso, allora ti darò il permesso di odiarmi,” replicò. “Ma, mi duole dirtelo, stiamo andando a Ginevra, in una ridente villa dispersa tra le montagne che circondano la città.”

“Ah, come l’inizio di una storia horror dalle atmosfere gotiche.”

“Scendi dall’auto,” disse Mori, secco. “E allacciati quel cappotto. Fa freddo, non ho alcuna intenzione di passare tutto il nostro soggiorno all’esterno a sentire te lamentarti perché hai il naso che cola.”

Per mettere piede sulla pista di decollo, Dazai lo spintonò da un lato. Mori si ritrovò solo a fare un passo verso destra, ma la tentazione di afferrarlo per il bavero del cappotto e sbatterlo con la schiena contro l’auto fu tanta.

“Siete sicuri di voler partire da soli, voi due?” Domandò Kouyou, scendendo dallo sportello anteriore, lato del passeggero. Aveva insistito per dormire in clinica e fare l’alzataccia con loro. 

“Pensi davvero di poter andartene senza salutarmi ai piedi della scaletta del jet?” Aveva domandato Kouyou, fingendo un’aria tragica, come se fosse una moglie che lascia partire l’adorato marito per la guerra.

Mori la guardò, mentre si stringeva nel suo cappotto blu scuro, adornato da un collo di pelliccia azzurra. “Dazai, vai a controllare che Hirotsu non abbia bisogno di aiuto con i bagagli,” disse al quattordicenne fermo al suo fianco, indicando il mezzo nero con un cenno del capo. 

Dazai gli lanciò un’occhiata eloquente. “Se vuoi restare solo con lei, basta che me lo dici,” borbottò e si avvicinò all’uomo con il monocolo, impegnato a dirigere il carico dei bagagli nella stiva.

Mori non riuscì a tenersi l’insulto per sé. “Piccolo, moccioso di mer-“

“Di che cosa volevi parlarmi?” Domandò Kouyou, serafica, aggrappandosi al suo braccio, come se fossero davvero una coppia sposata.

Il Boss della Port Magia decise di non girarci troppo intorno: infilò la mano nella tasca interna della giacca e ne tirò fuori una busta piena di soldi. Quando la porse alla giovane donna, l’espressione di lei si fece subito oscura. “Oh, adesso mi paghi?” Domandò offesa. “Eri l’unico uomo a non averlo ancora fatto.”

“Stai mal interpretando il gesto,” disse Mori, gentilmente, ma le strinse il braccio sotto il proprio per evitare che si allontanasse. 

“Cos’è?” Domandò Kouyou. Non lo guardava più negli occhi. “Il mio anticipo come nuovo Dirigente?”

“Vuoi che lo sia?”

Lei lo trafisse con lo sguardo. Per una volta, non rise in faccia alla sua proposta “Smettila con questo gioco,” disse. “Non puoi scegliere i tuoi Dirigenti solo seguendo i tuoi gusti personali. A tal proposito, dovresti smetterla di molestare Hirotsu.”

“Ma perché tutti mi date del molestatore o del maniaco?” Domandò Mori, esasperato. “Per la cronaca, se non ritengo una persona degna di stima e fiducia, non ha senso dargli una poltrona al mio tavolo.”

“Sì, ma io non posso aiutarti a rendere la Port Mafia più forte di quella che è,” ribatté Kouyou. “E quella che hai ora è un’organizzazione che non sopravviverebbe a nessuna guerra. Vuoi il mio sincero pensiero? Se al posto tuo, ci fosse stato chiunque altro, quei cinque grattacieli non avrebbero retto tutti i contraccolpi interni dovuti alla tua ascesa.”

“Proprio per questo devi prendere questo denaro,” insistette Mori, sollevando la busta sotto il naso di lei. “L’Europa è un altro mondo. Ginevra è lontana. Randou e il Colonello reggono il forte in mia assenza, ma in caso qualcosa vada storto…” Lasciò la frase sospesa.

Fu il turno di Kouyou di sbuffare. “Ti credevo un realista, non un pessimista.”

“Sono un realista,” confermò. “E, realisticamente, qualcuno potrebbe approfittarsi della mia assenza per fare qualcosa. Nel caso questa eventualità si verifichi, non posso salvare tutti, solo quelli di cui m’importa.”

Kouyou guardò l’offerta di denaro con reticenza, poi gli angoli della sua bocca si sollevarono un poco. “Allora non è vero quello che dicono,” prese la busta e la nascose nella sua borsetta. “Se t’importa di qualcuno, non puoi essere un Demone.”

Mori lasciò andare un risatina. “Anche il cuore dei Demoni batte, di tanto in tanto…” Guardò Dazai starsene al fianco di Hirotsu. Il veterano gli spiegava qualcosa che il Boss non poteva sentire, ma il ragazzino lo ascoltava con interesse.

Tornati a casa, avrebbe chiesto a Hirotsu di passare più tempo con Dazai. Era certo che potesse insegnargli cose della Port Mafia che al Boss stesso sfuggivano.

“E se l’eventualità peggiore si verificasse?” Domandò Kouyou, timorosa.

Mori le sorrise, rassicurante. “L’Europa è molto più di una casa per me, mia cara,” disse. “È la mia tomba. So come muovermi. Nel peggiore dei casi, le nostre strade s’incontreranno ancora. Ho già dato istruzioni a Hirotsu. Nel prossimo futuro, resterai con lui. È stata la mia guardia del corpo all’inizio di un conflitto mondiale e so che può dare l’impressione di un uomo che non ha mai messo piedi fuori dalla sua città, ma non ha nulla da invidiare a una spia internazionale, credimi.”

Kouyou annuì distrattamente, ingoiando a vuoto. Ricacciò indietro alcune lacrime galeotte e guardò Mori dritto negli occhi, come se quella fosse l’ultima volta. “E se l'eventualità peggiore si verificasse,” ripeté, “che cosa ne sarà di lui?”

Non c’era alcun bisogno di chiedere a chi si riferiva.

I bagagli erano tutti a bordo e il portellone della stiva si chiuse.

Hirotsu e Dazai si voltarono nello stesso momento, ma gli occhi scuri del Boss della Port Mafia furono tutti per il ragazzino.

“Lo porterò con me,” rispose, fermamente. “Qualunque cosa accada.”

   
 
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