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Autore: Glenda    25/05/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Quando la valanga cominciò a rotolare.

Quando si rese conto di essere stato coinvolto in un gioco perverso di cui non gli erano state lette tutte le regole.

Quando si rese conto che avrebbe potuto anche tirarsi indietro e dire di no.

E invece non disse di no.

...

Perché Noam non aveva detto di no?

Perché aveva accettato quella richiesta pericolosa e stupida di cui oltretutto – era evidente – non era affatto contento?

Prima o poi glielo avrebbe detto, forse. Così come gli aveva detto di suo padre e dell’attentato del Nòdoask. Noam non era uno che mentiva, al massimo era uno che smetteva di parlare prima di giungere al punto in cui spettava all’interlocutore fare la domanda scomoda. Ma col tempo le dava da solo, le sue risposte scomode, e anche quella volta lo avrebbe fatto in un momento casuale, fuori luogo, forse quando non serviva più.

Lui funzionava così. Non lo faceva apposta, non era una strategia calcolata per tenere gli altri sulla corda o per divertirsi a fargli sgranare gli occhi: lo faceva inconsapevolmente e non si accorgeva del modo in cui manipolava l’attenzione e l’emotività di chi gli stava attorno: elettori, colleghi di partito, vicini di casa, sconosciuti. Lui.

Ma se Noam non dava le risposte giuste nel momento in cui servivano, c’era qualcun altro che invece poteva farlo. Che era in dovere di farlo.

Questo pensava mentre veniva ammesso nell’ufficio di Segùr Òraviy, il suo diretto committente, brillante giovanotto in carriera, portaborse di Kàrkoviy, e, per Adrian, anche il figlio di Kàmil Òraviy, proprietario del Gruppo Òraviy, nella cui squadra di sicurezza aveva lavorato per anni.

“Sono venuto a chiedere qualche chiarimento in merito alla mia posizione.” iniziò “Se mi permette qualche minuto…”

“Vesna, per la miseria! Lei è sempre rigido come uno stoccafisso! Si metta comodo e prenda un caffè, abbiamo tutto il tempo del mondo!”

Si conoscevano tiepidamente, ma abbastanza da essere in confidenza, erano circa coetanei e si erano trovati più volte a condividere un pacchetto di sigarette o a scambiarsi chiacchiere oziose: di lui sapeva che non aveva alcun interesse nell’industria informatica e dunque non intendeva prendere le redini dell’impresa paterna, che aveva una laurea in economia e nutriva ambizioni politiche, ma non si sarebbe immaginato di incontrarlo alle dipendenze del leader di Liberi inisieme. Non avevano proseguito alcuna frequentazione dopo che Adrian aveva lasciato le dipendenze della Òraviy, ma poiché Segùr aveva cieca fiducia nelle valutazioni del padre a proposito di risorse umane, quando gli era stato richiesto di reclutare una guardia del corpo privata capace di “diventare invisibile” per un membro del partito si era rivolto senza indugio a lui.

“Io ho meno di mezz’ora.” fece Adrian in risposta al plateale e poco realistico commento sul tempo “Devo accompagnare il signor Dolbruk a…” (a salire una scala? No, non suonava bene) “A fare delle commissioni.”

“Su e giù dal belvedere, eh?” Segùr rise, divertito “Le avevo detto che le avrei affidato un incarico che l’avrebbe strappata alla monotonia, e lei non voleva credermi. Allora, avevo ragione o no? Non trova che il signor Dolbruk sia un uomo sorprendente?”

Era molto di più che “sorprendente” – avrebbe dovuto dirgli, se fosse stato in vena di aprire quello spinoso argomento - era autentico. Generoso, trasparente, altruista, onesto e molte altre cose. Noam era una persona che si faceva fatica a credere reale, ma dopo tutti quei mesi a contatto con lui, Adrian avrebbe potuto scommettere sulla sua completa buona fede.

“Lo è.” si limitò a dire, deviando il discorso “Ma non è dell’originalità di Dolbruk che sono venuto a parlare, quanto, piuttosto, della… originalità di certe scelte del Partito, che mi hanno lasciato perplesso.”

Segùr depose sul tavolo due tazze di caffè. Si era fatto arredare l’ufficio come se fosse un monolocale alla moda, piccole comodità comprese: la macchinetta da espresso con le sue tazzine di ceramica impilate - perché il caffè non si beve nella plastica, mai – l’armadietto dei liquori con una sola bottiglia, intonsa, ma certamente dall’etichetta pregiata, lampade d’atmosfera, poltrona molleggiata, scrivania di design, ci mancava giusto un divano letto per fare di quel luogo il potenziale pied a terre per incontri clandestini. Ma quel ragazzo non aveva bisogno di portarsi le amanti in ufficio, salvo non lo trovasse a qualche titolo divertente: il padre possedeva mezzo Vàltrad!

Kàmil Òraviy era il classico magnate dalla doppia faccia: filantropo in pubblico, feroce coi dipendenti. L’agenzia di sicurezza privata di cui Adrian era socio lo considerava il proprio cliente migliore, sia perché offriva ingaggi duraturi e frequenti sia perché, tutto sommato, lavorare per lui era poco faticoso e a basso rischio: chi mai aveva il coraggio di mettersi contro Kàmil Òraviy? Piuttosto c’era da stare attenti che non fosse Kàmil Òraviy a mettersi contro qualcuno! Il teatrino della sorveglianza, le guardie del corpo personali, la security in azienda e sulla porta di casa erano solo facciata: servivano a rimarcare uno status, erano una vetrina, nulla di più. Per Adrian questo non era mai stato un problema: il suo ruolo non comportava interazione ma osservazione e, tutto sommato, meno stima nutriva per il cliente meglio era.

E Segùr, invece? Segùr gli era sempre parso un giovane intelligente desideroso di emanciparsi dal padre ma al tempo stesso incastrato in una mitizzazione della sua figura, non come riferimento affettivo quanto come simbolo di autorità. Si era sorpreso nello scoprirlo segretario di Kàrkoviy, uomo, quest’ultimo, che basava la sua popolarità sull’essere un volto noto e rassicurante, non certo su un’aura di potere personale.

Forse Segùr aveva bisogno proprio di questo: di scrollate di spalle e di superficialità. Ma se la superficialità comportava mettere a rischio la vita di un uomo per una manciata di voti, beh...

“Dica pure. Cosa, esattamente, la preoccupa?”

Segùr sorrideva pacato, la pelle pallida e i lineamenti regolari lo portavano a dimostrare meno dei suoi anni e la luce del mattino alle sue spalle amplificava quell’effetto.

“Mòrask.”

Non c’era molto altro da aggiungere.

“Ah, capito. Capito.” Segùr fece un cenno di sufficienza con la mano che Adrian trovò indisponente.

“Signor Òraviy,” scandì, grave “Lei mi ha assunto perché uno dei vostri ha ricevuto minacce di morte. Non è il mio compito né ho gli strumenti per capire da chi provengano tali minacce e quanto siano da considerare pericolose, né ho la sfera di cristallo per prevedere se qualcuna di esse verrà concretizzata mai, però Noam Dolbruk è il primo rappresentante del Dàrbrand ad essere stato eletto in parlamento e voi avete chiesto da lui una pubblica dissociazione da qualsiasi forma di terrorismo. Dico bene?”

Segùr sollevò entrambe le sopracciglia.

“Il minimo per candidarsi sotto il nostro simbolo. Liberi Insieme ripudia la violenza.”

“Lasciamo da parte la retorica di partito. Il suo capo pretende che il mio cliente si rechi nel luogo potenzialmente più pericoloso per lui: un darbrandese che ha scelto Noravàl come patria elettiva e si è dichiarato apertamente ostile al terrorismo separatista, in trasferta a Mòrask. Perché avete pensato di dovergli imporre una guardia del corpo se poi lo esponete a questo rischio senza battere ciglio?”

“Il suo cliente, eh…?” Segùr si stropicciò il mento con aria sorniona. “In ogni caso,” proseguì “lei usa un linguaggio troppo aggressivo. Il suo capo pretende, dovergli imporre… Per quanto possa essere stravagante, il signor Dolbruk è molto più testardo di quel che sembra: in questo, risponde meravigliosamente allo stereotipo darbrandese. Mi creda, nessuno potrebbe costringerlo a fare niente che non vuole: se non fosse stato disponibile ad accettare la sua, emh, compagnia, non avrei potuto affidarle questo lavoro. Ma Noam è anche un uomo di estrema, quasi eccessiva gentilezza: gli dispiaceva che Kàrkoviy potesse preoccuparsi, o peggio, che si sentisse responsabile per averlo messo nelle condizioni di venir minacciato.”

“Ed è per eccessiva gentilezza che ha accettato di fare questo viaggio?”

“Che vuole che ne sappia io? Saranno fatti suoi. O fatti suoi e di Kàrkoviy, e nessuno dei due, mi creda, è solito condividerli con me.”

Lo disse distrattamente, ma con una punta di fastidio nello sguardo.

“Non capisco. Vi siete preoccupati di assumere me, e poi…”

Per la seconda volta gli venne il sospetto che quelle minacce non esistessero affatto, che si trattasse di semplice mossa propagandistica.

“Ascolti, Vesna: né io, né chi si occupa di fare per noi queste valutazioni sospetta che Noam Dolbruk corra un reale pericolo. I terroristi non hanno mai annunciato le proprie mosse, non fa parte del loro modus operandi. È ben più probabile che si tratti di qualche hater in cerca di popolarità, o di una controversia personale di cui il suo… cliente non vuole parlare. Mi auguravo che, in una circostanza del genere, avrebbe condiviso eventuali informazioni almeno con lei, ma devo prendere atto che non è così. Il partito non ritiene che qualcuno attenterà alla vita del signor Dolbruk, ma d’altro canto non potevamo ignorare la questione e fare finta di niente.”

“Ho capito. Mi avete messo qui per vostra assicurazione.”

Come fa tuo padre, in fondo.

“Scomodo ma necessario.”

“Il signor Dolbruk direbbe paraculo.”

Segùr scoppiò a ridere.

“Dolbruk, Dolbruk…” cantilenò “L’uomo che lascia il suo segno ovunque va…”

Aveva un tono bonario, dolce, ma non c’era bonarietà nella sua espressione. Al contrario, quasi durezza.

“Non mi interessa cosa ritiene o non ritiene il partito. Mi avete affidato un incarico, spetta a me anche la valutazione del rischio. Mi è evidente che il signor Dolbruk non si tirerà indietro, a meno che non siate voi a chiederglielo, dunque intendo prendere le mie precauzioni.”

“Su questo, ha carta bianca. Le ho mai detto il contrario?”

Adrian annuì tra sé e sé.

“Bene. Allora questa è la procedura. Per tutta la durata del tragitto, il mio cliente ed io ci renderemo irreperibili. Nessun cellulare, nessun navigatore satellitare. Nessun team, nessun portaborse, niente stampa. Lostaff si muoverà autonomamente. Non faremo sapere in anticipo né gli orari in cui ci sposteremo né dove pernotteremo. Non sarà reso pubblico in anticipo alcun programma di impegni istituzionali. Una volta in città, sarà Dolbruk a prendere contatto con voi e con il vostro candidato. Programmerà ogni cosa da solo, senza bisogno di consultarsi con nessuno: dopotutto è lui il maestro dell’imprevedibilità, e conosce Mòrask più di quanto ciascuno di noi possa sognarsi di conoscerla.”

Stavolta fu Segùr ad annuire più volte, meccanicamente.

“Ma sì, ma sì. Non ho nulla da obiettare. Riferirò.”

 

***

 

Si sentiva preso poco sul serio.

No, si sentiva preso proprio per i fondelli.

Ma chi si credeva di essere quello stupido figlio di papà?

Adrian diede forma ai suoi pensieri schiacciando una cicca di sigaretta sotto il piede, e poi maledisse se stesso una, due, tre volte.

Non era da lui perdere la pazienza. Non era da lui nemmeno sentirsi svalutato: non era riuscito a farlo sentire tale neppure Noam, con tutte le sue vaporose parole e i suoi grilli per la testa.

Noam, Noam, sempre Noam.

Segùr, con le sue dannate allusioni, aveva colto nel segno e colpito il peggiore dei punti deboli: aveva finito col rendere quell’incarico una faccenda personale. Che fosse accaduto per sfida, o per orgoglio o semplicemente perché quell’ometto eccessivamente gentile era davvero la prima brava persona che gli era capitato di proteggere, fatto stava che il distacco professionale di cui si era sempre fatto forza era andato progressivamente a farsi fottere.

Tutto è relazione. Dannate relazioni e accidenti a lui. A Noam. A Segùr.

Doveva scrollarsi di dosso tutte quelle peregrinazioni mentali e restare concentrato sui fatti. Fare il conto di ciò che sapeva e dei pezzi mancanti.

Era vero che non spettava a lui indagare su chi avesse minacciato Dolbruk e perché, ma doveva almeno selezionare i possibili scenari a cui andare incontro.

La noncuranza di Segùr, che pure lo aveva assunto, poteva significare tre cose: primo, la minaccia non era mai esistita e la sua presenza serviva a far fare bella figura al partito, che non avrebbe mai potuto, una volta che la notizia era diventata pubblica, ignorare il problema; secondo, Segùr Òraviy non sapeva realmente come stavano le cose e il suo compito, come lui aveva fatto intuire non senza disappunto, era solo smaltire la burocrazia; terzo, Kàrkoviy non si preoccupava affatto dell’incolumità del suo collega e si dava altre priorità, come ottenere un seggio nella città più controversa del paese. Del resto - si trovò a pensare con lucido turbamento - a chi, nella storia, non avevano fatto comodo i martiri? Un uomo amabile come Noam, così sfacciatamente idealista e per di più giovane era il morto perfetto da sbattere in faccia agli avversari.

Ma Noam era sicuro che i terroristi non fossero una minaccia per lui.

Fidati di me, gli aveva detto. Fidati di me.

“E tu, Noam, ti fidi? Oppure ha ragione Segùr e c’è qualcosa che avresti dovuto dirmi e mi hai taciuto? Qualcosa che non stai considerando un pericolo e invece, maledizione, potrebbe esserlo?”

Si sorprese a dargli del tu nei suoi pensieri. E dire che a lui avrebbe fatto così piacere…

Ma chi era, Adrian Vesna, nei pensieri? Era lo studente Yiv? Era l’anonima guardia giurata che faceva la ronda all’ingresso del palazzo parlamentare? Era il turista nella capitale? O quale altro degli innumerevoli personaggi che aveva interpretato, pur di non essere – mai più, mai più – il piccolo, vulnerabile e feroce ragazzino che un giorno aveva distrutto la propria stessa vita?

Agitò con energia la testa, come se dovesse scrollarsi della pioggia dai capelli, come un cane bagnato.

Doveva restare concentrato solo sui fatti.

Aveva accettato un incarico: paraculo o non paraculo, lui lo avrebbe svolto alla perfezione.

  
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