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Autore: Nina Ninetta    15/06/2022    3 recensioni
Eric La Manna è un procuratore di giovani promesse della boxe. È al verde, vive in un lugubre monolocale lungo la West Side di Chicago e ha gli strozzini alle calcagna per una vecchia “parola” non mantenuta. Una notte, però, durante un regolamento di conti, nota un giovane ragazzo che sembra avere la stoffa per diventare la nuova star della boxe, o almeno è quello che spera per redimersi…
"Seconda classificata al contest “Manuale di Sopravvivenza Vol.2” indetto da Spettro94 sul forum di Efp.
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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NdR
Questa storia non ha un vero e proprio finale, poiché sarà il giudice del contest alla quale partecipa a decidere la sorte dei miei personaggi.
[Cito testualmente dal bando] "Ogni pacchetto sarà legato a un certo evento X che avrà luogo alla fine della vostra storia. Una serie di conseguenze, che voi non potrete conoscere fino alla pubblicazione delle valutazioni finali, saranno legate al Contesto e potrebbero essere influenzate in modo più o meno determinante dalle vostre scelte."
Quando il contest scadrà e avrò la mia valutazione, con tanto di finale a sorpresa, sarà mia briga riportarlo per filo e per segno.
Fino ad allora, buona lettura a tutti,
Nina^^

 
 

ACKNOWLEDGE ME
 
 
Capitolo I
- Eric -
 

 
Eric si trascinò lungo la rampa di scale, puntellandosi ora con la spalla destra contro il muro sudicio e imbrattato del palazzo, ora con il bacino contro la ringhiera celestina e scorticata, di ferro vecchio e freddo. Nella mano stringeva una bottiglia di vino scadente che aveva comprato al market a pochi isolati da lì. L’aveva aperta appena fuori dal negozio e se ne era già scolata una metà.
Era arrivato al secondo piano, solo altri due e avrebbe raggiunto il suo.
Si udiva il pianto di un neonato, sembrava disperato, come se gli fosse capitata la cosa peggiore della sua vita. Illuso. Cosa gli poteva mai capitare di così brutto a pochi mesi dalla nascita, quando in pratica si hanno le funzioni vitali e cerebrali di una scimmia?
Il cane della signora disabile del piano terra cominciò ad abbaiare, i suoi versi divennero sempre più simili a un latrato, pareva che rispondesse al pianto del bambino.
Chissà, forse tra bestioline si comprendevano, pensò cinico Eric arricciando le labbra in un sorriso.
Finalmente raggiunse il quarto piano, attraversò un corridoio stretto e lungo, le cui pareti erano ricoperte da carte da parati in stile barocco, sebbene su più punti fossero state disegnate sagome oscene e offensive. Le porte delle abitazioni si trovavano solo su un lato, quello sinistro, e la sua era giù in fondo. Con mani non proprio salde rimestò nella tasca del giubbotto e, tra spiccioli vari e vecchi scontrini, trovò le chiavi. Gli caddero, finendo sulla moquette bordeaux, perciò si chinò a prenderle accompagnando il gesto con un lamento (non aveva più vent’anni da un po’ oramai), poi le inserì nella serratura.
La porta si mosse cigolando, rivelando un monolocale buio e angusto. Un lezzo caldo, oleoso, lo investì in pieno volto, provocandogli un forte senso di nausea. Prima ancora di accendere la luce richiuse la porta con un calcio e si mosse in direzione dell’unica finestra, spalancandola.
Il freddo della notte di Chicago lo colse simile a uno schiaffo, ma Eric non si lasciò intimorire: alzò la bottiglia, come se volesse brindare alle stelle, e ne bevve un lungo sorso.
In lontananza rimbombarono le sirene della polizia e il guaire dei randagi.
Eric si voltò indietro, osservando la casa che ormai abitava da qualche mese, chiedendosi come diavolo ci fosse finito lì? Quando era successo, dannazione?
Fece per raggiungere la poltrona di pelle marrone, consunta e con le molle rotte ma ancora utile, urtando con il piede una bottiglia di vetro riversa sulle mattonelle e per poco non ruzzolò a terra.
«Ma che cazzVaffanculo!» Urlò al silenzio assoluto del locale, dalla finestra arrivò un rumore metallico: forse un gatto aveva rovesciato un bidone della spazzatura. O era stato un topo? Lungo la West Side i roditori erano grossi quanto felini siamesi.
Eric diede un calcio alla bottiglia, questa rotolò fino a raggiungerne un’altra che, come lei, giaceva inerme da chissà quanti giorni.  
Grazie alla luce arancione del lampione che filtrava dalle ante spalancate, raggiunse il frigorifero, facendo attenzione a non inciampare di nuovo. Lo aprì, sbirciandovi all’interno: sul fondo giaceva un unico involucro di carta velina che conteneva un sandwich. Lo scartò annusandolo: sapeva di vomito stantio, perciò preferì gettarlo nella spazzatura.
Perfetto, sospirò, l’ennesima giornata senza cena!
Stringendo ancora la bottiglia di vino che aveva comprato quella sera stessa – cavolo, era uscito di proposito! –, si accomodò pesantemente sulla poltrona, le cui molle cigolarono sinistre. Eric bevve ancora un sorso, quindi chiuse gli occhi e si sostenne la fronte con la mano libera, il gomito poggiato sul bracciolo strappato, da cui fuoriusciva la spugna consumata.
 
Aveva pensato più di una volta di farla finita, ci aveva anche provato seriamente – in
una sola occasione –, ma si era rivelato troppo vigliacco anche per togliersi la vita. Era successo una settimana dopo che viveva in quella topaia, quando credeva che non sarebbe sopravvissuto un giorno in più a quello schifo. Aveva fatto una ricerca su Google e visto video su Youtube su come ammazzarsi senza provare dolore. Si era stupito di quanti link, video e consigli ci fossero in rete riguardanti l’argomento. Incredibile. Il tentativo più plausibile gli era sembrato il cocktail di farmaci. Per un momento, aveva anche optato di bere varichina – sicuramente il metodo meno costoso –, ma stando alle esperienze dei sopravvissuti, la scelta del detersivo poteva risultare infinitamente dolorosa. Infatti, prima di tirare le cuoia, lo stomaco sembrava andare a fuoco e si cominciava a schiumare dalla bocca, quindi, se non ci avesse pensato il veleno a uccidere, l’avrebbe fatto la saliva e alla fine si sarebbe schiattati strozzati.
Tagliarsi le vene? Banale, doloroso e sporco. Lui voleva un lavoro pulito.
Perciò, aveva comprato due tipi di antidepressivi (consigliatissimi da uno che se ne intendeva!) e ne aveva ingerito appena due compresse quando, terrorizzato, si era portato un paio di dita alla gola causandosi il vomito. Era poi rimasto a piangere per qualche minuto, aggrappato alla tazza del suo water, simile a un tossico strafatto.
Da quella notte erano trascorsi diversi mesi, tre per la precisione, abituandosi anche a ciò che non aveva mai creduto: quella miseria.
Si stupiva sempre, Eric, di quanto grande potesse essere la capacità di adattamento dell’essere umano.
 
Le tempie iniziavano a martellargli, gli effetti dell’alcool si facevano sentire ogni sera sempre più presto; d’altronde, lui non era mai stato uno che amava bere, neanche quando era ragazzo.
Si alzò a fatica, lasciando finalmente la presa sul collo della bottiglia che adagiò momentaneamente sopra al davanzale della finestra, prima di dirigersi in bagno. Accese la lampadina davanti allo specchio, la luce tremò per qualche istante e infine si stabilizzò, mentre osservava il proprio volto riflesso nello specchio sporco e ombroso. Non si riconosceva neanche più, l’uomo che stava fissando non poteva essere lui: quella barbetta incolta, brizzolata, non gli apparteneva; quei capelli spettinati e senza un taglio preciso, spenti, senza colore, grigi, non erano i suoi; gli occhi castani, un tempo vispi e intelligenti, erano spariti, soppiantati da due pupille vuote, inespressive.
«Sei un fallito» disse a se stesso nello specchio, poi aprì lo sportello sbilenco del mobile sopra al lavabo e, come aveva fatto pocanzi con il frigorifero, ne osservò l’interno per un po’, nonostante ci fossero davvero poche cose tra cui scegliere: una schiuma da barba con il fondo arrugginito, uno spazzolino dalle spatole spiegazzate, un tubicino di dentifricio spremuto fino allo stremo e un flacone di Ibuprofen. Prese quest’ultimo, si lasciò cadere una pillola direttamente in bocca e poi rimise a posto il tutto, tornando in cucina. Qui afferrò nuovamente la bottiglia di vino e ne bevve un lungo sorso, quando qualcosa attirò la sua attenzione.
 
All’incrocio, tra Pearson Avenue e Cicero, qualcuno sbucò correndo. Inciampò per guardarsi alle spalle, ma riuscì comunque a restare in piedi e a proseguire lungo la strada deserta. Era un ragazzo e, appena qualche secondo dopo, ne spuntarono altri tre, intenti a raggiungerlo, era evidente. Uno di questi ci riuscì e lo atterrò afferrandolo per le gambe, in una presa classica da bloccaggio di football americano.
I due ruzzolarono sul marciapiede, lottando tra di loro. Ben presto furono raggiunti anche dagli altri, i quali se l’erano presa comoda. Anzi, quello più alto pareva proprio crogiolarsi nella sua andatura lenta e sicura, da spaccone. Doveva essere il boss, non c’erano dubbi.
Nel frattempo, l’altro aiutò il compare a mettere in piedi il fuggitivo, prima di sbatterlo con la schiena contro il muro; quest’ultimo tentò di divincolarsi, senza riuscirci.
Eric bevve un altro sorso di vino, la cosa si faceva interessante.
Il boss, che era rimasto per tutto il tempo a guardare, si avvicinò piano, tenendo i pugni chiusi uno nell’altro, forse stava facendo schioccare le dita, quindi assestò un pugno in pieno stomaco al povero malcapitato. Questo si chinò in due, poi quello che lo aveva colpito gli si accostò ancora di più, afferrandolo per il collo e costringendolo a guardarlo, mentre gli parlava a una spanna dal viso.
Eric si chiese cosa gli stesse dicendo. Che fosse un regolamento di conti era chiaro come la luce del sole. Un brivido gli corse lungo la schiena e, per ignorarlo, bevve un altro po’.
Di nuovo il capobanda lo picchiò con una serie di pugni all’addome, infine lo colpì in pieno volto, quindi diede ordine che fosse liberato – Eric lo capì poiché i suoi scagnozzi si allontanarono dal ragazzo. Tutti e tre si ficcarono le mani in tasca e gli diedero le spalle, pronti ad allontanarsi, guappi e sbruffoni come chi sa che usando la violenza si ottiene sempre ciò che si vuole. Ma avevano fatto male i conti, dal momento che il poveraccio alzò la testa e si scagliò contro il capobranco, cogliendolo alla sprovvista.
Eric scattò sull’attenti.
La sua esperienza gli aveva insegnato a riconoscere un combattente quando ne vedeva uno, e quel ragazzo aveva tutta l’aria di esserlo. Chiunque, dopo aver ricevuto una serie di colpi allo stomaco e un altro ben assestato al volto, sarebbe rimasto accasciato per ore prima di potersi muovere, quantomeno ci avrebbe pensato la paura a paralizzarlo. Quel giovane, invece, non si era mai piegato, mai!
Letteralmente, il ragazzo saltò sulla schiena del boss che finì disteso sulla strada, mentre gli premeva una guancia sull’asfalto ruvido e con l’altra mano lo menava di brutto. Ci vollero entrambi i due leccapiedi per toglierglielo di dosso, strappandoglielo via. Il pezzo da novanta, lì, rimase qualche secondo carponi, scuotendo il capo per riprendersi dal frastornamento, poi si rialzò su gambe non proprio ferme e quando uno degli scagnozzi cercò di aiutarlo lui lo allontanò con sgarbo. Per il giovane sarebbe finita, davvero, l’avrebbero sfracellato come un pezzo di carne al macello se non avessero udito le sirene della polizia che da lontano si facevano sempre più vicine. I due leccapiedi lasciarono perdere il giovane e trascinarono via con sé il loro capo, dileguandosi ben presto nel buio della fredda notte di Chicago.
 
Eric si aggrappò al davanzale della finestra per sporgersi oltre e accettarsi che quei manigoldi fossero davvero spariti, quindi afferrò le chiavi di casa e uscì di gran carriera, facendo le scale a due a due, con il timore di non trovarlo più.
Non poteva farselo scappare. Era il suo contrappasso, forse. Era un segno del destino, forse. Ma non poteva almeno non provarci.
Aprì il portone con foga e balzò oltre i quattro scalini che lo precedevano. Quasi gli mancò un battito: del giovane pestato non vi era traccia, poi vide la sua sagoma ingobbita allontanarsi lentamente e lo rincorse, senza sapere bene cosa gli avesse detto una volta che se lo sarebbe trovato di fronte.
«Ehi, ciao, ma lo sai che potresti essere un pugile provetto? Vuoi lavorare con me e farmi diventare ricco sfondato?»
Cielo, no! Lo avrebbe preso per un pazzo.
Intanto lo aveva quasi raggiunto, mentre cercava di richiamare la sua attenzione con un braccio alzato:
«Ehi, scusa, tu! Ehi!»
Il giovane si fermò per voltarsi indietro, dando tempo a Eric di avvicinarlo, sebbene d’istinto si arrestò a debita distanza.
In fondo, chi lo conosceva?
«Ehi, ciao! Scusa, ero alla finestra prima…» Eric indicò il suo appartamento, più per evitare di guardarlo negli occhi ferini. «… e ho visto che…»
«Che cazzo vuoi? Sei frocio, per caso?»
«Io… cosa? Oh, no no. Volevo solo…»
«E allora che cazzo vuoi?»
«Aiutarti» disse d’un tratto Eric, indicando il taglio sul sopracciglio, sicuramente causato dal pugno che aveva ricevuto dal capobranco pocanzi. Sanguinava e la cute cominciava già a scurirsi. «Hai un occhio messo male.»
«Mi curo da solo.»
«Hai una copertura assicurativa?»
L’altro lo guardò, per la prima volta abbassò il capo, ricordando un animale in difficoltà.
«Ecco, appunto. Dai vieni, ti offro anche qualcosa da bere.» Eric accompagnò l’invito con un gesto della mano.
«Ehi, amico, sei sicuro di non essere gay?»
«Ancora con questa storia? Ti ho già risposto!»
Insieme tornarono verso il palazzo, Eric gli tenne il portone aperto mentre l’altro entrava nell’androne. Il bambino appena nato piangeva di nuovo, o più probabilmente non aveva mai smesso.
Iniziarono a salire le scale, Eric era qualche passo avanti e di tanto in tanto si voltava indietro per accettarsi che il giovane lo seguisse.
«Io mi chiamo Eric, comunque. Piacere.»
«Io sono Ben» rispose il potenziale pugile. «Ma puoi anche chiamarmi Benny, come preferisci.»
«Ben, sarebbe il diminutivo di?»
Avevano ormai raggiunto il terzo piano ed Eric non aveva potuto fare a meno di notare come il ragazzo si guardasse attorno, soffermandosi a ogni piano per osservare il corridoio che vi si dipanava.
«Benito.»
Eric fischiò. «Hai un nome storicamente importante!»
«Ah si?! E perché?»
«Lascia stare. Siamo arrivati.»
Ancora una volta, Eric lo precedette per il corridoio, la moquette ai loro piedi attutiva i passi. Entrarono nel monolocale e questa volta Eric accese la luce e chiuse la finestra, la quale aveva lasciato aperta nella furia di uscire. Sperando di non essere visto, nascose la bottiglia di vino dietro la poltrona e quando si voltò per dire a Ben di accomodarsi, lo trovò al centro della stanza, gli occhi che andavano da una parete all’altra.
«Non te la passi granché, eh amico?»
«Mi chiamo Eric.»
Il ragazzo si avvicinò a una foto adagiata sul frigorifero, la prese e la osservò: quella vecchia istantanea ritraeva un Eric più giovane, con la toga e il tocco, mentre teneva in mano una tesi, la cui copertina era di colore rosso, e una corona di alloro. Ad ambo i lati c’erano due persone, un uomo e una donna, ormai avanti con l’età, ma non proprio anziani.
«Un laureato che vive sulla West Side?» Il tono di Ben era irrisorio. Eric gli strappò di mano il portafotografie e lo riadagiò dove l’aveva preso, ma a testa in giù. Quindi gli disse di sedersi senza toccare nulla, avrebbe cercato qualcosa in bagno per tamponare la ferita.
Eric si chiuse nella toilette, chiedendosi cosa diamine gli fosse venuto in mente? Un pugile? Quello? Pesava si e no ottanta chili, leggero come un fringuello, e da sotto la felpa che indossava non sembravano esserci muscoli.
Eppure…
Eppure qualcosa doveva fare! Non poteva restare con le mani in mano, prima o poi quelli lo avrebbero scovato e si sarebbero presentati sotto casa, muniti di revolver e Dio solo sapeva che cosa! Non era gente che scherzava, quella. A confronto, il boss che aveva menato Ben pareva un agnellino!
Cercò un asciugamano pulito, ma non ne trovò. Perciò inumidì l’unico che teneva appeso e prese il flaconcino di Ibuprofen dallo stipetto, ma quando tornò di là di Ben non c’era traccia.
Lo trovò nella camera da letto, l’altra unica stanza della casa, nella quale entrava molto di rado poiché ormai si addormentava su quella poltrona sgangherata e lì si risvegliava il mattino seguente.
Di nuovo, Ben era intento a frugare nei suoi affetti. Questa volta l’attenzione era rivolta alla cornice appesa, la quale attestava il conseguimento della Laurea in Studi Giuridici e Diritto, presso l’università del Michigan, al dottor Enrico La Manna.
Benny sembrava completamente preso da quella visione, poi lesse a voce alta:
«Enrico La Manna.»
«Ho origini italiane.»
«E perché ti presenti come Eric?»
«Enrico è troppo italiano», si vergognò nel pronunciare la verità, ma non aveva scusanti. Si era sempre vergognato della sua famiglia numerosa e chiassosa, della lasagna che la madre portava al lago durante i weekend, o di quando gli si rivolgeva con il vezzo di a ‘mammà. Cielo, i suoi compagni di liceo lo avevano preso in giro per anni. Ma quando era andato via di casa, per seguire i corsi universitari, si era ripromesso di tenere fuori dalla propria vita la sua ingombrante famiglia. Quella Little Italy nella quale era stato costretto a vivere fino ai vent’anni circa. Lì, nel campus, poteva essere chiunque, cominciare una nuova vita, farsi chiamare come gli pareva e il nome Eric gli era apparso un buon inizio per presentarsi al mondo e sentirsi accettato.
«Rinneghi le tue origini?» La voce di Ben era diventata più bassa, di nuovo lo stava guardando con distacco, come prima in strada.
«Non ne vado fiero, ma sì. Ora vieni di là e smettila di farti gli affari miei.»
Eric si scostò di lato per permettergli di passare e tornare in cucina, poi spense la luce della camera da letto e chiuse la porta. A chiave.
Mentre Ben si accomodava al piccolo tavolo di plastica bianca, al centro della stanza, Eric aprì il freezer e fu sollevato di trovarvi almeno una birra gelata, la quale arrotolò nell’asciugamano che gli porse, dicendogli di metterlo sulla ferita dove il sangue si era ormai raggrumato. Quindi si sedette di fronte a lui e gli passò il flacone di pillole, consigliandogli di prenderne almeno un paio se non voleva ritrovarsi con dolori dappertutto e soprattutto un fortissimo mal di testa.
Ben guardò il flaconcino, abbassando momentaneamente il braccio che reggeva la bottiglia.
«Sei sicuro che non debba andare al pronto soccorso?»
Eric si allungò e gli alzò il gomito, portando nuovamente l’asciugamano sul sopracciglio.
«Non è grave, ha già smesso di sanguinare. E adesso dimmi cosa volevano quei tipi da te?»
«Come fai a sapere che non è grave? E se ho una – come si chiama? – cosa cerebrale?»
«Commozione, intendi? Lo escluderei, non hai picchiato la testa. Non così forte perlomeno, inoltre parli e ti muovi senza problemi.»
Ben abbassò ancora una volta il braccio e ancora una volta Eric glielo alzò con pazienza.
«Sei anche un medico?»
«No, ma di queste cose un pochino me ne intendo. E adesso dimmi perché quei tipi ti hanno malmenato. Hai un conto in sospeso con loro?»
Ben assottigliò lo sguardo. Aveva gli occhi scurissimi, quasi non si distinguevano le pupille.
«Se credi di sfilarmi dei soldi perché sei un avvocato caduto in disgrazia e magari ti aspetti che denunci quei tre, beh… ti sbagli di grosso, amico!»
«Nulla di tutto questo» Eric alzò le mani in segno di resa. «La mia è mera curiosità, ma se non vuoi dirmelo, sei liberissimo di…»
«È per Maria» disse tutto d’un fiato Ben, assumendo di nuovo l’aria del cane bastonato. Il braccio che teneva la bottiglia tornò ad abbassarsi e mentre parlava Eric glielo rialzò.
«Chi è Maria?»
«Maria è la mia ragazza. O meglio, lo era, adesso sta con quel cojone di Alejandro.»
«Alejandro sarebbe quello che…?»
«Che mi ha menato. Gli altri due sono i suoi leccaculo.»
«Chiarissimo» in effetti, a questo Eric ci era già arrivato da solo.
«Io e Maria stavamo insieme, poi un giorno mi ha detto che mi lasciava perché era incinta, ma il bambino non era mio.»
Eric fischiò. Quanto avrebbe voluto bere un sorso di vino dalla bottiglia che giaceva inoperosa ai piedi della poltrona.
«Ma io sono sicuro che invece il figlio è mio!»
Ben aveva un forte accento sudamericano. Non aveva ancora avuto possibilità di chiedergli da dove venisse, ma era chiaro dal colore ambrato della pelle e dalla cadenza che non era uno yankee. Gli sembrava irrispettoso domandargli subito quali fossero le sue origini, quindi attese e lo lasciò sfogare.
«Quel cojone ha sempre desiderato Maria, faceva di tutto per averla, anche quando stavamo insieme. Le mandava rose rosse a lavoro, le dedicava serenate durante le notti di luna piena. Aspettava che uscisse dal negozio quando pioveva per offrirle un passaggio.»
«E che lavoro fa Maria?»
«La parrucchiera» Ben abbandonò l’asciugamano con la bottiglia sul tavolo e questa volta Eric non fece nulla. «Io sono sicuro che il figlio è il mio, ma non avendo abbastanza denaro per crescerlo, Maria ha accettato di andare a vivere con Alejandro.»
Eric scosse il capo e aggrottò la fronte:
«Fammi capire bene: il figlio è tuo, ma Maria ti ha mentito e ti ha detto che in realtà è di Alejandro solo perché lui c’ha i soldi e può crescerlo?»
«Sì.»
«Ma è ridicolo!» Eric scoppiò a ridere. «Cazzo, questo Alejandro deve essere davvero un gran cojone se si beve una storia simile! Dovrebbero essere stati prima insieme per potergli far credere che il figlio è il suo, no?!»
Lo sguardo tagliente tornò a riaffacciarsi sul volto del giovane ragazzo, il quale scattò in piedi, affermando che fosse davvero tardi e doveva andare. O non aveva mai pensato a quell’eventualità – e allora dimostrava tutta la sua stoltezza – o ci aveva pensato, ma sentirselo dire in faccia da un estraneo era tutt’altra faccenda.
Eric lo trattenne per un polso:
«Ehi, no no! Scusami, mi è scappato. Sono stato indelicato. Ti chiedo perdono, ma torna a sederti, ho qualcosa che voglio discutere con te.» Silenzio. «Per piacere.»
Ben sospirò, assecondandolo, tuttavia tenne il broncio come fanno i bambini, evitando chiaramente di guardarlo dritto negli occhi.
«Vuoi una birra? È l’ultima, ce la dividiamo» Eric srotolò la bottiglia avvolta nell’asciugamano, facendo attenzione a non toccare le parti sporche di sangue. Sarebbe dovuto andare a comprare due asciugamani puliti l’indomani, non ne aveva praticamente più, neanche per asciugarsi il culo.
Ben scosse il capo:
«Non bevo.»
Eric sorrise, un altro punto a suo favore, non solo perché ciò significava che aveva la birra tutta per sé, ma che il fisico del ragazzo non era intossicato dall’alcool. Ne aveva conosciuti di pugili, in passato, le cui carriere erano state stroncate da quel brutto vizio.
«Fumi?» gli chiese poi.
«Che? No!»
Perfetto! Se non era un segno del destino quello!
Eric guardò la bottiglia di birra, decidendo alla fine di conservarla. Adesso, aveva bisogno di tutte le sue facoltà mentali al massimo per fare un bel discorsetto a quel giovane futuro pugile.
«Ascolta Ben, te ne intendi di boxe?»
L’altro scosse il capo in segno di negazione.
«Bene, bene. Io sono un agente. Sai che significa?»
Di nuovo Ben fece di no con la testa.
«Vuol dire che il mio lavoro è procacciare giovani promesse del pugilato» Eric batté un palmo sul tavolo prima di indicarlo. «Come te!»
«Meee?» La –e finale si prolungò nella tipica cadenza sudamericana.
«Si, tu! Ascolta…» gli afferrò entrambe le ginocchia con le dita, sporgendosi in avanti. «Ho visto come ti sei rimesso in piedi dopo i colpi presi, ho visto la grinta nei tuoi occhi, la fama di diventare qualcuno, lo scatto che hai fatto avventandoti su coso, lì, Alejandro. C’è una bestia in te che cerca solo di venire fuori!»
«Tu sei pazzo!» Ben si alzò, non scattando come aveva fatto prima, ma comunque intento ad allontanarsi da Eric.
«No, Benny, ascoltami! Io e te, insieme, possiamo fare grandi cose! Possiamo arrivare al top, far parlare il mondo di noi!» Anche Eric La Manna adesso era in piedi. Erano alti quasi uguali, li separava appena qualche centimetro, eppure Ben sembrava più slanciato, forse dovuto al fatto che fosse magro. «Quanti anni hai, Benny?»
«Ve-ventidue.»
«Ventidue anni! Alla tua età bisognerebbe desiderare di spaccare il mondo! Quali sono le tue origini?»
«Sono portoricano. Cioè, i miei nonni lo erano, sono emigrati qui dopo la guerra…»
«Lo vedi, cazzo! Lo vedi che io e te siamo simili! Veniamo entrambi da famiglie straniere, da popoli che hanno dovuto lottare per trovare il proprio posto nel mondo. E allora? Non vuoi far sentire la tua voce?» Ora lo teneva per le spalle, scuotendolo appena, ma era evidente che al ragazzo la vicinanza fisica lo infastidiva, perciò con una scrollata se lo tolse di dosso.
«Tu sei pazzo, amico! Fatti vedere da uno bravo! Diventare un pugile? Che fesserie vai raccontando? Ci vediamo, stammi bene!» Ben si mosse verso la porta.
«No, no, ehi! Aspetta, ma dove vai? Ben? Benny?»
Ma quest’ultimo era già andato via, lasciando che Eric sprofondasse nuovamente in quel silenzio lugubre e mesto.
Si chinò dietro la poltrona e afferrò la bottiglia di vino, bevendo fino all’ultimo goccio che ne era rimasto.
Fuori dalla finestra, a est, il sole stava già sorgendo.
Eric si voltò a fissare i raggi aranciati che si allungavano sui tetti delle case grigie e tutte uguali, come la vita delle persone in quella parte di mondo.
«Buongiorno un cazzo!» esclamò, sollevando la bottiglia al cielo.


 
  
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