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Autore: Glenda    01/09/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Dopo che Marùsz e gli altri due (si ricordava di loro, ma, per quanto si sforzasse, gli sfuggivano i loro nomi) si erano dileguati, Adrian lo aveva trascinato in albergo con urgenza, e con la frase “Lei mi deve delle spiegazioni”. Ma poi, una volta che la porta della hall si era chiusa, non aveva più detto niente: si era invece rivolto al receptionist, gli aveva chiesto qualcosa di caldo da bere e poi si era abbandonato a sedere su una poltrona ad aspettare che la bevanda fosse pronta.

Noam era rimasto in piedi immobile, rendendosi conto di quanto gli girasse la testa: aveva bevuto molto, era esausto e la tensione che si stava sgonfiando stava portando con sé via anche le ultime energie che gli erano rimaste.

“Vada a dormire.” quasi gli ordinò Adrian.

Percepiva le parole come rallentate, e altrettanto rallentate erano le sue azioni. Ci mise un po’ a decidere che invece desiderava restare con lui.

“Non vuoi le spiegazioni…?”

“Se potesse guardarsi allo specchio, saprebbe perché non gliele chiedo adesso.”

Ma anche Adrian avrebbe dovuto guardarsi allo specchio: stanco, la fronte tesa, la postura testa, tese persino le mani quando presero la tazza che gli era stata portata, teso il cenno di ringraziamento rivolto al receptionist. Solo la sua voce rimaneva placida: quella sembrava proprio che non potesse tendersi mai e Noam se ne era lasciato tranquillizzare tante volte.

Ma quella sera no.

“Senti… ehm… sei… sei sempre stato armato, tutto questo tempo?”

Adrian per poco non si strozzò con la tisana.

“Che razza di domanda è?”

Era una domanda importante. E la risposta era importantissima.

“Vada a dormire.” gli intimò di nuovo, con voce ferma.

Noam non disse altro, ma non si mosse.

“Signor Dolbruk,” fece allora Adrian (era tantissimo che non lo chiamava così, e quella sera lo aveva già fatto due volte) “io ho gran rispetto della sua intelligenza, nonostante un attimo fa lei mi abbia dato qualche ragione per dubitarne. Dunque, come pensava che io potessi proteggerla? Facendo la voce grossa?” si prese una pausa, posò la tazza sul tavolino, socchiuse gli occhi, sprofondò nello schienale della poltrona “Ovviamente sono sempre stato armato e ovviamente, se questo la preoccupa, ho il permesso per il porto occulto.”

Quasi che il problema fosse il permesso!

Ma Adrian aveva ragione: come aveva fatto e non pensarci mai? La colpa doveva essere proprio di quella voce salda, dei suoi silenzi privi di pretese, del fatto che gli fosse sempre apparso la persona più rassicurante della terra, il che non andava d’accordo con l’immagine di un uomo capace di sfoderare una pistola.

“Hai mai sparato a qualcuno?”

“Miseria! Le domande dovrei fargliele io, e gliele sto risparmiando solo per premura verso la sua salute.”

Noam si stropicciò il viso con le mani e diede in una risata nervosa.

“Sì. Scusami. Le spiegazioni.” si accertò che il portiere di notte fosse tornato dietro il bancone, intento a fare qualcosa col cellulare, sonnacchioso “Marùsz lo conosco da quando eravamo ragazzi. Non ci siamo più sentiti dopo che ho lasciato Mòrask, ma, come ti ho già raccontato, non ho tenuto nessun contatto negli ultimi sei anni, neppure con la mia famiglia, per ragioni che ti sono grato che tu non mi abbia mai chiesto. Anche gli altri due li conoscevo, ma di vista, amici di amici. Tutta la famiglia di Marùsz ha idee separatiste estreme e perciò qualche divergenza tra noi c’è sempre stata, ma una cosa, un tempo, l’avevamo in comune: la convinzione che il governo è marcio, gli sbirri sono marci, e tutto ciò che è autorità agirà sempre a svantaggio della gente di Mòrask, o, per dirla in modo più adolescenziale, ogni autorità è per sua natura malvagia. Poi ci sono state esperienze che mi hanno portato a mettermi in discussione e a fare una scelta che per le persone che frequentavo allora è inconcepibile, offensiva, vigliacca o peggio. Quando ho accettato di tornare qui, sapevo che avrei dovuto scontrarmi con situazioni del genere: sapevo di tornare nelle vesti di un venduto, un corrotto, un traditore, un leccaculo del governo e altre robe così. Niente che io non possa incassare: lo avevo messo in conto.”

“No.” fece Adrian, lapidario “Lei non aveva messo in conto un bel niente, o, se lo aveva fatto, non aveva condiviso le sue valutazioni con me. Prima che partissimo, mi ha detto che era sicuro che le minacce che aveva ricevuto non provenivano da Mòrask, mi ha chiesto di fidarmi di lei, mi ha chiesto di farlo a scatola chiusa. L’ho fatto. Le sue intuizioni si sono rivelate sbagliate. Deve solo ringraziare che io fossi armato: eravamo in due contro tre e lei non era in grado di difendersi in nessun modo, dato che si teneva in piedi per grazia ricevuta.”

“Fai le cose più gravi di quanto siano. Ok, forse volevano riempirmi di botte, ma credimi, un occhio nero o il naso rotto erano il peggio che potesse capitarmi. Marùsz non è un assassino!”

Adrian sollevò la schiena dalla poltrona e lo fissò con uno sguardo incerto tra lo sgomento e la rabbia.

“Pensa veramente che una sassata in testa non possa ammazzare nessuno?”

Lui sfuggì quello sguardo e sorrise con dolcezza.

“Nah, non era un lancio né abbastanza forte né abbastanza preciso. E a Mòrask le sassate nei litigi si danno via come i confetti ai matrimoni. Sai che fanno i bimbi di qui quando nevica? Giocano a pallate di neve, ma riempiendo la palla con un sasso, oppure con le zolle di terra ghiacciata. Nessuno c’è mai morto… anche se una volta un mio compagno di classe è finito in ospedale… ”

Adrian colse il suo tentativo di sdrammatizzare e la sua fronte si fece appena più distesa.

“E poi si lamenta per i pregiudizi!” esclamò “Uno che sente una storia del genere e non è nato a Mòrask che deve pensare? Che i darbrandesi apprezzino che i propri figli giochino a chi si spacca la testa per primo?”

Noam rise.

“Lo so, lo so! Hai ragione. Tutti gli stereotipi nascono da qualcosa di reale. Solo che i pregiudizi poi si allargano a tutti, ti si appicciano addosso e parlano di te: di un te che non sei, capisci?” gettò lo sguardo fuori dalle vetrate della hall, scosse la testa, la sua voce si fece vaga, sognante “Non ho mai tirato una palla di neve, né col sasso né senza. Non ne ero, letteralmente, capace: un fallimento totale per un darbrandese figlio di darbrandesi. Odiavo anche fare a botte, benché in qualche rissa ci sia finito. Sai quella storia di voler piacere per forza alla gente, no? Era come se i miei coetanei e persino mio padre si aspettassero da me che ogni tanto menassi le mani, e che il fatto che io lo evitassi gli facesse – lo so, pare assurdo a dirlo così – dispiacere. Così a volte mi buttavo nella mischia anche io e ogni volta ne prendevo molte di più di quante ne dessi. E tuttavia, alla fine, a farmi male non erano i lividi delle botte prese, ma il ricordo delle poche date. Sono cresciuto a Mòrask e, a dispetto di ogni stereotipo, la violenza mi ha sempre fatto paura: più che paura di esserne vittima, paura di trovarmi nella condizione di esercitarla. Per questo il sapere che tu porti un’arma con te mi ha turbato, e per questo ti ho chiesto se hai mai sparato a qualcuno. Ma hai ragione di nuovo: avrei dovuto immaginarlo.”

Adrian fece un lungo respiro e soffiò l’aria fuori, stancamente.

“Lei è davvero…” lasciò la frase sospesa, a galleggiare tra loro. Cambiò discorso. “Sì, ho sparato quattro volte. Solo una volta una persona è rimasta seriamente ferita, ma era una situazione di emergenza. Non ho mai sparato per uccidere e infatti nessuno è mai morto.”

“E… e come sei finito a fare questo mestiere?”

“Questa è una domanda a cui non risponderò. È un problema?”

Noam scosse il capo, quasi scusandosi con gli occhi.

“No.”

“Vada a dormire, ed io sposto il check out di questo albergo.” disse Adrian “Non punti la sveglia, domattina. Il mondo andrà avanti anche senza di lei.”

 

***

 

I giorni che seguirono furono meno intensi ma non per questo più sereni.

Noam visitò la sede di Liberi Insieme, incontrò Màrna diverse volte, insistette per presentarlo ad Adrian (anche se quest’ultimo si rifiutò sempre di essere presente alle loro conversazioni), e accettò di parlare in pubblico per una rete locale, mossa che immaginava gli avrebbe portato più infamia che sostegno, e che, invece, inaspettatamente non fece troppo rumore, anzi, gli valse alcuni messaggi di incoraggiamento che lo fecero sentire bene. Adrian si era preoccupato che un gesto simile, rendendo plateale sua presenza a Mòrask, potesse rivelarsi pericoloso, ma sarebbero ripartiti a breve, quindi le tempistiche minimizzavano i rischi, e, del resto, dopo l’episodio di piazza Xolk, Noam era stato molto attento a non commettere imprudenze, sforzandosi di tenere comportamenti a basso profilo che andavano contro la sua stessa natura.

Per quanto davanti ad Adrian continuasse a minimizzare, si era spaventato, e quella paura si era trasformata in uno sciame impazzito di sospetti e di ripensamenti che gli assediavano i pensieri: e se quello di Marùsz fosse stato un avvertimento? Se il Fronte – ammesso che esistesse ancora un Fronte – avesse deciso di compiere qualche gesto eclatante? Se la strategia di Kàrkoviy avesse esposto ad un pericolo il professor Màrna? Quanta gente lo odiava, a Mòrask? Stava rendendo le persone che aveva intorno oggetto dello stesso odio? Lant, Zjam, Adrian stesso?

Quest’ultimo, poi, da quella sera non aveva allentato la tensione un solo istante: era sempre guardingo e iper-vigile, anche nei momenti in cui sarebbe stato naturale rilassarsi. Noam si chiedeva come facesse: gli sembrava davvero, come gli era capitato di pensare una volta, un uomo che riusciva a vivere senza respirare. Che aveva rinunciato a respirare.

Rientrare a Noravàl sarebbe stato un bene per entrambi.

Al di là di qualsiasi forma di rimorso o di nostalgia, voleva davvero tornare alla città che aveva scelto come propria. Voleva uscire dal recinto di quei monti, voleva l’orizzonte.

Non si aspettava che la cosa che aveva temuto, evitato, (desiderato?) durante ciascuno di quei giorni, gli piombasse addosso senza che avesse fatto niente perché accadesse.

Non si aspettava che a cercarlo sarebbe stato lui.

Era mattino presto, l’indomani sarebbero partiti e nel primo pomeriggio era invitato a casa del professore per salutarsi e fissare le tappe della loro collaborazione futura: ci sarebbe stato anche Zjam in collegamento telefonico.

Il cielo era coperto e Noam si affacciò alla finestra per vedere se stesse piovendo: non pioveva, ma qualcosa era invece piovuto sul davanzale durante la notte.

Capì al primo sguardo di cosa si trattasse e chi lo mandasse. Nessuno, tranne Thièl, sarebbe stato capace di far volare un aeroplano di carta fino ad atterrare perfettamente sulla finestra del secondo piano: l’oggetto e il modo in cui era stato recapitato erano già una firma.

E infatti non c’erano firme dentro il foglio che spiegò sulle ginocchia rabbrividendo: c’era solo una frase “Ti devo parlare”, accompagnata da un disegnetto inequivocabile che gli suggeriva il posto. Anche se non ci sarebbe stato bisogno di suggerirlo. Dove altro avrebbero potuto incontrarsi? I fratelli, i vecchi amici, le persone che hanno in comune solo il passato tendono sempre a ricercare anche i luoghi del passato, come se questo li riportasse indietro a tempi in cui tutto andava bene, quando invece non andava bene proprio niente.

Thièl.

Maledizione, Thièl.

A qualsiasi altro incontro avrebbe potuto sottrarsi, a chiunque altro avrebbe potuto dire no, tranne a lui. Chissà se lo sapeva. Chissà se era consapevole del potere che esercitava o se aveva solo fatto un tentativo. Chissà se immaginava quanto gli mancasse.

Rimase per lunghi minuti seduto sul bordo del letto a fissare quel foglio disteso, con le pieghe precise, ben visibili, che lo avevano trasformato un piccolo velivolo messaggero: riusciva a rivedere le dita di Thièl che piegavano la carta e la trasformavano in cose… rane, barchette, uccelli… Riusciva a vederlo bambino, mentre soffiava sulla punta di un aereo come quello e poi lo lanciava in aria, sempre nella direzione che voleva, seguendo i giochi del vento, più in alto e più lontano di chiunque dei loro amici sapesse fare.

Noam era il maggiore di cinque fratelli e per tutta la vita gli era stato insegnato che l’amore va diviso in parti uguali, che nessuno merita più attenzioni degli altri. Ma con Thièl non gli era mai riuscito: lui era stato il suo affetto speciale. Compagno d’infanzia, di giochi, di giovinezza, infine di politica: tra loro correvano due anni ma erano cresciuti come gemelli, tutti gli altri erano arrivati molto dopo. Non c’era nulla che ricordasse fino a sei anni prima che non avessero pensato insieme, costruito insieme o fallito insieme: non aveva mai nemmeno immaginato una vita senza Thièl.

Ma poi la vita se ne era andata per i fatti suoi e aveva distrutto l’immaginazione, anzi no, una bomba aveva distrutto l’ingresso di una galleria, e quattro uomini, e il suo mondo, e tutto.

Ripiegò il foglio lungo i suoi tracciati: un aereo elegante, perfetto, crudele.

Dove erano volate le ali di Thièl?

Lui gli stava offrendo l’unica occasione di saperlo.

Doveva incontrarlo.

Voleva incontrarlo.

 

***

 

Si separò da Adrian nello stesso modo di sempre: stessi abiti, due direzioni diverse per arrivare nello stesso luogo, e si sentì l’uomo più ingrato della terra nel momento in cui cambiò strada, spense il telefono e si avviò verso il Parco della Ferrovia. Quello era stato il luogo suo e di Thièl, il luogo in cui avevano giocato da bambini, quello dove avevano stappato le prime birre comprate con la complicità di un amico più grande, quello dove avevano parlato di politica e fabbricato castelli in aria a notte fonda, col gelo nelle ossa e un nero petrolio attorno o sotto una arrogante stellata estiva, il luogo dove avevano collocato il primo omino di carta e quello della prima volta che si erano urlati contro… Per Noam aveva una colorazione affettiva complicata, dove la benevola nostalgia dell’infanzia si mescolava a qualcosa di più torbido, che gli metteva urgenza e allo stesso tempo paura nei passi.

Non voleva portarci Adrian.

(Adrian che adesso si stava dirigendo a casa di Màrna, attenendosi ai piani fatti insieme, fidandosi di lui).

Forse invece avrebbe dovuto portarcelo.

Chiamarlo, dirgli la verità, permettergli di accompagnarlo: era lui era quello bravo a capire le intenzioni delle persone.

Ma proprio perché non conosceva le intenzioni di Thièl non poteva chiedere il suo aiuto.

Chi era adesso suo fratello? Dove lo avevano portato il Fronte, l’attentato del Nòdoask, loro padre, la maledizione di Mòrask, la vita coi suoi giri contorti e le sue trappole?

Si rese conto che la sua camminata era diventata quasi una corsa, sentiva uno strano affanno nel respiro, un desiderio di arrivare subito, di fare ciò che era da fare e poi fuggire in fretta, ma quando i suoi occhi si affacciarono sulla familiare distesa d’erba e terra battuta, invasa dalla luce bassa di un pomeriggio offuscato, si sentì inchiodato lì, i piedi pesanti, la testa pesante, pesanti il cielo, le nuvole gonfie e i pensieri. Le due altalene di legno, vecchie e intramontabili, si stagliavano controluce sulla spianata deserta (nessun bambino a giocare, che strano) e su una delle due, seduto di spalle, suo fratello: una schiena come tante, e inconfondibile.

Da quanto era lì? Da quel mattino? Non gli aveva dato un appuntamento, solo un luogo.

Noam si guardò in giro: non c’era anima viva, salvo un paio di vecchietti in distanza, su una panchina, uno col giornale in mano, l’altro che gettava qualcosa agli uccelli da un sacchetto di carta posato sulle ginocchia. La promessa di pioggia doveva aver scoraggiato i frequentatori abituali, che in verità non erano mai stati molti. Il Parco della Ferrovia non era certo il miglior giardino di Mòrask: due sole altalene, uno scivolo che pendeva di lato e che nessuno (nemmeno negli ultimi sei anni) aveva mai sostituito, brutti giri di notte, troppi cani lasciati liberi di giorno. Solo i figli degli abitanti del quartiere lo frequentavano, e nemmeno tutti.

Il silenzio fu rotto dal passaggio del treno. Noam girò appena la testa sulla scarpata ferroviaria e pensò che dall’altro lato dei binari c’era la sua vecchia casa: gli sarebbe bastato salire la passerella pedonale per vederla… la stessa passerella che aveva attraversato senza voltarsi indietro nel suo ultimo giorno a Mòrask.

Percorse i metri che gli restavano con dolorosa lentezza: si sedette sull’altalena vuota, chiuse gli occhi.

Thièl si diede una piccola spinta, Noam sentì i cardini stridere disperatamente, poi i piedi di suo fratello bloccare quel movimento piantandosi a terra, sicuri.

“Sei poi riuscito a fare il giro della morte, Noam? Ne hai trovate, di altalene, a Noravàl?”

La sua voce calda, irriverente e piena di certezze.

Maledizione, Thièl.

Aprì gli occhi per guardarlo: sembrava così cambiato (invecchiato, indurito), eppure tutti i minuscoli dettagli che facevano sì che il suo viso fosse il suo viso erano rimasti identici. Gli stava sorridendo – sul mento e su un lato della bocca quelle piccole fossette che avevano in comune – ma quel sorriso non era né allegro né triste, né di sfida, né di coraggio: era un sorriso che aveva smesso di parlargli sei anni prima, e mentre non riusciva a smettere di fissarlo, Noam continuava a fissare il baratro che si era aperto tra loro.

“Sì, ci sono molte altalene a Noravàl.” disse “Ma a fare il giro della morte non ci ho più provato. Mi sono convinto che non sia una buona idea.”

“A me pare che invece ci provi eccome.”

“Detta così sembra quasi una minaccia.”

Thièl smise di sorridere.

“Non lo è. Ma Mòrask non sono io, e il Fronte non sono io.”

“E cosa sei tu per il Fronte?”

“Ti interessa?”

Sì.

No.

Cosa hai fatto Thièl? Hai ammazzato qualcuno? Sei un terrorista?

Il pensiero gli fece girare la testa: diede una piccola spinta all’altalena, e il dondolio della testa si mise in linea col dondolio del mondo.

“Come sta la mamma?” cambiò discorso.

Thièl rimase un po’ in silenzio, non capiva se per tenerlo sulla corda o cosa.

“I primi anni sono stati difficili, ma adesso sta meglio. Ha trovato un lavoro, frequenta un uomo, uno dei nostri.” non gli piacque il tono con cui sottolineò le ultime parole “Certo, non è stato bello scoprire cosa ne fosse stato di suo figlio da un servizio al telegiornale, dopo quattro anni senza notizie, ma la conosci, se n’è fatta una ragione.”

E tu, invece?

“Dzjorzj? Le ragazze?”

“Oh, loro una ragione non se la sono fatta mai. Del fatto che tu te ne sia andato, intendo. Penso che non ti perdoneranno. Eppure, come avrei dovuto aspettarmi, hanno tutti seguito la tua strada. Insomma, se lo ha fatto Noam, andrà bene, no? Tu li hai abbandonati, ma sei sempre tu quello che va bene. Dzjorzj ha preso il diploma da geometra e lavora a Mìmat, Alma e Trèxia sono scappate ancora più lontano: sono a Kòr a fare l’università e tornano si e no una volta l’anno. Sei un’influenza negativa permanente.”

Rimarcò forte quella frase, ma non riuscì a imprimerci la cattiveria che avrebbero richiesto.

Noam saltò giù dall’altalena atterrando a piedi pari.

“Influenza negativa perché li ho spinti a pensare che i monti Mor-Dàreuk si possono anche superare oppure perché ho deciso che la lotta politica di nostro padre non era politica ma fanasismo?”

Anche Thièl balzò in piedi, fronteggiandolo.

“Non dirlo mai più. Stai ficcando la mano in un vespaio.”

“Sto cercando la strada meno sanguinosa per cambiare il destino di Mòrask.”

Thièl diede in una tragica risata.

“Il destino di Mòrask! Il destino di Mòrask! Ma ti rendi conto delle cazzate che dici? Pensi che ai tuoi amichetti di riviera, con la puzza sotto il naso e il culo pesante, importi qualcosa del destino di Mòrask? Gli interessa solo avere una bella etichetta da attaccare sul pacchetto per dire che ci hanno provato, che sono delle brave persone e meritano di sedersi al posto di quegli altri pezzi di merda che ci stanno già, per poi continuare a trattarci come cittadini di serie B e a trattare il Dàrbrand come il loro discount! Lo sai quanti imprenditori gambemolli hanno costruito le proprie fabbriche qui da quanto te ne sei andato? Lo sai che aprire aziende a Mòrask costa meno perché siamo tutti terroristi e quindi gli investimenti sono pericolosi? I fondi della Repubblica per lo sviluppo della regione vanno nelle tasche di questa gente qua, non della manodopera che impiegano… eppure possono vantarsi di aver portato lavoro, di aver messo in moto l’economia, e sventolare con fierezza la bella etichetta. Non ti accorgi di essere una di quelle belle etichette? Come può l’uomo intelligente che era mio fratello non rendersene conto?!?”

Noam aveva immaginato spesso di dover rispondere a quelle accuse: sapeva anche come farlo, aveva messo in ordine i pensieri migliaia e migliaia di volte, ma davanti a lui non c’erano le accuse, c’erano la rabbia di suo fratello, la delusione di suo fratello, e tutta la sua vecchia vita, i suoi tentativi falliti, suo padre. Il destino di suo padre. E il senso di colpa che si mangiava ogni cosa, anche quei pensieri pensati e ripensati, e le parole con cui avrebbe potuto rispondere: chiare, lucide, sicure. Tutte, tutte divorate in un sol boccone.

“Ti prego.” disse solo “Non gridare. Ti sto ascoltando.”

“Ma porca puttana!” Thièl colpì con un pungo i pali che tenevano in piedi le altalene. Noam sussultò come se il colpo fosse stato rivolto a lui “Dove, dove pensi di poter andare, con tutte queste stronzate infinite? Il parlamentare gentile, quello che cerca il compromesso, che provoca senza ostilità, che sorride sempre e non si arrabbia mai, il soave Dolbruk! Ma andiamo! Ci avevi già provato. Ci avevi provato ed è stata una catastrofe! E ciò che mi fa ancora incazzare è che io ti ho persino sostenuto! Te, ed il tuo maledetto carisma, quello che hai rubato a nostro padre anche se lo neghi, quello con cui hai influenzato i nostri fratelli ed i nostri amici comuni, ed il movimento in cui i nostri genitori avevano investito tutto… per fare cosa? Un cazzo di niente: solo per urlare a modo tuo che non eri d’accordo!”

“Thièl…” La voce di Noam si era ridotta appena ad un sussurro, e quella di suo fratello gli sembrava un fiume in piena, una tempesta che infuria… come quella di Fidòr Dolbruk, come quella sua eterna, insoddisfatta ferocia: il loro conflitto infinito, che non riusciva a finire nemmeno dopo che uno dei due era morto.

“Papà aveva ragione: hai spezzato il Fronte in due con la tua patetica idea che si potessero influenzare le scelte del governo solo esternando il nostro malcontento! Con le tue bravate come le sagome di cartone, gli striscioni, gli scioperi, i flash mob e tutte le tue cazzate da intellettuale hai costretto a uscire allo scoperto un sacco di persone che avrebbero dato il meglio di sé nella lotta clandestina, hai illuso quella gente che un’altra strada fosse possibile quando non c’era nessuna altra strada e tu lo sapevi: volevi solo appagare il tuo desiderio di stare al centro dell’attenzione! Hai manipolato il Fronte per portarlo nella tua direzione, hai fatto apparire nostro padre come un fanatico violento, hai spinto a desistere dalla lotta tanta gente che sarebbe stata pronta a morire per l’indipendenza del Dàrbrand ed hai reso la vita più facile al governo e agli sbirri… e sai cos’è il peggio? Che sei pure convinto di essere stato onesto! Tu manipoli gli altri in continuazione e non ti rendi neanche conto che lo fai: ma quando dirigi le intenzioni di qualcuno, influenzi i suoi ideali, lo porti dalla tua parte, tu per primo devi sapere dove vai e come ci andrai, perché ti stai assumendo la responsabilità anche per loro. Quando smonti un movimento come il nostro dall’interno e di fatto ne assumi la leadership, devi dargli una direzione, devi, devi sapere che cosa vuoi: invece, Noam, tu hai sempre saputo solo quello che non volevi! Non volevi il terrorismo, non volevi che qualcuno si facesse male, non volevi che la lingua e la cultura dar-breuk sparissero, non volevi che gli industriali della capitale prosciugassero le risorse del Dàrbrand senza che a noi ne venisse niente, non volevi le restrizioni al nostro diritto di manifestare, ma non volevi nemmeno l’indipendenza, non volevi svantaggiare la gente dell’alta valle del Nòrav, non volevi il boicottaggio dei lavori al traforo… e alla fine, che cazzo volevi? Non lo sai nemmeno adesso! Stai solo cercando di impedire che le cose che trovi sbagliate accadano, ma non ti accorgi che sei incastrato in una posizione in cui, per evitare che queste accadano, permetterai di rimandare all’infinito la possibilità che ne accadano altre. Dialogando con loro, li aiuti a procrastinare per sempre. Collaborando, gli dai un alibi. Partecipando, li legittimi. Così alla fine quelli di Liberi Insieme potranno salire al governo e dire abbiamo persino candidato un darbrandese, noi siamo quelli buoni… e mettere a tacere ancora per un po’ la nostra gente. Rimandare, rimandare e rimandare. Ed io tuttora non so sei un venduto, un illuso, o solo un imbecille!”

Un altro treno sfrecciò lungo i binari: attraversando la stazione lanciò in aria il suo fischio lamentoso. Rumore su rumore.

“Non è vero che non so cosa voglio, Thièl.” lo guardò negli occhi e lo fissò con tutta la sicurezza che gli rimaneva “Io voglio trattare con voi.”

“Dio, ma che cazzo dici!!!”

Quanto era diventato bravo a gridare. Gridava con la voce, con gli occhi, con il corpo. Dentro e fuori di lui ogni cosa gridava.

“Che cazzo dici, Noam! Tu vuoi solo farti ammazzare! Sai cosa pensa di te la gente del Fronte? Sai cosa pensano i membri di decine di altri movimenti di cui non sai nemmeno l’esistenza? Che sei un corrotto che ha sfruttato le informazioni che possedeva sui separatisti per fare carriera, che se non prendiamo provvedimenti ci venderai tutti quanti, che sei una minaccia per noi!”

“E tu che pensi?”

Thièl esitò, colto sul vivo, e la voce di Noam si inserì in quell’incertezza.

“Se avessi voluto vendere qualcuno, lo avrei fatto prima, quando poteva ancora servire a qualcosa. E ancora mi pento, e non posso smettere di pentirmi, per non averlo fatto. Ma sono venuto qui da solo, ingannando la persona che ha l’incarico di proteggermi. Tu cosa pensi, Thièl? Lo voglio sapere.”

“Penso che tu non abbia nemmeno una chance e che se mai ne avessi qualcuna sarebbe solo più pericoloso per te.”

“No. Ti sto chiedendo cosa pensi di me. Non mi merito più nemmeno una briciola della fiducia che mi hai dato dieci anni fa?”

Lo sguardo di Thièl si fece di ghiaccio.

“Per meritarla avresti dovuto difendere la tua posizione, sfruttare la leadership che avevi e portare avanti la tua linea nonostante ciò che era successo. Anche contro di me. Invece sei scappato e ci hai mollati tutti qui, quando avresti dovuto essere l’adulto!”

Forse fu quella parola a far precipitare tutto, o forse il peso delle cose tenute dentro per sei anni si fece semplicemente insostenibile, ma per la prima volta Noam si accorse di sentirsi rimbalzare nelle orecchie la propria stessa voce: si sentì gridare.

“NO, non è così! Io NON dovevo essere l’adulto!!! Nostro padre era l’adulto. Lui doveva, ma non essendone capace, allora ci ho provato io. Ci ho provato a impedirgli di fare una cosa sbagliata ed orrenda: SBAGLIATA ED ORRENDA, mi senti, Thièl? Ci ho provato nel solo modo che mi è venuto in mente e non ci sono riuscito! Pensi che avrei potuto sopportare un fallimento del genere?!? Limitarmi a prenderne atto e rimanere a vivere a Mòrask, a fare politica a Mòrask, a difendere le mie posizioni contro quelle di un maledetto martire della causa? Continuare a guardarvi in faccia, incontrarvi per strada, sapendo ciò che sapevo? Non sono fuggito per paura del vostro odio: il vostro odio è un dolore che posso sopportare! Sono fuggito per paura di quello che non sono riuscito a fare, paura di quello che mi è sfuggito di mano, della valanga che nelle mie mani doveva essere solo un granello…e per il terrore, il terrore di non poter controllare le conseguenze della mia dannata capacità di trascinare gli altri, di manipolarli, dici tu. Pensi che io sia un traditore del mio paese perché mi sono alleato con Liberi Insieme? Pensi che io voglia vendere qualcuno per ottenere potere personale? Pensi che io sia solo un imbecille? Pensa pure. Io sono sicuro che una soluzione esista, se siamo disposti a guardare le cose anche dall’altro lato delle montagne. Interessi, giochi di potere, giri di denaro, procrastinazioni, certo che ci sono: ma se lo scopo è distruggere tutto prima di ricostruirci sopra non si va da nessuna parte. Pensi che io sia un corrotto per questo? Pensa pure. E per chiamare una buona volta le cose col loro nome, Thièl: volete farmi saltare in aria per questo? Fate pure! Non ne ho paura. Te lo ripeto: il vostro odio non mi fa paura!”

Sull’ultima sillaba, il pugno di Thièl lo colpì in pieno viso: Noam rovinò a terra, i suoi occhiali volarono lontano, nella polvere dello sterrato. In un attimo suo fratello gli fu addosso, ma Noam si tirò velocemente in piedi e gli rese il colpo.

“Bravo.” incassò lui con un sorriso di sfida “Ma questo è il tipo di gioco in cui ho sempre vinto io.”

Non voleva battersi con Thièl. Non lo aveva mai voluto nemmeno da bambini. Non voleva sentirlo gridare, non voleva sentirsi gridare. Non voleva sapere la verità, non voleva, non voleva. Ad ogni pugno che riceveva pregava forte dentro di sé che lui stesse zitto, che lo lasciasse all’oscuro, che finisse di picchiarlo e se ne andasse. Ad ogni pugno che restituiva desiderava abbracciarlo, e supplicarlo di restare al suo fianco, di sostenerlo come prima che tutto crollasse.

Poi sentì chiamare forte il suo nome e nello stesso istante un colpo di Thièl alla bocca dello stomaco lo fece piegare a terra.

Quando si tirò su con la vista appannata e il sapore del sangue nella bocca, suo fratello non c’era più: c’era Adrian.

 

  
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