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Autore: ChiiCat92    06/10/2022    1 recensioni
Quest'anno ho deciso di raccogliere le storie del Witober in un unico posto. Saranno per lo più storie originali, i generi saranno i più svariati, qui un piccolo elenco: fantasy, scifi, horror, slice of life, pranormale, porno, fluff, smut, yaoi, shonen-ai, yuri.
Partecipo con le liste di FanWriter.it!
Genere: Generale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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#war #blodd #violence #nb #nonbinary #nonbinarycharacter #nbprotagonist #angst #triggerwarning
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Corri Scheggia, corri! 

Da quando aveva indossato l’uniforme e imbracciato il fucile per la prima volta era quello che continuavano a dirgli tutti. 

Corri Scheggia, corri! 

E dire che lui a correre non era mai statǝ granché, soprattutto perché preferiva i fast food ai campi di atletica, il divertimento pacato alla palestra. Insomma, non era mai statǝ, e mai l’avrebbe detto, che dalle sue gambe sarebbe dipesa la sua vita.

Era veloce, era straordinariamente veloce. Per questo gli altri membri del plotone avevano cominciato a chiamarlo Scheggia.

Da invisibile, insignificante individuo con pochi amici e poche passioni era passato ad essere qualcuno, non un mucchio di carne e ossa che in braccio un’arma, ma Scheggia, una persona con un nome e un’identità. Questa era l’unica cosa buona che aveva portato la guerra. 

Scheggia era statǝ qualcuno prima che arrivassero ma l’arruolamento forzato, l’addestramento, le notti rannicchiatǝ in brandina ad aspettare l’alba l’avevano cancellato. Il giorno che gli avevano tagliato i capelli, portato via i vestiti e reso spaventosamente reale Call of Duty aveva smesso di essere quella persona. 

L’ultima cosa che la sua generazione si sarebbe aspettata sarebbe stata la guerra. Non la guerra nel paese degli altri, combattuta da altri, per religione, petrolio, territori, quella pigra che passava al telegiornale dipinta come una tragedia che spariva in fretta una volta cambiato canale. No, non quella comoda guerra, ma quella reale, capace di costringere tutti i governi del mondo ad arruolare maschi e femmine dai sedici anni in su con la forza e senza spiegazioni. 

Scheggia i nemici non li aveva ancora mai visti, perché quando erano arrivati con l’intenzione di invadere e colonizzare la prima cosa che avevano fatto era stata far saltare la rete di informazioni: niente internet, niente stampa, niente televisione. 

Al conseguente panico era seguito un broadcast di emergenza del governo: restate nelle vostre case, seguiranno ulteriori comunicazioni.

Le comunicazioni si erano mostrate sotto forma di militari armati che avevano prelevato tutti i giovani, parecchi veterani, buona parte della fascia tra i quaranta e cinquanta. Erano rimasti fuori solo disabili, malati, anziani e bambini, chiunque fosse stato trovato in grado di poter sopportare un rapido addestramento, a prescindere dall’orientamento politico e morale, era stato portato via con quello che Stato dichiarò essere “arruolamento coatto". 

Se qualcuno si era opposto, era scappato, o aveva evitato l’arruolamento non si sapeva: di questo tipo di persone non rimanevano tracce.
Così, Scheggia, sepratǝ dalla famiglia, dal mondo che conosceva, era diventatǝ un soldato. 

Lǝi alla guerra non aveva mai neanche pensato se non come ad un passatempo da vivere sul divano con un joystick.

Adesso, però, era diverso, adesso sapeva come ricaricare una pistola, un fucile, un mitra persino, sapeva anche utilizzare le bombe a mano, anche se sperava di non doverlo mai fare. 

Sperava di correre, correre e basta, perché la cosa che gli riusciva meglio. 

A pensarci faceva sorridere, non avrebbe mai scoperto di essere un talento dell’atletica se non fosse stato per la guerra. Un’altra cosa buona! 

Quindi adesso correva.

Correva da giorni a dirla tutta.

I nemici avevano attaccato una delle loro basi, quella tirata su alla bell’e meglio in una scuola elementare di quartiere, facendola saltare in aria in un lampo bianco. 

Prima di avere il tempo di realizzare quanti erano morti, Scheggia e il suo plotone erano dovuti schizzare via con i fucili imbracciati.

Tutti avevano esploso almeno un colpo, tranne Scheggia, le cui dita tremavano ancora sul grilletto, e d’altronde Jaceur non glielo avrebbe permesso. Con un nome che si pronunciava in modo spaventosamente simile a “Yes, sir” non poteva diventare altro che il capo plotone, nonostante la giovane età e la discendenza non-bianca che di norma avrebbe fatto storcere il naso al governo. Strabiliante vedere come quelli che venivano spesso dimenticati dal sistema alla fine erano i primi desiderosi di morire per esso. 

Jaceur gli correva a fianco, non come superiore ma come amico, come superstite in cerca di riparo, come ragazzo spaventato ma deciso.

Dietro di loro scoppi, grida, bagliori accecanti, la fine del mondo, sotto di loro il terreno tremava per l’impatto dei corpi caduti, ed era zuppo di sangue. 

Scheggia si trovava più avanti, ogni tre passi ne saltava uno per aspettare Jaceur, più lento sebbene più testardo. Ogni tanto si voltava per assicurarsi che fosse ancora lì.

La loro grande fortuna era combattere tra i palazzi, più confortevole che scivolare tra le felci della giungla o il fango della palude, ma anche più estraniante. Evitare colpi di fucile infilandosi in uno Starbucks era qualcosa che aveva del surreale. 

< A destra! > gridò Jaceur, e Scheggia capì di doversi tuffare oltre l’ingresso di un H&M per cercare riparo. 

Un tempo avrebbe amato girare indisturbatǝ per i corridoi, tra mensole e manichini vestiti con dubbio gusto. Adesso ogni ombra poteva essere un pericolo. 

Si accucciò dietro uno scaffale, il fiato grosso per l’affanno, e Jaceur gli si sedette accanto poco dopo. 

Un attimo per riprendere le forze, ricaricare i fucili, riorganizzarsi. 

Tacquero entrambi sul sangue che avevano addosso, sui resti carbonizzati di carne e tessuti che erano appartenuti ai loro commilitoni. 

Jaceur provò a far andare la radio, cercando qualche altro plotone nelle vicinanze. Solo rumore statico. 

Erano da soli in mezzo al campo di battaglia. 

“E adesso che facciamo?” avrebbe voluto chiedere Scheggia, ma Jaceur portò l'indice alle labbra intimandolo al silenzio. 

All’ingresso, rumore di passi e vetri calpestati, segnali radio estranei e voci sussurrate.

Jaceur fece cenno a Scheggia di scivolare verso la prossima corsia, nella speranza di arrivare alle scale mobili che portavano al piano interrato, da lì, ipotizzò lǝi, avrebbero preso l’uscita d’emergenza che dava sul vicolo posteriore del negozio, e forse trovare salvezza. Potevano farcela. 

Scheggia annuì, aveva capito, e cominciò a gattonare carponi verso le scale. 

Aveva nelle orecchie un ronzio continuo, poteva essere paura, o l’eco delle esplosioni. 

Era quasi arrivato quando il sibilo di un proiettile gli sfiorò la testa facendolo trasalire. 

< Corri Scheggia, corri! > urlò Jaceur alle sue spalle. 

E lǝi corse. 

Una volta balzatǝ in piedi, corse, corse giù per le scale come un lampo, a zigzag tra gli scaffali abbassando la testa quando i proiettili gli facevano piovere addosso l’intonaco; corse quando avvertì Jaceur crollare dietro di lui, voltandosi solo un istante per vedere il nemico con la canna del fucile puntata contro la sua testa. 

Corse, e per questo non poté giurare di leggere sulle labbra di Jaceur la parola “corri!” sillabata con l’ultima boccata d’aria. 

La porta di emergenza di aprì con una spinta leggera sul maniglione antipanico.

Scheggia fu fuori. Valutò la direzione da prendere con i sensi intontiti e si lasciò guidare dalle gambe. Finché avrebbero retto, e forse anche dopo, avrebbe continuato a correre.

Percorse il vicolo, uscì sulla strada principale. Benché gli fu subito chiaro di essere circondato, non lasciò che la cosa lo fermasse.

Udì l’insolita, schioccante voce del nemico che urlava nella sua direzione, ma non permise agli occhi di riempirsi di una vista che l’avrebbe paralizzato.

Voltò le spalle e riprese a correre. 

Ad ogni falcata stupidi, frivoli ricordi gli riempivano la mente.

Sua sorella al suo primo Natale; sua madre alla cerimonia del diploma; il suo primo fidanzato immerso nella luce del pomeriggio; l’orsetto di peluche, regalo del suo compleanno, abbandonato sul pavimento della sua stanza in mezzo ad altri giocattoli; e ancora l’immagine di cento, mille, milioni di baci, baci rubati, baci imbarazzati, baci sbagliati, baci soddisfatti, baci mai dati, baci perduti.

Il dolore lo trafisse alla schiena ma non lo fece rallentare, anzi.

Il suo passo si fece più sicuro.

Si tolse la tracolla del fucile e lo gettò a terra, in ogni caso non sarebbe riuscito ad usarlo e lo intralciava nei movimenti. 

Non c’era abbastanza aria nell’atmosfera e gli sembrava di annaspare, probabilmente perché i polmoni trafitti dai proiettili si stavano riempiendo di sangue. Ma questo non poteva fermare Scheggia. 

Sentì la voce di Jaceur, di Kate, di Jonas.
Corri Scheggia, corri! 

Li vide al suo fianco esultare con lui, entusiasti e con le mani verso l’alto, come se stesse correndo per vincere l’oro olimpico. 

Fin quando non mise un piede su di una mina antiuomo che gli sbriciolò le gambe e buona parte del busto, lǝi corse, perché era l’unica cosa che era in grado di fare.

 

 
   
 
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