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Autore: Enchalott    21/10/2022    4 recensioni
Questa storia è depositata presso lo Studio Legale che mi tutela. Non consento "libere ispirazioni" e citazioni senza il mio permesso. Buona lettura a tutti! :)
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Dopo una guerra ventennale, i Salki vengono sottomessi dalla stirpe demoniaca dei Khai. Negli accordi di pace figura una clausola non trattabile: la primogenita del re sconfitto dovrà sposare uno dei principi vincitori. La prescelta è tanto terrorizzata da implorare la morte, ma la sorella minore non ne accetta l'ingiusto destino. Pertanto propone un patto insolito a Rhenn, erede al trono del regno nemico, lanciandosi in un azzardo del quale si pentirà troppo tardi.
"Nessuno stava pensando alle persone. Yozora non sapeva nulla di diplomazia o di trattative militari, le immaginava alla stregua di righe colorate e numeri su una pergamena. Era invece sicura che nessuna firma avrebbe arginato i sentimenti e le speranze di chi veniva coinvolto. Ignorarli o frustrarli non avrebbe garantito alcun equilibrio. Yozora voleva bene a sua sorella e non avrebbe consentito a nessuno di farla soffrire."
Genere: Avventura, Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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La trappola
 
Il sole era un’illusione, riluceva orgoglioso nell’azzurro pulito dell’Irravin ma i raggi non riscaldavano la terra. Dalla coltre bianca esalava una nebbia umida che penetrava nelle ossa.
Eskandar aveva sigillato le fessure e ravvivato il fuoco, però nessuna precauzione scongiurava il rigore: le pellicce erano inermi e i brividi gli increspavano l’epidermide con fastidiosa frequenza, obbligandolo a un sonno sussultante.
Appena le energie erano tornate a scorrergli nelle vene, complice il miglioramento meteorologico, aveva esplorato i dintorni e l’umore aveva subìto il processo inverso.
La zona in cui era precipitato era un’angusta vallata, tappezzata dalla foresta che aveva visitato durante le cacce dei giorni precedenti. L’unico accesso era ostruito da una valanga: impossibile arrampicarsi, meno che mai scavare un passaggio. I picchi scabri che ne definivano i confini erano impervi, scalarli equivaleva a un suicidio.
L’unico modo per lasciare questo luogo idillico è volare! O attendere la primavera.
Aveva provato a richiamare Ankŭrsai e gli era parso di distinguere una sagoma alata tra le fronde dei pini. L’assenza di radure impediva il contatto, non era certo che si trattasse di lei, tuttavia aveva impartito l’ordine – forse al vento - di rientrare al campo.
Non voglio che muoia di fame o di freddo, giungerà scossa e ciò costituirà un allarme.
La preoccupazione per la vradak si sommò a quella per Mahati.
Amshula ha mentito, non può essere morto. La indurrò a fidarsi di me, scoverò un punto su cui fare leva e le strapperò la verità.
La donna dormiva all’altro capo del camino, il bianco dell’alba non l’aveva destata. La stanchezza era conseguenza dell’ostinazione: l’aveva seguito nelle ricognizioni per timore che non reggesse o che fuggisse, invece era stata lei a rientrare distrutta.
Eskandar si era mosso come un’ombra in quel territorio sconosciuto, nascondendo le tracce: una ripicca, un gioco per complicarle la giornata, diverso dall’intenzione di mollare l’osso che si era ritrovato a maneggiare per caso.
Nutrirsi di carne con regolarità lo aveva rigenerato, accelerando la guarigione. Le unghie ricrescevano, ma avevano l’aspetto di una fragile pellicola rosata. Finché non fossero tornati artigli degni di un demone, sarebbe ricorso all’arco e alle frecce.
L’ennesima stilettata di freddo stanò una colorita imprecazione. Persino la regina tremava nel sonno, sepolta sotto gli strati di coltri.
Si ostinava a parlargli pur non ottenendo risposta: anzi, da quando aveva rivelato il proprio nome in un impeto d’indignazione, cercava di comunicare con maggiore frequenza.
Io non gradirei la vicinanza di un nemico e certo non la bacerei in segno di gratitudine.
Per un attimo si era chiesto se fosse un rituale minkari, magari volto a dare pace all’anima del marito, visto che era superstiziosa. Non lo avevano istruito su nulla di simile quando aveva studiato gli usi nemici.
 
Amshula aveva staccato le labbra dalle sue, avvampando. Una reazione viscerale, istintiva, non una mossa strategica per sedurlo. Lo aveva compreso dall’espressione esterrefatta e dall’agitazione nella sua essenza.
«Scusami, io non…»
Eskandar l’aveva fulminata con lo sguardo, ripulendosi la bocca con voluto disgusto. Lei aveva abbassato gli occhi in preda alla vergogna e aveva rassettato in silenzio. Era rimasta in disparte per l’intera giornata e la sera aveva allontanato il giaciglio, forse per evitare che il bacio venisse interpretato come invito. Quando il buio li aveva avvolti, si era finalmente decisa.
«Namta meritava mille morti. E di soffrire in ciascuna di esse. Questo mi rende una persona spregevole, vero? O sono vicina al modo di pensare di chi venera Belker?»
Eskandar si era innervosito: nessun Khai auspicava la fine del proprio sposo, adorare il dio della Battaglia non comportava sognare un’ipotetica rivalsa. Significava riscattare da protagonisti l’onore leso, uccidere o morire con dignità.
«I Minkari non si comportano così. Non so quali siano le tue tradizioni, se unire le labbra è un gesto intimo o se non lo praticate. Era solo un grazie, ma non avrei dovuto invadere il tuo spazio.»
Lui l’aveva lasciata sulle spine, ma aveva ascoltato e compreso di averla liberata da un nemico più feroce di quello che i Khai rappresentavano. L’intuito gli aveva suggerito che presto avrebbe scovato il bandolo della matassa. Inoltre, interpretare il sistema di pensiero della donna era un modo per anticiparla e soggiogarla. Checché ne pensasse, sarebbe stata lei quella alla sua mercé.
 
La udì tossire e rigirarsi. Sogghignò nel considerare che si fosse data tanta pena di preservarlo per ottenere un risultato antitetico. Se l’era cercata e la sua debolezza non era un problema che lo sfiorava.
Si ubriacherà di corteccia, che l’Arco la colga!
Smise di divertirsi il giorno dopo. Amshula non aveva le forze per alzarsi e dal suo corpo scaturiva una temperatura fuori dal normale. Intese il motivo per cui si ostinasse a voler abbassare la sua: il fisico minkari funzionava all’opposto, la febbre la stava prosciugando senza appello. Temette il peggio dopo che smise di mangiare e si decise a intervenire quando la udì delirare.
Non posso lasciarla crepare o l’antidoto la seguirà nell’oltretomba!
Lasciò il rifugio sotto la fitta nevicata e cercò il salix dal quale asportava la scorza per il suo disgustoso decotto. Lo riconobbe dalla traccia del suo odore e dalle incisioni sul tronco. Staccò quanto gli serviva ed ebbe il suo da fare per ritrovare la strada. Nonostante la visione notturna, la neve lo disorientava e l’olfatto era ostacolato dall’accumulo veloce dei fiocchi bianchi.
Dèi, quanto detesto questo posto!
Quando si chiuse la porta alle spalle, la trovò sul pavimento priva di sensi.
«Non chiedere aiuto era voluto, eh Minkari? Dunque persino esseri patetici come te possiedono una scintilla d’orgoglio.» (1)
La raccolse con scarsa cura e la depositò tra le pellicce: era debilitata, respirava a fatica, la pelle bruciava ma le membra tremavano di freddo.
Un’altra contraddizione.
Bollì l’acqua e aggiunse la corteccia. A prescindere dal rifiuto erto contro le pressanti premure, aveva memorizzato la preparazione e calcolato i tempi d’infusione grazie all’abitudine di non trascurare mai i dettagli. Le somministrò il medicinale a brevi intervalli, ottenendo un miglioramento di scarsa entità.
Stabilì di servirsi del metodo khai: mangiare carne non avrebbe compromesso le sue condizioni e avrebbe giovato al fisico che non reagiva.
Fu più dura del previsto. Amshula si limitò a bere il farmaco con la fretta di chi è disidratato e rifiutò il cibo solido.
«Mai vista una femmina tanto caparbia!» (1)
La nutrì con le cattive, infilandole il cervo tritato in bocca e impedendole di sputarlo finché non si ritenne soddisfatto della porzione assunta.
«Se lo rigetti, ne avrai altrettanto!» (1)
L’aggressivo tira e molla si protrasse per tre giorni: la regina riacquistò parte delle forze, ma il freddo eccessivo rallentò la ripresa. La febbre e la tosse continuarono a tormentarla soprattutto durante la notte. Eskandar optò per un intervento ancora più drastico.
«Il mio sangue è più caldo del tuo. Preferirei evitare di spartire il materasso, ma così non riesco a dormire.» (1)
Si liberò delle pelli di lupo e, dopo aver adattato il giaciglio, si infilò nudo tra le coltri. Lei trasalì per l’improvvisa contiguità. Provò a respingerlo, ma il reikan eluse la fiacca resistenza, la costrinse su un fianco e si approssimò. Slacciò le chiusure e le denudò la schiena.
Il petto rovente contro la pelle le fornì una scossa: Amshula s’inarcò di riflesso, trattenendo il fiato, ma lui la imprigionò in una morsa ineludibile.
«Anase
Amshula s’immobilizzò come avesse compreso l’ordine. Restò sul chi vive, però il demone si distese tranquillo dietro di lei: il calore del suo corpo filtrò attraverso il limitato accostamento epidermico. Comprese le sue intenzioni e si rilassò, lasciando che la temperatura delle sue membra la riscaldasse.
«Allora non sei ammalato e non vuoi farmi del male. Ti ho frainteso, scusami.»
«Se ti levassi quegli stracci, staresti anche meglio. (1)»
«Io… non ti offendere, Eskandar, ma ho davvero freddo.»
La regina sfilò l’abito con un certo impaccio e si lasciò cingere dalle braccia rudi. La situazione era paradossale: aveva salvato un nemico e ora quello stava ricambiando il favore. Era certa che non vantasse un fine altruistico, come d’altronde lei nei suoi riguardi, ma di fatto avvertiva un fondo di cortesia. Un efferato assassino la stava trattando meglio di Namta e non la forzava a concedersi, il respiro tiepido sul collo era addirittura piacevole. Il pensiero le assestò una stilettata allo stomaco. Si irrigidì, colta da un flusso di panico.
Il reikan lo avvertì all’istante. Sogghignò nel buio che, per gli occhi di un demone, non aveva segreti.
«Ssh» le mormorò all’orecchio «Lasciami dormire.» (1)
La pelle della donna s’increspò quando le sue labbra la sfiorarono.
«N-non fare così, non sono abituata.»
Eskandar inarcò un sopracciglio. Era un avversario, eppure non era così diverso dai maschi minkari. Lo aveva toccato, lavato, visto senza nulla addosso. Era stata sposata, non aveva partorito per intervento divino bensì per il seme di un uomo.
Che significa che non è abituata?
Rammentò i segni sul suo dorso. Passò un dito sulle strisce chiare che spiccavano sulla carnagione olivastra.
«Fuchi» sussurrò fra sé.
Amshula tentò di sottrarsi all’esame, in preda alla vergogna.
«Smettila!» singhiozzò prendendosi il viso tra le mani.
«Davvero?» sibilò il reikan «Le mie sono identiche, me le hanno fatte i tuoi scagnozzi se ben ricordi. Mi hai tastato senza problemi e ora usi un altro metro?» (1)
«Non capisco cosa dici, ma ti supplico… non lì! Mi fai male!»
Il reikan pensò che fossero troppo vecchie per darle fastidio. Non fece in tempo a scostare le mani che lei le prese tra le sue e se le appoggiò sui seni.
Per l’Arco di…!
«Perfino tu, demone? Sei un maschio, immagino cosa ti piaccia sebbene tu provenga da un altro mondo. Non ti resisterò, non ti guarderò, ti obbedirò se comprenderò i tuoi desideri, ma t’imploro, lascia stare quei segni. Mi fanno sentire sporca.»
Eskandar scostò le dita dal suo petto e la voltò senza sforzo, ponendosi faccia a faccia con lei, il volto corrucciato.
Sul serio? Così diretto è meno imbarazzante per te?
La sentì ansimare per la tensione. Chiuse gli occhi, adirato per il fatto che lo considerasse un animale infoiato, privo di cervello e buongusto. Se avesse mirato all’amplesso, lo avrebbe raggiunto senza cerimonie e si sarebbero scaldati a dovere. Probabilmente avrebbero dormito a lungo, dopo il piacere.
Dovrei infilarmi dentro di te e farti rimangiare le tue stupide convinzioni! Che ne sai dei miei gusti?
Avvertiva sui palmi la sensazione delle sue curve, come se avessero lasciato un’impronta. Era minuta, meno formosa di una Khai, gli sembrava di stringere una ragazzina congelata. Eppure il sangue aveva accelerato e l’astinenza prolungata, una volta sconfitta la debilitazione, pesava più del previsto. L’ultima volta era avvenuta prima della cattura e con la serva procace che lo aveva agganciato non si era sprecato.
«Mi dispiace» esalò Amshula «Ho pensato di dovermi proteggere nell’unico modo che conosco, invece ti ho offeso. È destino non comprenderci. Le cicatrici me le ha lasciate Namta, non mi reputava abbastanza compiacente. Talora era ubriaco, altre volte… non le mostro mai, nemmeno alle mie cameriere.»
Il guerriero la ascoltò esterrefatto, ma un altro pezzo del mosaico trovò collocazione.
Ecco perché lo detesti tanto.
Lei sollevò il viso, scorgendo nella penombra la sua espressione interdetta.
«Non mi capisci o non mi credi? Negli incubi lo rivedo mentre mi ordina di spogliarmi, mentre mi lega i polsi, si sfila la cinghia e pregusta il momento in cui si sfogherà, quando il mio dolore scatenerà gli istinti. Così dal giorno in cui ha posto gli occhi su di me, quando mi ha stuprata nelle segrete del castello.»
 
Non era mai stata alla capitale e l’emozione di assistere al fidanzamento della cugina aveva pareggiato quella della prima visita a palazzo. Ci sarebbe stato un ballo, avrebbe partecipato al banchetto, retto lo strascico del meraviglioso abito di Nadissa e forse un affascinante ufficiale in uniforme le avrebbe domandato una danza.
Amshula aveva sognato la fiaba, percorrendo la guida rossa che l’avrebbe condotta al salone più fastoso della reggia. Aveva sollevato l’orlo del vestito rosa e si era guardata intorno, abbagliata e intimidita dall’opulenza degli ambienti. Si era ricordata delle raccomandazioni della madre, che le camminava accanto compita: mostrare eccessiva curiosità era inappropriato, una fanciulla di rango era abituata al lusso, stupirsi equivaleva ad ammettere il contrario.
La residenza di suo padre era splendida, tuttavia non sortiva lo stesso effetto e non le dava il medesimo batticuore. Era stato uno sforzo mantenere il contegno.
Namta era rimasto vedovo sei mesi prima e la defunta moglie, a causa della salute cagionevole, non gli aveva dato eredi. Aveva scelto una sposa ventenne nonostante avesse superato la quarantina, sfruttando il fascino della corona più di quello concesso dalla natura.
Amshula lo aveva immaginato alto e forte come suo padre, invece era rimasta delusa: il sovrano era poco attraente, gli occhi azzurri avevano una sfumatura fredda e sbiadita, i capelli biondi erano radi, la carnagione spenta. L’abito prezioso non mascherava il fisico appesantito, tuttavia era robusto, le mani apparivano salde e aveva l’atteggiamento volitivo di chi è abituato a comandare.
Nadissa si era inchinata in preda all’emozione, lui le aveva riservato un caldo baciamano, facendola accomodare e sussurrandole graziosi complimenti, come a dimostrare che la prima impressione era stata superficiale.
Si era voltato a guardarla, mentre era impegnata a sistemare le pieghe del mantello della cugina, e l’occhiata indiscreta l’aveva fatta arrossire. Aveva esibito la migliore riverenza e si era ritirata, nascosta anzi, dietro le gonne della madre.
Il fidanzamento sarebbe stato ufficializzato dopo il convivio con lo scambio dei doni nuziali e la promessa, la cerimonia sarebbe avvenuta il mese successivo.
Amshula era certa che la cugina non avrebbe avuto difficoltà, era bellissima e non possedeva un solo difetto: il re se ne sarebbe subito innamorato.
 
«Ero così ingenua, lontana dall’immaginare. Pensavo che gli sguardi di Namta fossero un tentativo di mettermi a mio agio, invece…»
Le iridi di Eskandar sfavillavano attente: gli aveva anticipato il finale, ma il percorso che l’aveva portata a subire violenza appariva ancora più ripugnante.
 
A furia di tenere il viso abbassato e di tormentarsi le dita, nessuno l’aveva invitata alle danze. Amshula si era sentita esclusa ma non aveva biasimato i ragazzi di Minkar, ai quali doveva apparire una bambina spaurita.
«Mi concedete questo ballo, mia signora?»
La voce roca del re l’aveva sottratta all’auto biasimo. Aveva schiuso le labbra ma non ne era uscito alcun suono, aveva gettato uno sguardo impanicato alla madre, che le aveva rivolto un cenno d’approvazione. Con estremo imbarazzo aveva porto la mano al sovrano dell’Irravin, che l’aveva presa nella sua: la stretta era tenace, il tocco sulla sua vita sicuro e prepotente.
«Il vostro nome, incantevole fanciulla?»
«Amshula, maestà. Sono cugina della principessa Nadissa.»
«La bellezza è un dono di famiglia, dunque. Quanti anni avete?»
«Quindici, mio signore.»
«Se mio figlio fosse venuto al mondo, sarebbe vostro coetaneo. Magari vi avrebbe invitata al posto mio e sareste stata lieta di danzare con lui, non con un vecchio.»
«Oh, è un onore immeritato! Porgo le mie condoglianze per il doloroso lutto che vi ha colpito, certa che le seconde nozze restituiranno gioia alla vostra casa.»
«Siete molto sensibile.»
Il ballo si era prolungato e il dialogo era continuato senza che il re cambiasse dama. Amshula si era chiesta se fosse appropriato, ma non aveva osato interromperlo.
«Non conosco vostra cugina» aveva ammesso Namta «I matrimoni combinati sono impersonali e creano imbarazzo non voluto. Desidero evitare gli errori commessi con la mia prima moglie per inesperienza, vorrei conquistare il cuore della principessa Nadissa. Vi scongiuro, datemi un consiglio!»
La richiesta l’aveva sorpresa e fatta sentire importante: era la prima volta che qualcuno considerava il suo punto di vista e si era elettrizzata alla prospettiva di collaborare al successo coniugale. Aveva raccontato ciò che sapeva, tessendo le sincere lodi della cugina.
«Sono un uomo fortunato, stando alle vostre opinioni. Una sposa tanto virtuosa merita un dono diverso da quelli ufficiali. Pensate che Nadissa apprezzerebbe, se trovasse vino e pasticcini al risveglio della prima notte?»
«Qualunque donna amerebbe tale premura!»
«Non conosco i suoi gusti, vi disturberebbe mettermene a parte?»
«Tutt’altro, maestà!»
Namta l’aveva invitata a seguirlo e si era allontanato con lei dal salone, scortato da quattro ufficiali della guardia. Aveva imboccato un passaggio secondario e si era inoltrato fino a una sorta di cantina.
Amshula si era sentita in soggezione e si era pentita dell’assenso precipitoso, tanto più che non aveva avvisato i genitori: ma la presenza dei soldati e la cordialità del re l’avevano tranquillizzata.
Lui le aveva versato il vino, riempiendo il fondo di un calice.
«Che ne pensate? Troppo speziato?»
«Forse sì.»
«Provate questo, allora. Apparirà dolce al palato delicato di Nadissa?»
«Oh… preferisco il secondo in effetti.»
Dopo il terzo assaggio, la testa aveva preso a girarle come una trottola. Eppure non aveva bevuto che un sorso a bicchiere.
«Non vi sentite bene?» si era interessato Namta.
Lei aveva provato a rispondere, ma dalle labbra erano usciti suoni impastati e la visuale si era offuscata. Nell’ottundimento il sorriso cortese del re si era trasformato in un sogghigno malevolo e i soldati in mostri spaventosi. Poi il buio.
 
«Quando mi sono ripresa, ero stesa a terra completamente nuda. Lui aveva la testa tra le mie gambe e la lingua frugava il punto più privato di me. Ho provato a ribellarmi, il mio corpo non ha risposto. Non ero legata, quel bastardo non ne ha avuto bisogno: sapeva che non sarei riuscita a fuggire, che le mie urla sarebbero state mute, che nessuno sarebbe accorso. Una droga efficace contro una ragazzina sprovveduta, un’esca ghiotta per una preda inconsapevole. Si è divertito a piacimento, è entrato dentro di me senza riguardo. Ricordo un dolore lancinante, le lacrime che mi soffocavano, i suoi gemiti rauchi e il tempo diventare infinito. Ho pregato di morire, ma gli Immortali non mi hanno esaudita. Né quel giorno né tutti gli altri a me destinati. Poi sei arrivato tu e, senza saperlo, mi hai salvata.»
Eskandar rimase a fissarla, lo sguardo ribollente di sdegno. I Khai erano guerrieri feroci, uccidevano in nome di Belker, creavano shitai e catturavano dorei, ma nessuno di loro avrebbe commesso un atto tanto abominevole. C’era sempre una scelta, una possibilità ed essa non riguardava i bambini.
«Avresti dovuto ammazzarlo come un cane» sibilò.
  1. Eskandar parla ad alta voce ma nella sua lingua.
   
 
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