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Autore: softandlonely    08/11/2022    2 recensioni
La stanza di Chrissy nell’appartamento di Bedford Avenue è molto più piccola rispetto a quella di Hawkins ma altrettanto vuota. Il letto, una scrivania, uno specchio, l’armadio. Nessun quadro alle pareti verde pallido, leggermente scrostate.
E lei, rannicchiata tra le lenzuola, una maglia nera troppo grande, la lettera stretta contro il petto.
Ha dovuto rileggerla tre volte per rendersi conto che è tutto vero.
Sarebbe tutto perfetto se non fosse che…
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Chrissy Cunningham, Eddie Munson
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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New York
Ottobre 1987
 
Le sedute da Ms. Jones iniziano sempre con una sosta più o meno lunga nella sala d’attesa dai soffitti alti, con le imponenti finestre che danno sul grande giardino dell’istituto. Chrissy lascia vagare lo sguardo oltre i vetri, sullo strato di foglie secche che si è depositato sull’erba e sui vialetti là fuori. Aspetta, spesso da sola, altre volte condividendo il silenzio con qualcuno che si siede sulla poltrona in pelle un po’ consumata al lato opposto della stanza.
Quasi sempre ragazze come lei, o addirittura più giovani, da sole, o accompagnate da quelli che ha ipotizzato essere i genitori. Con loro non c’è mai stato nulla oltre l’accenno di un saluto e uno scambio di occhiate imbarazzate, piene di domande scontate e risposte altrettanto ovvie.
Quando la dottoressa la chiama nel suo studio si accomoda nel suo solito modo, con le mani infilate nelle tasche dei jeans e le spalle che sembrano perdersi nel suo spesso maglione di lana bianco.
Le serve sempre un po’ di tempo per sciogliersi e iniziare a parlare a ruota libera.
Ms. Jones interviene poco, le fa qualche domanda per dare una direzione ai suoi discorsi. Sulla scuola, il lavoro, la sua vita. Il suo rapporto con il cibo e i motivi che lo hanno reso un problema hanno finito per diventare argomenti secondari, rimasti sullo sfondo delle loro conversazioni.
È successo per gradi, uno strato alla volta, una lacrima per volta, una crepa alla volta nella sua armatura di autocontrollo.
Fino a che è riuscita ad accettare che certe difficoltà faranno sempre parte di lei, nascoste tra le pieghe della sua esistenza, come un pensiero collaterale che non si silenzierà mai del tutto. Solo, sono diventate più facili da tenere a bada. Un qualcosa con cui si è messa in contatto, che ha imparato ad ascoltare, a consolare, a comprendere.
 
“Ho dato il primo esame. Non… un esame-esame. Era una valutazione intermedia, in realtà.” racconta, nascondendo le mani nelle maniche troppo lunghe.
 
La dottoressa annota qualcosa sul foglio che le sta davanti e le rivolge un’occhiata incoraggiante.
 
“E com’è andata?”
 
“Bene, davvero bene.” sorride lei.
 
Ms. Jones appoggia la penna. Toglie gli occhiali, incrocia le braccia sulla scrivania come fa sempre quando sta per dirle qualcosa che farà bene a tenere a mente.
 
“Sono molto contenta Chrissy. Insomma, dopo quello che hai attraversato te la stai cavando alla grande. Hai fatto tanta strada dalla prima volta che ti ho vista. Credo che ora tu possa camminare da sola.”
 
Quelle parole arrivano in modo del tutto inaspettato, accompagnate da un sorriso materno che la lascia spiazzata.
Anche se in fondo sa anche lei che è arrivato il momento. Sa di potercela fare.
 
“A meno che non ci sia qualcos’altro di cui senti il bisogno di parlarmi.”
 
“No, nient’altro.” si affretta a rispondere lei, scuotendo la testa come a scacciare un pensiero. “Però devo pagare le ultime sedute…”
 
“Non c’è fretta, lo sai. Le amiche della dottoressa Kelly sono anche mie amiche.”
 
Quando Chrissy esce un caldo raggio di sole autunnale illumina la strada e gli alberi ingialliti.
Percorre a due e a due gli scalini e si infila in un vagone della linea verde, che porta dall’East Village a Brooklyn. La metropolitana è uno dei luoghi più trascurati e decadenti di New York. Ma è anche piena di vita e storie che si diverte a tentare di immaginare.
Una mamma che tiene un bimbo piccolo fasciato sulla schiena, un anziano con il suo bastone, colletti bianchi e camerieri con la divisa ripiegata in un sacchetto. Volti di tutti i colori si mischiano davanti a suoi occhi, vite agli antipodi che si intrecciano solo per qualche manciata di minuti prima di separarsi nuovamente, ognuna a rincorrere il proprio destino.
E poi c’è sempre qualcuno che si esibisce in uno spettacolo improvvisato per portarsi a casa un paio di dollari.
A Franklin Avenue sale un ragazzo con i capelli lunghi e una chitarra. Inizia a suonare una canzone di cui Chrissy riconosce vagamente la melodia, l’ombra di un ricordo che le attraversa la mente. Così fruga nelle tasche, lascia cadere un po’ di spicci nel bicchiere che ha appoggiato per terra.
 
È a quel punto che inizia il tratto sopraelevato, la parte che preferisce del tragitto verso casa. Il treno sbuca dal suolo, la luce arancione invade il vagone costringendola a ripararsi gli occhi con la mano. Appena li riapre può scorgere lo skyline in lontananza, mentre le strade del quartiere scorrono sotto di lei.
Ancora più lontano c’è il luna park deserto, il lungomare dove ancora non ha mai messo piede, nonostante abiti lì vicino da oltre un anno. A ogni fermata la metro si svuota un po’ di più, quando tocca a lei scendere non c’è quasi più nessuno.
Chrissy si stringe nella giacca e sorride, camminando a passo svelto verso il ristorante.
 
 
Hawkins
Agosto 1986
 
Casa Harrington per certi versi assomigliava alla sua. Ordinata in modo maniacale, elegante, vuota.
Seduta a bordo piscina nel suo leggero vestito bianco, Chrissy, in compagnia di Nancy, osservava i ragazzini cuocere marshmallow attorno al falò e riempire il silenzio con le loro risate. Per qualche motivo sembravano essere molto più grandi della loro età. Era un gruppo davvero bizzarro, si era ritrovata a pensare, ma per qualche motivo ben affiatato.
La serata era trascorsa piacevole e tranquilla, tra chiacchiere e qualche inevitabile discorso sul futuro.
 
“È bello che abbiate organizzato questa cosa prima della partenza di Eddie.”
 
“E della tua.” aveva sottolineato Nancy, rivolgendole un sorriso affettuoso.
 
Chrissy aveva fatto scivolare le dita nell’acqua, osservando i riflessi azzurri e le ombre proiettate dalle luci dei faretti e si era lasciata cullare da quella nuova sensazione. Era semplice andare d’accordo con Nance, con tutti loro.
Nessuno l’aveva mai giudicata per la sua “versione precedente” nonostante non dovesse risultare particolarmente simpatica.
 
“Sai, non credevo che lui fosse… beh. Così.” aveva detto, accennando a Steve, che stava parlando con Eddie poco più in là. Era strano vederli scherzare, ma in fondo la cosa non avrebbe dovuto stupirla più di tanto.
 
“L’apparenza inganna. Tu dovresti saperlo bene.” 
 
Dallo stereo uscivano le note di un disco degli XTC che non sopportava. Eddie sembrava quasi essersene accorto. Si era distratto dal discorso che stava facendo e, intercettando il suo sguardo, le aveva mimato un “tutto bene” al quale lei aveva risposto annuendo.
 
“Dì un po’ è sempre così apprensivo?” le aveva bisbigliato Nancy, alzando gli occhi al cielo.
 
Chrissy le aveva risposto con un’alzata di spalle. Stava diventando fin troppo facile abituarsi al fatto che lui si prendesse cura di lei. Quando la ragazza si era allontanata per andare a prendere qualcosa da bere, lui l’aveva raggiunta e si era seduto lì accanto.
 
“Ehi Cunningham. Stavo quasi iniziando a sentire la tua mancanza.”
 
“Non ci credo.”
 
“È vero. Sei stata qui con Nance tutta la sera. Cosa stavate confabulando?”
 
“Stavo cercando di capire cos’avete in comune tu e Steve.”
 
“Semplice. Dustin.” aveva risposto lui, accennando al ragazzino tutto riccioli e apparecchio ai denti, la pecorella più preziosa del suo piccolo gregge.
 
“È solo che sembrate così diversi. Steve mi ha sempre dato l’idea di essere... beh, lo sai no? Atletico, sfacciato, popolare…”
 
“Tutto il contrario di me. Puoi dirlo, non mi offendo, il tuo stupore è comprensibile. E guarda quei capelli.” le aveva risposto, mentre si accendeva l’ennesima sigaretta proteggendo la fiamma con una mano. Stava fissando intensamente il fondo della piscina, come se per qualche inspiegabile ragione quel discorso lo stesse mettendo in imbarazzo.
 
“Eddie, onestamente non credo che i capelli siano un tuo problema.” aveva scherzato lei, infilando una mano tra i suoi riccioli scuri. Lui l’aveva guardata per qualche secondo negli occhi, senza dire una parola. In quel momento avrebbe voluto poter leggere i suoi pensieri.
 
“Sai, a volte me lo chiedo. Perché tra tutti, hai scelto proprio me.”
 
Chrissy aveva piegato la testa di lato, come per studiarlo. Da dove saltava fuori tutta quella insicurezza? Così si era avvicinata ancora, abbastanza da incrociare le braccia dietro al suo collo, cercando i suoi occhi che sembravano fare di tutto per sfuggirle.
 
“Beh, facile. Perché cucini bene.”
 
“Non posso darti torto.”
 
Eddie non era riuscito a trattenere un mezzo sorriso che somigliava più a una smorfia. Percorreva la stretta spallina del suo vestito tra pollice e indice e lei si era ritrovata a inseguire il suo movimento con lo sguardo, anche quando, incontrando il grande fiocco sulla sua spalla, aveva aggrottato le sopracciglia perplesso.
 
“Detto da me non sembra un gran complimento vero?” aveva aggiunto lei, in un sospiro.
 
“No. Ma apprezzo la tua autoironia Cunningham, dico sul serio.”
 
Le aveva spostato una ciocca di capelli dal viso. Chrissy non aveva mai desiderato niente per sé stessa, eppure lui era la sola cosa che aveva fatto di tutto per avere. A tal punto da cambiare per sempre, stravolgere la sua vita.
 
“E comunque Eddie, Steve non è il mio tipo.”
 
“No?”
 
“No.”
 
“Lo immaginavo. Hai pessimi gusti in fatto di uomini. Guarda Carver per esempio…”
 
E poi l’aveva guardata dall’alto al basso con quegli occhi resi ancora più scuri dal buio. La sua bocca si era piegata in quello stupido sorriso. Chrissy poteva sentirlo sogghignare dietro il suo orecchio, sempre più giù. E aveva finito per sorridere anche lei.
 
 
New York
Ottobre 1987
 
“Dovresti dargli una possibilità lo sai?”
 
Chrissy e Diana si abbassano all’unisono per sbirciare oltre la finestrella del pass che separa la cucina dalla sala.
Il “tipo del cane”, così lo hanno soprannominato senza troppa immaginazione, è lì anche oggi. Come ogni fine settimana da qualche tempo a questa parte se ne sta seduto al tavolo con un caffè davanti e il New York Times tra le mani. Il suo povero amico a quattro zampe sarà come al solito in attesa, accucciato fuori dalla porta del ristorante.
 
Chrissy rivolge alla sua amica uno sguardo innocente, per poi continuare a riempire le bottigliette di ketchup appoggiate sul vassoio davanti a lei. “Guarda che gliel’ho data la possibilità.”
 
“Di cosa stai parlando scusa? Di quella volta che gli hai servito il caffè, lui ha attaccato bottone e tu l’hai piantato in asso dopo… quanto? Cinque minuti?”
 
“Esatto.”
 
“Non è quello che intendevo. E comunque, che impressione ti ha fatto?”
 
“Non è male.”
 
“Dio, quanto entusiasmo. E?”
 
“E basta. Non mi ricordo neanche il suo nome.” ammette lei. “Ah, il cane invece si chiama Duggie.”
Diana alza gli occhi al cielo frustrata, si porta una mano alla fronte coperta dalla frangetta scura. Non prova neanche a nasconderlo: la reputa un caso disperato, ma non è certo una che si arrende facilmente.
 
“Hai visto?” le dice, indicando la finestrella incorniciata da mattonelle bianche. “Ha la felpa della Columbia. Il che significa che è anche ricco, oltre che bello.”
 
“Mi dispiace deluderti ma non è il mio tipo.”
 
“Come sarebbe a dire? A parte il fatto che non ho ancora capito quale sia il tuo tipo, non è che te lo devi sposare.”
 
Per tutta risposta, Chrissy le rivolge una smorfia scettica e continua il suo lavoro senza aggiungere altro. Diana sbuffa, delusa.
 
“Non mi sembra tu stia apprezzando il mio tentativo di dare una scossa alla tua vita. Non ti rendi proprio conto di quanto hai bisogno di me, eh?”
 
“In effetti… no.”
 
“A proposito, non è che potresti farmi un favore?”
 
Chrissy appoggia il barattolo del ketchup sul tavolo d’acciaio, piega la testa di lato. “Ci avrei scommesso. Mi pare che il bisogno sia reciproco.”
 
A quel punto Diana si è già pulita le mani sul grembiule e lo sta slacciando, pronta a sgattaiolare fuori dalla porta del retro prima che i suoi genitori possano accorgersene e rimproverarla. “Mi farò perdonare. Farò i piatti per una settimana.”
 
“Facciamo due.”
 
“Aggiudicato. Ti adoro.”
 
Quando la sua amica esce tutta sorridente dalla cucina, Chrissy si concede un’ultima occhiata verso la sala.
Il tipo del cane si guarda intorno come se avesse perso qualcosa, o qualcuno.
Dopotutto la sua coinquilina non ha proprio tutti i torti.
Potrebbe semplicemente uscire, sedersi accanto a lui con la scusa di versargli altro caffè.
Potrebbero parlare di Duggie, o del tempo, giusto per rompere il ghiaccio.
Potrebbe chiedergli di nuovo come si chiama e sforzarsi di ricordarlo, stavolta.
La radio sta passando l’ultima canzone dei The Cure. Chrissy si lascia avvolgere da quella dolce malinconia e si accorge che anche le zuccheriere hanno un gran bisogno di essere riempite.
Le chiacchiere invece possono aspettare ancora. Magari la prossima volta.
 
Sta per riempire l’ultima quando si sente chiamare dalla madre di Diana dall’altra stanza.
La vede affacciarsi alla porta, mentre con una mano copre la cornetta, il lungo filo teso che scompare dietro l’anta di legno. “È per te.” bisbiglia, con l’aria un po’ perplessa. È piuttosto insolito, in effetti, che qualcuno la chiami al lavoro. È piuttosto insolito che qualcuno la chiami e basta.
 
“Chi è?”
 
“Un certo Justin. Non ho capito bene…”
 
Chrissy si sforza di fare mente locale. Non le sembra di conoscere nessuno che con quel nome.
Forse un compagno di corso? E anche se fosse, perché dovrebbe cercarla al ristorante? È ancora sovrappensiero quando esce dalla cucina, afferra il telefono e si accorge che il tipo del cane la sta salutando con un cenno della mano e un sorriso a trentadue denti, a cui risponde con fare distratto.
 
“Pronto?”
 
“Chrissy! Ehi. Come va?”
 
Il suo cuore perde un battito, la sua mente corre veloce. La voce dall’altra parte è inconfondibile. “Dustin? Sei proprio tu? Ma… come hai fatto a…”
 
“Andiamo, dovresti conoscermi. Cosa vuoi che sia per uno come me recuperare un numero di telefono!” risponde lui, anticipandola come sempre.
 
“Oh… sì certo. In effetti hai ragione.”
 
“Comunque, l’ho chiesto a tuo fratello.”
 
“Dave. Giusto, come ho fatto a non pensarci. Hai fatto bene. Sono felice di risentirti.”
 
Il ragazzino resta in silenzio, così come lei.
Un silenzio che accompagna quel senso di ansia che sente crescere e risalirle alla gola, mentre appoggia le spalle al muro e si guarda intorno, come se temesse che qualcuno possa sentire quello che nemmeno lei ha il coraggio di chiedere.
 
“Va tutto bene Dustin? Stai bene? State tutti bene?”
 
“Sì, sì, diciamo di sì.”
 
Non sa perché ma ha l’impressione che ci sia qualchedi troppo in quella risposta. Chrissy stringe gli occhi.
Dentro di lei sente mescolarsi sollievo e qualcos’altro, sepolto da troppo tempo nella parte più nascosta dei suoi pensieri e nei suoi ricordi, ma ancora abbastanza vivo da farle male.
 
“Allora dimmi. A cosa devo l’onore di questa chiamata?”
 
Dustin si schiarisce la voce e lei riesce a vederlo, proprio come se lo avesse lì davanti.
Dev’essere cresciuto parecchio, ma non abbastanza da aver abbandonato il suo onnipresente cappello e quelle camicie dall’aspetto improbabile.
 
“Chrissy, è successa una cosa che credo vorresti sapere. Credo che dovresti… dovresti tornare a Hawkins.”
 
 
 
*****
Nota autrice: un grande grazie a chi arriva a leggere fino a qui. Mi rendo conto che non sia proprio semplicissimo e forse un po’ noioso viste le mie divagazioni e la distanza che tutto questo prende dalla serie. Dunque, grazie di cuore per la pazienza. A presto!
   
 
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