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Autore: Orso Scrive    19/11/2022    2 recensioni
Quando due anime vibrano di un amore vero e intenso, che arde nel profondo, è destino che si ritrovino sempre, oltre la vita, oltre la morte...
Genere: Mistero, Romantico, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, FemSlash
Note: Lime | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'A&A - STRANE INDAGINI'
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2.

 

 

Ottobre 2011

 

 

«Un libro sui fantasmi?» domandò il bibliotecario, un omone grande e grosso, ma con uno sguardo antipatico che stonava con il suo aspetto. Squadrò la ragazzina. «I vostri professori, in quella scuola, non hanno nulla di meglio, da farvi leggere?»

Scosse il capo lanuto, in segno di esasperata disapprovazione.

Valeria, in piedi davanti al bancone della biblioteca comunale, si sentì diventare ancora più piccola di quanto già non fosse. Tuttavia, cercò di vincere il turbamento che l’aveva colta e di rivolgere all’uomo un sorriso, quasi in segno di scusa.

«Devo fare una ricerca, ma non sui fantasmi fantasmi», precisò. «Sui fantasmi visti dal punto di vista clinico… studiati dagli psicologici, queste cose così. È per scienze sociali. Io frequento il Liceo delle Scienze Sociali…»

L’omaccione la scrutò per un istante di troppo, come se stesse cercando di dare un senso ai suoi capelli tinti di uno sgargiante blu elettrico, alla sua cuffietta di lana arancione e alla sua felpa sformata verde e grigia, che sembrava potesse contenerle almeno tre, di lei.

Si alzò.

«Settore parapsicologia», grugnì, schifato. «Vieni con me.»

La condusse attraverso vari reparti, passando tra gli scaffali pieni di libri. Le sue falcate erano tanto lunghe che la ragazzina doveva quasi mettersi a correre, per riuscire a stargli dietro. Ovunque regnava il silenzio sacrale, quasi cimiteriale, che permea sempre le biblioteche. Anche se fuori la giornata era uggiosa e grigia, Valeria non vedeva l’ora di uscire da quel posto. Le sembrava di avere messo piede in un antro oscuro… un antro di cui quel bibliotecario simile a un orco era l’unico abitante. O, meglio, non l’unico. Di quando in quando, tra uno scaffale e l’altro si imbattevano in un tavolo dove sedeva qualche studente universitario chino sui libri e sui fogli d’appunti. Personaggi amorfi, ingobbiti e dall’aspetto cadaverico, per i quali non esisteva nulla all’infuori delle parole che leggevano, delle nozioni che apprendevano e degli esami che si apprestavano a dare. La luce al neon che emanava dalle lampade appese al soffitto aumentava il loro aspetto di zombie. A vederli, a Valeria passò tutta la voglia che, fino a quel giorno, aveva avuto di iscriversi all’Università, una volta terminate le scuole superiori.

Infine, si fermarono in un’area ancora più tetra e scura della biblioteca. A giudicare dalla polvere sugli scaffali, non doveva essere molto frequentata.

«Qua c’è la roba di esoterismo, paranormale e parapsicologia», grufolò il bibliotecario, con l’aria di stare avendo una molesta indigestione. Sembrava quasi che prendesse come un insulto personale il fatto che qualcuno avrebbe potuto leggere – per non parlare di chi aveva perso tempo prezioso a scriverli – roba del genere. «Di preciso, che titolo ti serve?»

Valeria si strinse nelle spalle.

«Mah, non so», disse, con una vocina piccola piccola. «Il professore ha detto di leggere uno studio sulla parapsicologia per capire come funziona, non ha specificato quale.»

«Certo, perché anche lui si vergogna ad assegnare roba del genere», sbottò il bibliotecario. Lanciò uno sguardo agli scaffali, bofonchiando le sgradevoli parole: «A certa gente dovrebbero togliere la laurea, altro che permettergli di insegnare.» Alzò la voce. «Toh, prendi questo.»

Infilò la mano nella scansia più vicina e ne fece uscire un libro. Lo scelse completamente a caso e lo buttò senza nessun riguardo tra le manine protese di Valeria. Un libro abbastanza vecchiotto, un’edizione economica dalla copertina bianca, con i lati sgualciti e i bordi ingialliti. La ragazza lanciò solo un breve sguardo alla copertina che il tempo aveva patinato – oltre a una banda nera verticale che ne attraversava sulla sinistra una grigia orizzontale, che era stato il massimo che qualche copertinista svogliato fosse riuscito a concepire, vi era scritto “In morte di Edith Mayer – Studi, analisi e osservazioni di un fenomeno parapsichiatrico, di J. Bernasconi” – e poi tornò a sollevare il naso verso la figura sgraziata del bibliotecario.

«Hai un mese per leggerlo e restituirlo», grufolò quello, «anche se, se te lo tieni, mi fai soltanto un favore.»

Valeria pigolò in contemporanea un saluto e un ringraziamento e poi sgusciò via in fretta, senza fermarsi nemmeno per sfilare dalle spalle lo zaino nero e infilarvi dentro il libro.

 

* * *

 

Sull’autobus di linea, mentre tornava a casa, la cartella contro le gambe e le cuffiette del lettore mp3 nelle orecchie – «Ti voglio tanto bene, e ci sarò per te, se sentirai nel cuore, un amore che non c’è», stava cantando la Gianna – Valeria tirò fuori il libro e cominciò a sfogliarlo. Diede un’occhiata all’indice e poi, girando in fretta i fogli ingialliti e macchiati di umidità vicino ai margini, saltò subito alla pagine centrali plastificate, dove erano raccolte alcune fotografie, tutte in bianco e nero.

La prima mostrava l’autore della ricerca, il professor Bernasconi, un uomo dallo sguardo severo, con un paio di enormi baffi da tricheco, di circa sessant’anni; considerato che l’edizione che lei aveva tra le mani risaliva agli anni ‘80, ormai il professore doveva essere molto anziano, sempre ammesso che fosse ancora vivo. Valeria trovava sempre divertente e affascinante fantasticare sulla sorte degli autori con cui si approcciava, qualunque ne fosse l’opera: come per gli attori del cinema, trovava straordinario che un uomo potesse maturare, invecchiare e morire, lasciando però di sé un erede non biologico destinato a sopravvivergli e a portare il suo nome a persone che mai si sarebbero nemmeno sognate di poterlo sentire nominare. In un certo senso, pensava, scrivere un libro era come sconfiggere la morte e vivere per sempre, o perlomeno molto più a lungo di quanto stabilito dalle leggi della natura.

«...troppo tempo che ti aspetto,

è troppo tempo che ti voglio,

tu sai di costa sto parlando

mi fa sentire bene

persino il silenzio

intorno a me...» stava intanto cantandole la Laura nelle cuffie.

La seconda immagine, invece, mostrava due ragazze molto giovani, ritratte in una città di montagna in riva a un lago, con abiti dell’inizio del secolo precedente. La didascalia diceva che quelle erano “Edith Mayer e Marta Bonofede nella loro unica immagine insieme, scattata nell’estate del 1903”.

Valeria fissò lo sguardo senza tempo delle due fanciulle, che sorridevano in eterno attraverso la pagina, inconsapevoli che una di loro due sarebbe senza dubbio morta di lì a breve. Non aveva letto ancora nulla, del libro, ma bastava averne visto la copertina e il titolo per sapere che quella Edith sarebbe finita male nel giro di poco tempo. Come mossa da un istinto irresistibile, fece scorrere il dito sul viso della fanciulla che presunse essere Edith. Provò a fissare dentro quello sguardo ammantato di tempo e tentò di captarne i pensieri, le sensazioni, le emozioni. Chissà se, in un certo senso, la fotografia era riuscita a rubare qualcosa di ciò che la giovane donna aveva dentro di sé per trattenerlo per sempre sulla carta.

Valeria guardò, guardò…

«Signorina, siamo al capolinea, deve scendere», disse all’improvviso una voce maschile al suo fianco.

Come colpita da un pugno invisibile, Valeria si riscosse e staccò gli occhi dalla fotografia. Guardò stralunata il controllore che le faceva cenno di alzarsi e poi lanciò uno sguardo confuso fuori dal finestrino. Era buio e le luci dei lampioni illuminavano una zona industriale che non ricordava di avere mai visto in vita sua. Nelle cuffie non aveva più Gianna Nannini e Laura Pausini, ma soltanto il silenzio. Il suo lettore aveva finito di riprodurre l’ultimo brano della raccolta e si era messo in stand-by.

«Ma…» disse interdetta.

Provò a riconnettere la mente. Un istante prima era pomeriggio – un pomeriggio uggioso, con qualche gocciolina di pioggia che striava i finestrini della corriera – e stava guardando la fotografia di Edith, ascoltando le sue canzoni preferite. Subito dopo quell’uomo l’aveva chiamata ed era notte ormai fatta, e non c’era nessuna musica a tenerle compagnia. I vetri erano ancora bagnati, ma non pioveva più.

Guardò il controllore con aria smarrita.

«Ma non siamo a…?» disse il nome della sua destinazione.

L’uomo sgranò gli occhi.

«Quella fermata l’abbiamo passata almeno due ore fa!» disse, stupito.

Valeria sentì montare dentro di sé una marea di lacrime. Le ricacciò all’indietro a fatica.

«Oddio, che figura, devo essermi assopita!» esclamò, parlando in fretta e a voce alta perché il controllore non notasse il suo disagio.

«Suvvia, non è la fine del mondo», tentò di consolarla l’uomo. «Noi dobbiamo mettere l’autobus in deposito, ma se lo desidera possiamo chiamarle un taxi…»

«Non c’è bisogno», disse lei, in fretta. «Ho il telefonino, chiamerò mio papà perché venga a prendermi. Solo… potrebbe dirmi la via in cui siamo?»

Più tardi, mentre aspettava nel cono di luce arancione di un lampione, la cartella su una spalla e le mani infagottate nelle tasche del giubbotto, sbattendo i piedi sul cemento crepato del marciapiede per combattere il freddo dell’autunno, Valeria si disse certa di non essersi addormentata. Aveva continuato a fissare quegli occhi, come se vi avesse visto dentro qualcosa di unico, e si era… sì, si era dimenticata di esistere.

Per quanto assurdo fosse pensarlo.

Quegli occhi l’avevano catturata e l’avevano trasportata altrove.

Be’, concluse, avrebbe avuto qualcosa di interessante da inserire nella sua ricerca per scienze sociali.

 

* * *

 

Quella sera, Valeria ebbe di nuovo la tentazione di prendere in mano il libro e dare un’altra occhiata alla fotografia che le aveva cagionato quella misteriosa e inspiegabile reazione.

Quando era tornata a casa, erano quasi le ventuno ed era stanca morta. Le sembrava di aver addosso il peso di due vite intere… e dire che, quella mattina, a scuola, c’erano state tre ore di supplenza, e nel pomeriggio non aveva fatto nulla di più che entrare in biblioteca e sbagliare fermata dell’autobus. Nulla che potesse giustificare la stanchezza che si sentiva in corpo. Così, controvoglia, aveva piluccato giusto qualcosa dal piatto che sua madre le aveva tenuto in caldo. Aveva soltanto voglia di andarsene a letto.

«Sei molto pallida», aveva detto la mamma, mettendole la mano sulla fronte. «Non scotti, ma c’è in giro l’influenza e quest’anno pare sia più forte… farai meglio ad andartene a nanna…»

Valeria non stava aspettando altro.

E così aveva fatto. Si era lavata i denti, aveva infilato il pigiama e si era buttata sotto le coperte. Nonostante la stanchezza, aveva scoperto molto presto di non riuscire a chiudere occhio. Continuava a rivedere le due ragazze, e in particolare rivedeva Edith, e quando la vedeva si sentiva accelerare il cuore, mentre uno strano calore le accarezzava tutto il corpo, come se fosse una persona conosciuta, un’anima perduta e ritrovata…

«Ridicolo!» sbottò a un certo punto.

Si girò dall’altra parte e cercò di dormire.

Non ci riuscì.

La tentazione divenne necessità.

Scivolò fuori dalle coperte e appoggiò i piedi nudi sul pavimento. Quel contatto freddo le procurò un brivido che le risalì lungo la spina dorsale. Accese la lampada sul comodino e si alzò in piedi.

Il libro era rimasto nella cartella, che aveva sbattuto senza troppo cerimonie sotto la scrivania, accanto a un pallone da volley che si trovava lì da tempi immemorabili. Senza fare caso ai cantanti che la seguivano dai poster incollati con lo scotch alle pareti – i Green Day erano praticamente ovunque, una costante irrinunciabile – si accucciò accanto allo zaino e rovistò fino a trovare il libro.

Lo aprì quasi in preda al parossismo.

Non poteva più aspettare.

Doveva… doveva guardare quegli occhi…

 

* * *

 

Il mattino seguente, visto che non si alzava da sola, la mamma era venuta a vedere che cosa stesse combinando, per dirle che avrebbe fatto tardi a scuola. L’aveva trovata semisvenuta sotto la scrivania, con il libro scivolato poco più in là.

Dopo averla visitata e aver concluso che non avesse nulla che non andasse, il suo medico aveva prescritto una settimana intera di riposo.

 

* * *

 

Ma Valeria non poté riposare, in quella settimana.

Almeno, non bene come avrebbe voluto il dottore.

Finché era sveglia e faceva altro, andava tutto bene. Si sentiva piuttosto in forma, solo appena un poco stanca. Nessuna traccia di febbre o di qualche altro malanno. Non appena prendeva in mano il libro per provare a leggerlo, però, finiva immancabilmente per volare a quella fotografia, e stava di nuovo male. Si sentiva peggio che mai, tanto che dovette chiedere a suo padre di riportarlo in biblioteca senza che avesse letto neppure una riga per la sua ricerca per scienze sociali.

«Sembra un libro interessante», commentò il papà, sfogliandolo.

«Meno di quello che sembri», replicò lei, a disagio.

Non vedeva l’ora di sbarazzarsi di quel libro. Era certa che la causa di tutto quello che le stava capitando fosse in quelle pagine – anzi, in quella fotografia – e aveva concluso che, sbarazzandosene, sarebbe guarita del tutto da qualunque cosa le fosse capitata.

Sarebbe bastato questo.

Solo che questo non bastò.

Ormai l’immagine delle due ragazze era impressa in lei, qualcosa di profondo e radicato, che non se ne sarebbe più andato.

Ed Edith Mayer cominciò a farle visita in sogno.

Nei sogni, però, Edith le si rivolgeva chiamandola Marta. E Valeria, dopo poco tempo se ne rese perfettamente conto, trovava del tutto normale che lei la chiamasse in quel modo. Ma Edith la chiamava da lontano, e Valeria – o Marta che fosse – si struggeva e si disperava perché non riusciva a raggiungerla. Anche lei la chiamava. La invocava in modo disperato. Cercava di correre da lei, di afferrarla, ma più si avvicinava e più Edith si allontanava. Entrambe allora piangevano, e gridavano, finché Valeria si svegliava nel cuore della notte, ansante e madida di sudore, con il cuore che batteva impazzito.

Dormire, ormai, stava diventando un’impresa sempre più difficile. Valeria era spossata, eppure cercava di resistere il più a lungo possibile, prima di addormentarsi: non voleva precipitare di nuovo in quell’incubo. Ma non poteva vegliare all’infinito. Alla fine, il suo corpo cedeva, le palpebre si facevano pesanti e lei scivolava di nuovo nel sonno.

Peccato solo che il suo non fosse più un sonno ristoratore come avrebbe dovuto essere.

Edith veniva a visitarla sempre più spesso, ma questo non cambiava la situazione: restava sempre irraggiungibile, figura intangibile e inafferrabile, e tutto si riduceva a una cupa disperazione. E allora Valeria – o Marta, come ormai si chiamava nei sogni – urlava e piangeva, finché si risvegliava, con le lenzuola attorcigliate contro il corpo stanco e bagnato.

La ragazzina sperò che tutto quanto si sarebbe esaurito da solo nel volgere di qualche giorno soltanto.

Non accadde.

I sogni continuarono a tormentarla, Edith ormai non l’abbandonava più. Si palesava subito dopo che i suoi occhi si erano chiusi. A volte, si faceva largo persino nel dormiveglia, senza nemmeno attendere il sonno profondo.

Da questo derivarono ansie e frustrazioni che si riflessero sulla sua vita di tutti i giorni. Infine, dopo aver sopportato per tre mesi quella situazione, Valeria si risolse a chiedere aiuto a uno specialista. Aveva perso quindici chili, si era smunta e scolorita, e la sua vita sociale era ridotta praticamente a un nulla totale.

Quello la visitò, la fece parlare, cercò di sondare i suoi pensieri.

«Sei stata suggestionata, nulla di così anormale, alla tua età», le spiegò, con fare sicuro. «Posso prescriverti un leggero antidepressivo. E ti consiglio di fare una cura vitaminica per rimetterti un po’ in forma. Cerca di mangiare di più, sei in una fase dello sviluppo molto delicata, non puoi dimagrire così. Ma non crucciarti più. Vedrai che, con il sopraggiungere della primavera e poi dell’estate, il disturbo sparirà del tutto.»

Così come aveva detto lo specialista, la primavera arrivò e passò, e così fece l’estate, e dopo vennero l’autunno e l’inverno; gli anni si sommarono gli uni agli altri, e Valeria da ragazzina divenne una donna. Una donna che si portava ormai sempre appresso una scatola di antidepressivi molto forti ed era costretta a lottare giorno per giorno con l’idea terribile e allo stesso tempo allettante di farla finita e porre termine una volta per sempre a quella vita impossibile.

Perché Edith continuò a chiamare Marta durante i suoi sogni, e mai una volta lei riuscì a raggiungerla.

 
   
 
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