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Autore: Sinnheim    22/11/2022    0 recensioni
Fanfiction scritta a quattro mani con SibillaCubana.
Questa è la loro storia.
Prima di ciò che si conosce, quando Spira non era altro che una terra fatta di morte e distruzione, i tre eroi della leggenda hanno avuto modo di perseguire il loro destino.
L'invocatore Braska, il monaco Auron e il naufrago Jecht partiranno per completare il loro Pelligrinaggio, viaggio volto a raccogliere le forze necessarie per sconfiggere Sin, il distruttore.
Tuttavia, questo lungo e pericoloso viaggio verso la città di Zanarkand non sarà solo ricco di insidie terrene: ancor di più, i tre eroi dovranno affrontare loro stessi e le loro peggiori paure.
Genere: Dark, Drammatico, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Auron, Braska, Jecht
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti
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CAPITOLO 30: UN DESIDERIO INGENUO COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE 2)

 

 

Auron annuì. Non avendo altra scelta, i due si guardarono intorno, individuando uno dei tanti uomini in nero che tartassavano i cittadini. Dopotutto, non avevano niente da temere da parte loro, e trovare Alan era la priorità. Auron avvicinò con cautela un prete di Yevon, per poi presentarsi con la riverenza. 

«Siamo i Guardiani dell'Invocatore Braska. Abbiamo saputo che il Grande Inquisitore lo sta cercando, proprio come stiamo facendo noi. Dobbiamo raggiungere il Maestro il prima possibile».

Il sacerdote gli rivolse un sorriso enigmatico, in cui Auron riuscì solo a leggere un certo sollievo.

«Sia ringraziato Yevon. Stavano cercando anche voi,» disse, asciugandosi la fronte con la mano. «Il Grande Inquisitore dovrebbe trovarsi nei pressi dello stadio, ma non saprei dirvi dove con esattezza. Fate in fretta».

Tornarono quindi indietro, facendosi spazio tra la calca e cercando di non perdersi di vista.

Il sacerdote non aveva dato indicazioni certe, così Jecht indicò ad Auron una catasta di merci in uno dei moli. Con l'aiuto del compagno, riuscì a scalarla per guardare intorno da un punto sopraelevato. Sorvolò con la mente, come uno di quei Condor che preannunciavano la morte in mare, le strade della città. Ma non era tanto in alto quanto un uccello, e dalla cassa su cui s’era appollaiato vedeva solo a una maggiore distanza rispetto ad Auron che era rimasto a terra.

Affondò i denti sul labbro inferiore, in un punto che aveva già morso e che gli restituì in cambio un leggero sapore ferroso. Sperò con tutto sé che Alan non si fosse tolto i paramenti o che fosse accompagnato da qualche guardia Ronso, altrimenti sarebbe stato impossibile individuarlo tra la folla. 

Lo vide, con i suoi abiti appariscenti sollevati dal vento, che guardava verso il teatro come se stesse ammirando la tela più importante di un’esposizione. Sembrava che la sua contemplazione avrebbe potuto in ogni momento trasformarsi in violenza. 

«Auron!» gridò. «L’ho trovato!»

I due Guardiani corsero per le vie fino a percorrere un ponte sull’acqua, diretti verso un edificio dalla forma allungata che somigliava in un certo qual modo a un’aeronave. L’architetto, forse affascinato dalle macchine volanti degli Al Bhed, aveva fatto sì che la struttura principale, un tronco di cono rovesciato su cui si aprivano dei piccoli archi, fosse racchiusa da una seconda, in pietra liscia, che si allungava verso la città in una curva leggera. Era una forma diversa dal semicerchio che decorava le spalle di Alan, e quella discrepanza nell’estetica sembrava sottolineare la differenza di pensiero tra Luka e Bevelle. 

Auron, senza volerlo, rallentava progressivamente nell’avvicinarsi a quel luogo, come se fosse stato immerso fino al polpaccio in un liquido viscoso. Guardò Jecht, e notò che sembrava essere nella stessa condizione. Guardò di nuovo Alan, che dava loro la schiena, e vide che sopra al gomito aveva un tatuaggio che non ricordava. Un semplice glifo nero, il simbolo di Behemot e della luce.

Io sono la luce del mondo.

«Alan!» ebbe il coraggio di chiamare la voce di Jecht, mentre lui era ancora perso nel timore e nel ricordo del giorno in cui il fratello di Braska aveva preso il suo trono.

L’Inquisitore, che stringeva il giavellotto nella mano sinistra, si voltò di scatto nel sentir pronunciare il proprio nome in maniera tanto autoritaria. Quando vide i due, il suo sguardo non si addolcì, ma la presa sull’asta si fece meno ferma.

«Ah,» commentò, accompagnando quel monosillabo con un’alzata di sopracciglia. «Alla buon’ora».

Auron si mise sull’attenti e cominciò un goffo tentativo di giustificare la propria mancanza, tormentato dall’immagine confusa di ciò che era successo solo qualche minuto prima:

«Signore-»

«Ritira i tuoi uomini! Così non otterrai niente!» 

Auron, spiazzato dal tono che Jecht aveva usato con il Grande Inquisitore, sbiancò. Incapace di comprendere il motivo di quella familiarità, quando fino a poco tempo prima Jecht era terrorizzato da Alan, fece un passo indietro. Il vento salmastro di Luka fece ondeggiare i fili di perline che aveva legati al corpetto. Si sentì come se non conoscesse la persona che stava per… 

«Jecht,» lo richiamò, «mi rendo conto che siamo in una situazione critica, ma non…»

Alan alzò una mano all’altezza del volto e storse le labbra in un sorriso. 

«No, no, lascialo parlare,» replicò, con l’intonazione cantilenata e serafica che usava quando interrogava qualcuno, sicuro della propria incrollabile superiorità. «Ho sempre concesso il diritto di difendersi. E, in ogni caso, far perlustrare la città a tappeto non servirà a nulla, ora che vi ho trovato».

«Sembrava che non cercassi solo noi,» rispose Jecht. «Ti conviene non insistere, Maestro Inquisitore, la folla è più difficile da imbrigliare del mare».

Auron avrebbe voluto avere quel suo coraggio sconsiderato, ma davanti ai paramenti di Alan, sotto l’occhio spalancato di Yevon, si sentiva solo in grado di piegare il collo come un bue sotto l’aratro. 

«Sembra che invece voi abbiate mancato al vostro dovere. Che cos’è il tuo, un consiglio da amico?»

«Da alleato. Pensavo che avessi accettato».

Auron avrebbe voluto sfoderare la spada, puntargliela contro e intimargli di liberare il compagno di Cécile. Poi, però, rivide la luce che c’era nei suoi occhi mentre si gettava tra le strade. Allora pensò che forse davvero il tumulto degli uomini era forte come le onde nell’oceano.

«Un re, eh?» Il Guardiano si riscosse dai propri pensieri e tornò a guardare Alan, incuriosito da quel cambio improvviso di discorso; lo trovò che di nuovo aveva dato loro le spalle e si rivolgeva allo stadio.

«Cosa?» replicò subito Jecht.

«Pretendi davvero che ti creda se mi scrivi che Yevon era un re, e che i miei altari sono vuoti, solo perché l’hai messo su carta?»

«È quello che mi hai domandato quel giorno. Cosa mi ha detto il Coro».

I cerchi di metallo che adornavano la veste di Alan tintinnarono quando lui mosse qualche passo solenne in avanti. Resse il giavellotto in orizzontale all’altezza delle cosce, con entrambe le mani, e la sua figura all’improvviso sembrò identica a quella di Braska, in procinto di danzare il Rito del Trapasso.

«Quel giorno mi hai detto che non avevi niente da dichiarare,» commentò l’Inquisitore, quasi parlando a se stesso, «e ora hai cambiato all’improvviso idea».

«Un… un re?» cercò di intervenire Auron, la voce che tremava e un’orrida sensazione che gli percorreva la carne.

La sua domanda cadde nel vuoto.

«Pensi che ti abbia mentito? Bruciami, allora».

Alan, senza quasi muovere il capo, diresse la coda dell’occhio verso Jecht. Le sue iridi azzurre lampeggiarono dietro al velo.

«Se vuoi dimostrare che sono un eretico,» continuò a dire l’uomo di Zanarkand, «costruisci una pira in piazza e bruciami, come hai fatto con quella donna».

Solo in quel momento, Alan si voltò, apparentemente infastidito:

«Per cortesia, non esprimerti su questioni che non–»

Auron cercò con gli occhi quelli di Jecht. 

Fidati di me, gli aveva detto mentre combattevano; fidati di me mentre piantavano i pali per le tende. E ora il suo sguardo muto gli stava ripetendo quelle tre parole. 

«Non l’ho detto subito perché provo per te la stessa paura che tu hai per il Coro,» ammise il Guardiano maggiore per età. «Tu conosci le lingue antiche e le leggi delle città, così da poter governare gli uomini, ma i tuoi modi sono quelli delle bestie».

Con un gesto inaspettato, Jecht piegò una gamba e si inginocchiò davanti allo stesso uomo che aveva appena chiamato bestia. Auron, con gli occhi sgranati, arricciò le labbra e scoprì i denti in un’espressione di pura sorpresa. Jecht non teneva il capo chino: il suo busto percorso dalle cicatrici era dritto, lo sguardo ardente puntato sull’Inquisitore.

«Ho soddisfatto il desiderio di conoscenza per cui soffrivi,» concluse, «perciò, ti prego, smetti di mordere il mondo. Metti da parte l’astio che provi e per ora unisciti a noi, se hai in cuore di salvare tuo fratello».

Il monaco serrò gli occhi, in attesa del colpo che facesse vibrare l’aria. Non arrivò.

«Va bene,» risuonò solamente sotto le sue palpebre.

Era così che Jecht aveva dovuto sentirsi quando aveva aperto gli occhi su Spira, senza capire.

Il profilo di Alan era dipinto sull’acqua limpida di una delle piscine che circondavano il teatro.

«Gli Al Bhed hanno rapito Braska e hanno cercato di travolgermi con un veicolo. Li ho visti decollare con un’aeronave da quel molo laggiù».

«Anche conoscendo la direzione, come possiamo raggiungerli?» domandò il monaco, osservando le increspature sulla superficie che distorcevano la figura dell’Inquisitore.

«Perché non mi stai guardando?»

«Mi scusi, signore. Come li raggiungiamo?»

Sembrava che Alan conoscesse ogni peccato di ogni uomo che camminava sulla terra. Guardarlo era come fissare il sole, nonostante la vista fosse offuscata dal velo, e gli occhi di Auron non erano come quelli di un’aquila. Si chiese di nuovo come Jecht avesse trovato il coraggio di rivolgersi a lui con tanto orgoglio nella voce.

«Abbi fede, Templare,» rispose Alan, una volta che fu certo che entrambi lo stessero osservando senza sotterfugi. Cominciò, con la mano che non reggeva l’arma, a far dondolare dolcemente il turibolo, e a farne uscire fumo d’incenso che si mescolava a una grande quantità di lunioli. 

Il contorto fantasma di un dragone avvolse nelle sue spire il teatro, senza un suono. Le sue quattro zampe erano simili a quelle di un enorme uccello, ma aveva artigli da leone. Sul suo corpo scarlatto, su cui s’innestavano due ali flaccide, cresceva del pelo simile al manto erboso che copriva l’immensa Piana della Bonaccia. 

Auron fece due passi indietro, e per la paura impiegò qualche istante a ricordare che era solo un’illusione. 

La creatura protese la testa, appesantita dalle corna ricurve, verso l’uomo che lo aveva evocato. 

Jecht fissò con occhi sgranati l’Inquisitore, che allungò le dita per accarezzargli il muso, grande da solo quanto un uomo. Si voltò verso Auron e lo sentì spingere una parola fuori dalle labbra socchiuse: 

«Evrae…»

 

 

 

1009, mese VII. XX giorni dall’equinozio d’autunno.

«Evrae…»

Erano passati trentadue anni da quando la stella nuova era comparsa sopra Bevelle, per la precisione trentadue anni e un giorno. Gli uomini avevano tremato quando il cielo perfetto s’era corrotto, e un sospetto eretico aveva serpeggiato nei loro animi. Quella macchia inspiegabile era rimasta per poco più di un anno, bianca, sopra la terra. Poi era svanita dalla tela della notte, silenziosa come quando era arrivata.

Era tornato Evrae, l’enorme serpente alato che si diceva fosse composto dai lunioli dei guerrieri di Bevelle caduti nella guerra contro Zanarkand. 

I preti di Yevon lo avevano salutato alzando al cielo, di nuovo incorrotto, i loro scettri e i loro canti:

Gioite al ritorno della nostra forza
che mille anni fa avevamo oltraggiato.

La guerra sembrava a tutti lontana, assieme alla tracotante mostruosità chiamata Vegnagun; l’arma per cui il re di Bevelle aveva condannato la sua stirpe mortale. La macchina per cui Evrae aveva disprezzato la sua stessa patria.

Per gli abitanti di Bevelle, lontani dalla costa flagellata da Sin, ormai ogni combattimento era distante come la stella nuova. Era così per il ragazzino orfano che aveva indossato sopra i suoi abiti  un mantello rosso e, per imitare i Templari, era corso sul Gran Ponte stringendo l’asta della sua lanterna di carta come una spada. 

Solo per Alan non era così: lui solamente era equidistante dal giorno in cui aveva ricevuto dai fantasmi la sua sentenza e da quello in cui sarebbe stato lui a tormentare chi osava spiegare la corruzione delle sfere celesti.

Seduto sul pavimento della cella in cui si era fatto confinare dai Templari fino a quando quel dolore non sarebbe passato e la Necropotenza si sarebbe fatta imbrigliare, fissava il suo stesso sangue a terra. Il tatuaggio di falena sulla scapola gli inviava un dolore pulsante, come se un masso lo stesse schiacciando a poco a poco. 

All’improvviso, ringhiò come una belva e, con un colpo di reni, tentò di scattare in avanti, per sbranare un nemico che solo lui vedeva. Tornò in sè solo un istante dopo, quando le catene che gli stingevano i polsi tintinnarono. Sentì una goccia di sudore attraversargli la tempia e vide, davanti a sé, dei lunioli fuggire da piccole torri di sangue rappreso, simili a quelle che i bambini erigevano sulla riva, facendosi scivolare la sabbia bagnata tra le dita.

Alan desiderava abbandonare l’umanità da cui il Coro lo aveva bandito; eppure aveva paura di compiere un atto tanto sacrilego. Dal suo petto, piagato dall’ acuta sofferenza, uscì una cantilena cupa. Aveva imparato che solo variando di poco la tonalità delle preghiere poteva ottenere qualcosa che risultava estraneo, inquietante all’orecchio degli uomini.

Nel frattempo, Auron sul ponte correva e sognava, seguito dalla coda della lanterna a dragone, che si agitava nel vento. La sua preghiera cristallina saliva al cielo, quasi in grado da sola di spazzare via le nubi. Ignorante ancora delle mani giunte di Alan nella notte eterna.

In questa città fiorirò come il lentisco,

Io compatisco il tuo sguardo ferale.

Donami la forza delle tue spire,

Per pietà, trasformami in bestia.

O lucente guardiano della città,
o Evrae suscitatempeste.

  
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