CAPITOLO 30:
UN DESIDERIO INGENUO
COME IL VOLER PROTEGGERE QUALCUNO (PARTE 2)
Auron
annuì. Non avendo altra scelta, i due si guardarono intorno,
individuando uno
dei tanti uomini in nero che tartassavano i cittadini. Dopotutto, non
avevano
niente da temere da parte loro, e trovare Alan era la
priorità. Auron avvicinò
con cautela un prete di Yevon, per poi presentarsi con la
riverenza.
«Siamo
i
Guardiani dell'Invocatore Braska. Abbiamo saputo che il Grande
Inquisitore lo
sta cercando, proprio come stiamo facendo noi. Dobbiamo raggiungere il
Maestro
il prima possibile».
Il
sacerdote gli rivolse un sorriso enigmatico, in cui Auron
riuscì solo a leggere
un certo sollievo.
«Sia
ringraziato Yevon. Stavano cercando anche voi,» disse,
asciugandosi la fronte
con la mano. «Il Grande Inquisitore dovrebbe trovarsi nei
pressi dello stadio,
ma non saprei dirvi dove con esattezza. Fate in fretta».
Tornarono
quindi indietro, facendosi spazio tra la calca e cercando di non
perdersi di
vista.
Il
sacerdote non aveva dato indicazioni certe, così Jecht
indicò ad Auron una
catasta di merci in uno dei moli. Con l'aiuto del compagno,
riuscì a scalarla
per guardare intorno da un punto sopraelevato. Sorvolò con
la mente, come uno
di quei Condor che preannunciavano la morte in mare, le strade della
città. Ma
non era tanto in alto quanto un uccello, e dalla cassa su cui
s’era appollaiato
vedeva solo a una maggiore distanza rispetto ad Auron che era rimasto a
terra.
Affondò
i
denti sul labbro inferiore, in un punto che aveva già morso
e che gli restituì
in cambio un leggero sapore ferroso. Sperò con tutto
sé che Alan non si fosse
tolto i paramenti o che fosse accompagnato da qualche guardia Ronso,
altrimenti
sarebbe stato impossibile individuarlo tra la folla.
Lo vide,
con i suoi abiti appariscenti sollevati dal vento, che guardava verso
il teatro
come se stesse ammirando la tela più importante di
un’esposizione. Sembrava che
la sua contemplazione avrebbe potuto in ogni momento trasformarsi in
violenza.
«Auron!»
gridò. «L’ho trovato!»
I due
Guardiani corsero per le vie fino a percorrere un ponte
sull’acqua, diretti
verso un edificio dalla forma allungata che somigliava in un certo qual
modo a
un’aeronave. L’architetto, forse affascinato dalle
macchine volanti degli Al
Bhed, aveva fatto sì che la struttura principale, un tronco
di cono rovesciato
su cui si aprivano dei piccoli archi, fosse racchiusa da una seconda,
in pietra
liscia, che si allungava verso la città in una curva
leggera. Era una forma
diversa dal semicerchio che decorava le spalle di Alan, e quella
discrepanza
nell’estetica sembrava sottolineare la differenza di pensiero
tra Luka e
Bevelle.
Auron,
senza volerlo, rallentava progressivamente nell’avvicinarsi a
quel luogo, come
se fosse stato immerso fino al polpaccio in un liquido viscoso.
Guardò Jecht, e
notò che sembrava essere nella stessa condizione.
Guardò di nuovo Alan, che
dava loro la schiena, e vide che sopra al gomito aveva un tatuaggio che
non
ricordava. Un semplice glifo nero, il simbolo di Behemot e della luce.
Io sono
la luce del mondo.
«Alan!»
ebbe il coraggio di chiamare la voce di Jecht, mentre lui era ancora
perso nel
timore e nel ricordo del giorno in cui il fratello di Braska aveva
preso il suo
trono.
L’Inquisitore,
che stringeva il giavellotto nella mano sinistra, si voltò
di scatto nel sentir
pronunciare il proprio nome in maniera tanto autoritaria. Quando vide i
due, il
suo sguardo non si addolcì, ma la presa sull’asta
si fece meno ferma.
«Ah,»
commentò, accompagnando quel monosillabo con
un’alzata di sopracciglia. «Alla
buon’ora».
Auron si
mise sull’attenti e cominciò un goffo tentativo di
giustificare la propria
mancanza, tormentato dall’immagine confusa di ciò
che era successo solo qualche
minuto prima:
«Signore-»
«Ritira
i
tuoi uomini! Così non otterrai niente!»
Auron,
spiazzato dal tono che Jecht aveva usato con il Grande Inquisitore,
sbiancò.
Incapace di comprendere il motivo di quella familiarità,
quando fino a poco
tempo prima Jecht era terrorizzato da Alan, fece un passo indietro. Il
vento
salmastro di Luka fece ondeggiare i fili di perline che aveva legati al
corpetto. Si sentì come se non conoscesse la persona che
stava per…
«Jecht,»
lo richiamò, «mi rendo conto che siamo in una
situazione critica, ma non…»
Alan
alzò
una mano all’altezza del volto e storse le labbra in un
sorriso.
«No,
no,
lascialo parlare,» replicò, con
l’intonazione cantilenata e serafica che usava
quando interrogava qualcuno, sicuro della propria incrollabile
superiorità. «Ho
sempre concesso il diritto di difendersi. E, in ogni caso, far
perlustrare la
città a tappeto non servirà a nulla, ora che vi
ho trovato».
«Sembrava
che non cercassi solo noi,» rispose Jecht. «Ti
conviene non insistere, Maestro
Inquisitore, la folla è più difficile da
imbrigliare del mare».
Auron
avrebbe voluto avere quel suo coraggio sconsiderato, ma davanti ai
paramenti di
Alan, sotto l’occhio spalancato di Yevon, si sentiva solo in
grado di piegare
il collo come un bue sotto l’aratro.
«Sembra
che invece voi abbiate mancato al vostro dovere. Che
cos’è il tuo, un consiglio
da amico?»
«Da alleato.
Pensavo che avessi accettato».
Auron
avrebbe voluto sfoderare la spada, puntargliela contro e intimargli di
liberare
il compagno di Cécile. Poi, però, rivide la luce
che c’era nei suoi occhi
mentre si gettava tra le strade. Allora pensò che forse
davvero il tumulto
degli uomini era forte come le onde nell’oceano.
«Un
re,
eh?» Il Guardiano si riscosse dai propri pensieri e
tornò a guardare Alan,
incuriosito da quel cambio improvviso di discorso; lo trovò
che di nuovo aveva
dato loro le spalle e si rivolgeva allo stadio.
«Cosa?»
replicò subito Jecht.
«Pretendi
davvero che ti creda se mi scrivi che Yevon era un re, e che i miei
altari sono
vuoti, solo perché l’hai messo su carta?»
«È
quello
che mi hai domandato quel giorno. Cosa mi ha detto il Coro».
I cerchi
di metallo che adornavano la veste di Alan tintinnarono quando lui
mosse
qualche passo solenne in avanti. Resse il giavellotto in orizzontale
all’altezza delle cosce, con entrambe le mani, e la sua
figura all’improvviso
sembrò identica a quella di Braska, in procinto di danzare
il Rito del
Trapasso.
«Quel
giorno mi hai detto che non avevi niente da dichiarare,»
commentò
l’Inquisitore, quasi parlando a se stesso, «e ora
hai cambiato all’improvviso
idea».
«Un…
un re?»
cercò di intervenire Auron, la voce che tremava e
un’orrida sensazione che gli
percorreva la carne.
La sua
domanda cadde nel vuoto.
«Pensi
che
ti abbia mentito? Bruciami, allora».
Alan,
senza quasi muovere il capo, diresse la coda dell’occhio
verso Jecht. Le sue
iridi azzurre lampeggiarono dietro al velo.
«Se
vuoi
dimostrare che sono un eretico,» continuò a dire
l’uomo di Zanarkand, «costruisci
una pira in piazza e bruciami, come hai fatto con quella
donna».
Solo in
quel momento, Alan si voltò, apparentemente infastidito:
«Per
cortesia, non esprimerti su questioni che non–»
Auron
cercò con gli occhi quelli di Jecht.
Fidati
di me, gli aveva
detto mentre combattevano; fidati di me mentre
piantavano i pali per le
tende. E ora il suo sguardo muto gli stava ripetendo quelle tre
parole.
«Non
l’ho
detto subito perché provo per te la stessa paura che tu hai
per il Coro,»
ammise il Guardiano maggiore per età. «Tu conosci
le lingue antiche e le leggi
delle città, così da poter governare gli uomini,
ma i tuoi modi sono quelli
delle bestie».
Con un
gesto inaspettato, Jecht piegò una gamba e si
inginocchiò davanti allo stesso
uomo che aveva appena chiamato bestia. Auron, con gli occhi sgranati,
arricciò
le labbra e scoprì i denti in un’espressione di
pura sorpresa. Jecht non teneva
il capo chino: il suo busto percorso dalle cicatrici era dritto, lo
sguardo
ardente puntato sull’Inquisitore.
«Ho
soddisfatto
il desiderio di conoscenza per cui soffrivi,» concluse,
«perciò, ti prego,
smetti di mordere il mondo. Metti da parte l’astio che provi
e per ora unisciti
a noi, se hai in cuore di salvare tuo fratello».
Il monaco
serrò gli occhi, in attesa del colpo che facesse vibrare
l’aria. Non arrivò.
«Va
bene,»
risuonò solamente sotto le sue palpebre.
Era
così
che Jecht aveva dovuto sentirsi quando aveva aperto gli occhi su Spira,
senza
capire.
Il profilo
di Alan era dipinto sull’acqua limpida di una delle piscine
che circondavano il
teatro.
«Gli
Al
Bhed hanno rapito Braska e hanno cercato di travolgermi con un veicolo.
Li ho
visti decollare con un’aeronave da quel molo
laggiù».
«Anche
conoscendo la direzione, come possiamo raggiungerli?»
domandò il monaco, osservando
le increspature sulla superficie che distorcevano la figura
dell’Inquisitore.
«Perché
non mi stai guardando?»
«Mi
scusi,
signore. Come li raggiungiamo?»
Sembrava
che Alan conoscesse ogni peccato di ogni uomo che camminava sulla
terra.
Guardarlo era come fissare il sole, nonostante la vista fosse offuscata
dal
velo, e gli occhi di Auron non erano come quelli di
un’aquila. Si chiese di
nuovo come Jecht avesse trovato il coraggio di rivolgersi a lui con
tanto
orgoglio nella voce.
«Abbi
fede, Templare,» rispose Alan, una volta che fu certo che
entrambi lo stessero
osservando senza sotterfugi. Cominciò, con la mano che non
reggeva l’arma, a
far dondolare dolcemente il turibolo, e a farne uscire fumo
d’incenso che si
mescolava a una grande quantità di lunioli.
Il
contorto fantasma di un dragone avvolse nelle sue spire il teatro,
senza un
suono. Le sue quattro zampe erano simili a quelle di un enorme uccello,
ma aveva
artigli da leone. Sul suo corpo scarlatto, su cui
s’innestavano due ali
flaccide, cresceva del pelo simile al manto erboso che copriva
l’immensa Piana
della Bonaccia.
Auron fece
due passi indietro, e per la paura impiegò qualche istante a
ricordare che era
solo un’illusione.
La
creatura protese la testa, appesantita dalle corna ricurve, verso
l’uomo che lo
aveva evocato.
Jecht
fissò con occhi sgranati l’Inquisitore, che
allungò le dita per accarezzargli
il muso, grande da solo quanto un uomo. Si voltò verso Auron
e lo sentì
spingere una parola fuori dalle labbra socchiuse:
«Evrae…»
1009,
mese VII. XX giorni dall’equinozio d’autunno.
«Evrae…»
Erano
passati trentadue anni da quando la stella nuova era comparsa sopra
Bevelle, per la precisione trentadue anni e un giorno. Gli uomini
avevano
tremato quando il cielo perfetto s’era corrotto, e un
sospetto eretico aveva
serpeggiato nei loro animi. Quella macchia inspiegabile era rimasta per
poco
più di un anno, bianca, sopra la terra. Poi era svanita
dalla tela della notte,
silenziosa come quando era arrivata.
Era
tornato Evrae, l’enorme serpente alato che si diceva fosse
composto dai
lunioli dei guerrieri di Bevelle caduti nella guerra contro
Zanarkand.
I
preti di Yevon lo avevano salutato alzando al cielo, di nuovo
incorrotto,
i loro scettri e i loro canti:
Gioite
al ritorno della nostra forza
che mille anni fa avevamo oltraggiato.
La
guerra sembrava a tutti lontana, assieme alla tracotante
mostruosità
chiamata Vegnagun; l’arma per cui il re di Bevelle aveva
condannato la sua
stirpe mortale. La macchina per cui Evrae aveva disprezzato la sua
stessa
patria.
Per
gli abitanti di Bevelle, lontani dalla costa flagellata da Sin, ormai
ogni combattimento era distante come la stella nuova. Era
così per il ragazzino
orfano che aveva indossato sopra i suoi abiti un mantello
rosso e, per
imitare i Templari, era corso sul Gran Ponte stringendo
l’asta della sua lanterna
di carta come una spada.
Solo
per Alan non era così: lui solamente era equidistante dal
giorno in
cui aveva ricevuto dai fantasmi la sua sentenza e da quello in cui
sarebbe
stato lui a tormentare chi osava spiegare la corruzione delle sfere
celesti.
Seduto
sul pavimento della cella in cui si era fatto confinare dai Templari
fino a quando quel dolore non sarebbe passato e la Necropotenza si
sarebbe
fatta imbrigliare, fissava il suo stesso sangue a terra. Il tatuaggio
di falena
sulla scapola gli inviava un dolore pulsante, come se un masso lo
stesse
schiacciando a poco a poco.
All’improvviso,
ringhiò come una belva e, con un colpo di reni,
tentò di
scattare in avanti, per sbranare un nemico che solo lui vedeva.
Tornò in sè
solo un istante dopo, quando le catene che gli stingevano i polsi
tintinnarono.
Sentì una goccia di sudore attraversargli la tempia e vide,
davanti a sé, dei
lunioli fuggire da piccole torri di sangue rappreso, simili a quelle
che i
bambini erigevano sulla riva, facendosi scivolare la sabbia bagnata tra
le
dita.
Alan
desiderava abbandonare l’umanità da cui il Coro lo
aveva bandito;
eppure aveva paura di compiere un atto tanto sacrilego. Dal suo petto,
piagato
dall’ acuta sofferenza, uscì una cantilena cupa.
Aveva imparato che solo variando
di poco la tonalità delle preghiere poteva ottenere qualcosa
che risultava
estraneo, inquietante all’orecchio degli uomini.
Nel
frattempo, Auron sul ponte correva e sognava, seguito dalla coda della
lanterna a dragone, che si agitava nel vento. La sua preghiera
cristallina
saliva al cielo, quasi in grado da sola di spazzare via le nubi.
Ignorante
ancora delle mani giunte di Alan nella notte eterna.
In
questa città fiorirò come il lentisco,
Io
compatisco il tuo sguardo ferale.
Donami
la forza delle
tue spire,
Per
pietà, trasformami in bestia.
O
lucente guardiano della città,
o Evrae suscitatempeste.