Storie originali > Fantasy
Segui la storia  |       
Autore: Leo_Zanardi    25/11/2022    0 recensioni
Il primo libro della serie "RUNICA"
Ed è una giovane forgiatrice di talento, e non gli importa di nessuno.
Jen è una ragazza di campagna, sa poco del mondo, ma vorrebbe saperne ancora meno.
Valiel non è a casa da nessuna parte, ma l’amore lo riporta sempre a sé.
Questa non è la storia di come salveranno il mondo, realizzeranno i loro sogni, o compiranno grandi imprese.  Eppure questa storia avrà un significato per tanti uomini e donne, interi popoli e regni la ricorderanno. Ma per loro, avrà mai un significato?
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A

7. MORBANE

 

Il piccolo regno di Morbane rifiutò i Sei Re e l’unica Chiesa e come volse le spalle alla Dea, così a Dea le voltò ai suoi abitanti e certo essi pagarono per ciò un alto prezzo.

da “Cronistoria del Concordato dei Sette”

 

Suo padre guidava il carretto sulla strada sterrata con mano sicura ma le arance che sobbalzavano nelle cassette di legno la preoccupavano, lui sembrava convinto di poterle tenere a posto col pensiero mentre lei era sicura che si sarebbero rovesciate in strada. Sua madre, davanti a loro, leggeva uno di quei libri con quelle meravigliose copertine piene di immagini variopinte che forse erano simboli, forse disegni, lei non riusciva mai a distinguerlo.

«Sarà una vera svolta, una vera svolta per questa famiglia».

Nessuno di loro, né lei né sua madre, né Lor né Yul, gli diede retta – ma gli ultimi due, appena tre anni a testa, erano giustificati – eppure sua madre gli rivolse comunque un accenno di sorriso condiscendente. Ma suo padre, cresciuto nei campi, sebbene incolto era tutt’altro che stupido: reagì con una smorfia di disappunto che non tentava di celare la stizza. Sentiva di non avere il dovuto riconoscimento.

«Se non avessimo grano e arance e miele e latte, di cosa vivremmo? Ci pensate mai, voi là dietro?»

Lo disse appena sottovoce ma sua madre lo sentì. Jen non capiva mai se fosse per autentica comprensione o piuttosto per pietà ma anche in questo caso chiuse il libro e lo guardò con qualcosa nello sguardo in cui suo padre seppe, o forse volle, leggere delle scuse.

«Sono sicuro che apprezzeranno i nostri prodotti, amore mio».

«Certo che lo faranno. E se inizieremo a vendere a Tuinsy, la nostra vita cambierà! Diventeremo… bé, non ricchi… ma meno poveri» ribadì con uno sforzo di incondivisibile ottimismo agitando l’indice.

Di nuovo, Jen non seppe decidere se era fiducia o condiscendenza quella che sua madre rivolse al padre con il suo gesto di assenso, fatto sta che tornò subito a concentrarsi sul suo volume. Jen amava e odiava quei misteriosi oggetti che erano i libri della madre, come finestre su un mondo totalmente diverso da quello del resto della famiglia, dalla loro realtà fatta di noia, abitudine, fatica e sacrificio. Cosa facevano quelle pagine a sua madre? La conducevano in un posto migliore di quello o piuttosto la risucchiavano via dalla vita vera? E cosa facevano, cosa avrebbero potuto fare, a lei? Cosa custodivano quegli intrecci di parole e colori e forme, un dono o una maledizione?

«Ci fermiamo!» disse suo padre di botto e com’era sua abitudine agì prima di apprendere cosa ne pensavano gli altri.

«Perché, papà?» chiese Jen.

Suo padre fece un cenno alla loro destra e lei, Lor e Yul rimasero tutti e tre a bocca aperta. C’era, oltre una barriera di canne, una striscia di terra chiara e fine mai vista prima e subito dopo più acqua di quanta ne avessero mai visto assieme, acqua a perdita d’occhio, una distesa liquida e scintillante sotto il sole tiepido dei mattini del Draile.

«Non si va a Tuinsy senza vedere il mare» spiegò suo padre «e voi non lo avete mai visto. Facciamo un bel bagno, ragazzi!»

«Arriveremo tardi per l’esposizione, papà…» disse Jen, preoccupata.

«Anche questo è importante. Andate a farvi il bagno e basta».

Cercò lo sguardo di sua madre. Questo si staccò giusto un attimo dalle pagine e le fece comprendere che doveva obbedire, poi tornò immediatamente alla lettura. Jen prese per mano Lor e Yul per invitarli a scendere dal carretto, poi corsero tutti e tre verso l’acqua. Fu il primo momento della sua vita in cui sentì il tocco della sabbia e del mare.

***

Dal suo primo istante di coscienza, Jen concentrò ognuno dei suoi cinque sensi nel capire dove si trovasse. C’era la sabbia e c’era il mare. Ma c’era anche qualcosa che rimarcava quanto diversi fossero quel mare, infestato di alghe scure, e quella sabbia, macchiata da cenere e pece, da quelli che ricordava. Il cielo sopra di lei era innaturalmente scuro e plumbeo, non limpido e azzurro come uno specchio del mare stesso, l’aria fresca ricca di salsedine sostituita da un sottile ma persistente fetore. Il mare di quel momento presente sembrava voler sottolineare in ogni modo la sua differenza con quello esistente nella memoria di lei.

Voglio credere che la vita sia / Come un unico fiume che scorre / Perché se non è questo / è allora un insieme di cose / perdute per sempre, / divorate da un mostro invincibile. / Il nome del mostro è il nome del tempo.

Erano versi che sua madre recitava spesso. Più che una poesia, era un manifesto di pensiero, un credo di un mondo che non era più, una civiltà che ora esisteva nello studio di chi, come sua madre, voleva rivivere un’epoca perduta. Poi si girò sulla battigia e vide l’individuo sedutole accanto sulla sabbia, a pochi passi dalle onde.

«Siete sveglia».

Jen aveva visto molti elfi ma nessuno le poteva piacere meno di quello. Era coperto di foglie secche e vesti lacere e aveva una strana espressione concentrata, come di un animale a caccia. Le ricordò le storie che udiva da piccola, di cacciatori che braccando le stesse prede per mesi nella foresta, pensando come loro e condividendo le loro abitudini, diventavano bestie essi stessi, storie terrificanti, di uomini snaturati e maledetti, e Jen non dubitava – seppur dopo appena uno sguardo – che quell’elfo venisse da una vita, da una storia, molto simile.

«State bene?»

L’apparente cortesia non bastò a cancellare quell’impressione ferina che dava. Non era sinceramente preoccupato per lei, ne era certa. Balzò a sedere e si allontanò da lui spingendo con i piedi sulla sabbia.

«I-io mi… mi chiamo Jen. Molto lieta».

«Non risponde alla domanda» disse con un sorriso comprensivo, che tuttavia era assolutamente falso «tuttavia mi presenterò anch’io, a questo punto. Il mio nome è Valadwen Yun Valiel, sono un ramingo al servizio della Regina Elfica di Evalunith».

«Evalunith? Quella… Evalunith?» chiese Jen sgranando gli occhi.

«L’unica e sola» il sorriso innaturale sembrò cristallizzarsi sul suo volto e non se ne andò più.

«Evalunith…»

Jen aveva sentito molte volte parlare di Evalunith, una delle più grandi città elfiche al mondo. Tra tutte, però, era la più difficile da raggiungere perché si diceva che fosse nascosta nelle foreste sulle montagne oltre il Lago Kalst, resa invisibile agli occhi umani grazie alla magia dei druidi. Tuttavia, capitava che qualche viandante smarrito vi arrivasse comunque, per caso, per tornare raccontando trasognato le meraviglie della dimora degli elfi della Luna, la città dai colori di platino e perla. Proprio lei, con Yul, aveva ascoltato le storie incantate di una compagnia di girovaghi che sosteneva di esserci stata per addirittura una settimana. Era un luogo di fiaba, bello e irraggiungibile e confortante come un sogno. Era strano pensare che quel tipo inquietante venisse da lì.

«Sei… nato… ad Evalunith?» desiderò subito di non averlo detto ma i pensieri le erano usciti di bocca troppo in fretta.

L’espressione dell’elfo mutò per una frazione di secondo appena ma poi tornò subito sorridente prima che Jen potesse leggervi qualche emozione precisa: «Strana domanda per iniziare una conoscenza. No, signorina, io sono nato a Valadwen, patria degli elfi d’autunno. Mai sentita?»

«Ehm… no… era solo curiosità, comunque».

Valiel non accennava a dismettere quella insopportabile espressione condiscendente e ipocrita: «Bene! Malgrado il nome, c’è ben poco da sapere su un posto come quello. Al contrario di questo luogo, purtroppo».

Jen si guardò intorno, osservando la sabbia sporca e il mare fetido. Oltre la spiaggia si apriva un bayou innaturalmente contorto e fitto, intrappolati tra la vegetazione e il fango potevano vedersi rifiuti, scarti e relitti dalle forme ormai indistinguibili. Ancora oltre il bayou, svettava contro il cielo scuro una massa di edifici in rovina dai tetti divelti e i muri crepati che, data l’altezza e la maestosità, dovevano aver composto in passato una città grande e gloriosa.

«Dove… ci troviamo?»

«Morbane, l’isola a metà tra il Contine Rubato e l’Astermagna».

«Continente Rubato…?»

«Gomorroindra. Mai sentito?»

«Gomo …»

«Lascia perdere».

«E di quale isola parli?»

«Morbane, come ho detto» ribadì dondolando la testa come chi vuol dire: “Purtroppo è proprio così”.

Jen comprese che la spiegazione avrebbe dovuto dirle qualcosa ma non era così. L’Astermagna, ovviamente, era il continente dove i Sei Regni dimoravano: Mohtam, Nanad, Nistria, Nadorhai, Rah e il Draile dov’era nata e cresciuta. Ad est di questa vi era la Nerimkora, le Sabbie Cieche, da cui venivano gli orchi; a nord-ovest si trovava l’ “Imperiale Bianco”: Keiserbana, terra innevata di villaggi sparuti e delle grandi città sotterranee dei nani. E poi… nient’altro. Non si parlava mai di altri continenti, anche se non aveva mai visto o cercato una vera mappa del mondo. Nessuno le aveva mai detto espressamente: “Non c’è altro” ma nessuno aveva mai nominato altre terre.

«Gomorroindra … il Continente Rubato?»

Valiel fissò Jen per qualche secondo, poi disse solo: «Comunque, non importa» e aggiunse dopo una breve pausa «Incamminiamoci».

«I-incamminiamoci? E verso dove?»

***

Sosha si affacciò dal balcone incrostato del pulviscolo nero che si era stratificato su quello che un tempo era il palazzo del Municipio, osservando la città sotto di lui. Le ciminiere delle vecchie fabbriche, ormai adibite semplicemente a giganteschi falò, continuavano ad affumicare chi aveva voluto dimorare negli alloggi più alti – questi erano i cittadini più sfigurati e deformi, talmente ripugnanti alla vista persino per gli standard della sua gente che preferivano vivere reclusi, lontani dai bassifondi. I rioni stretti e bui erano invasi dai pochi averi dei cittadini che vi stendevano panni, sistemavano divani, cuocevano carne, scaricavano spazzatura.

«Quale dunque il bilancio questo mese, dopo il carico dall’Astermagna?»

L’uomo che si era trascinato nella sua stanza sulle stampelle – non aveva gambe – alzò il capo da terra e disse: «Sire, la percentuale di storpi e invalidi è scesa, invece aumenta quella di appestati e contagiati. Principalmente li scaricano dalla Nistria e dal Nanad così da tenerli lontani dai loro amati, sanissimi, perfetti pargoli».

Sosha rifletté appena un attimo: «Un cambiamento piuttosto netto. Mi domando cosa lo cagioni».

«Posso rispondervi, sire. C’è una nuova forma di pestilenza in Astermagna. La Chiesa della Dea va sforzandosi di nasconderla. Chi non può essere curato… è invitato ad andarsene»

«E ci riempiono di piagati. È un bene questo: i malati contagiosi scoraggiano gli indesiderati».

Era un ottimo deterrente per chi voleva tentare un assalto militare o anche solo una scorreria. Arrivavano parecchi gruppi, chi per soddisfare la propria ipocrita sete di pietà e chi per sfruttare la loro miseria o anche per corrompere l’onesta anarchia delle loro vite con leggi ingannevoli spacciate per soluzioni salvifiche a tutti i loro problemi, venivano e dovevano essere ricacciati indietro. Con la forza non sarebbe stato possibile, con la ripugnanza invece era fin troppo facile. Morbane, il regno-discarica, non temeva alcun esercito.

«Altro?»

«I ratti sono più grossi e feroci dell’anno precedente ed è un bene anche questo: da qualche mese la carne non è più un lusso per i pochi fortunati che catturano qualche bestia senza nome nel bayou».

«Me ne rallegro. Il popolo deve pur mangiare».

Sosha alzò lo sguardo oltre le ultime case consunte: le guardie di Morbane, i suoi fidi monatti, perlustravano le strade, completamente coperti di tuniche stracciate e da maschere dal lungo naso – queste finalizzate a purificare il più possibile l’aria che respiravano – e, grazie ad un cargo di robivecchi giunto quasi due anni prima, giravano meglio armati di un tempo: mannaie sbeccate, pale consunte, forconi e rastrelli erano gli strumenti più in voga per mantenere il minimo di ordine necessario nelle strade. Come trentottesimo Re di Morbane, sotto il suo regno tutto andava decisamente meglio di quanto chiunque potesse ricordare.

«E dell’imbarcazione elfica che si è arenata ieri notte, che mi sai dire?»

***

«L’ho detto e lo ripeto» spiegò gentilmente Valiel «non vogliamo niente dal Re se non un mezzo per lasciare la vostra isola».

La città di Morbane era per Jen come un incubo ad occhi aperti. Sembrava che non ci fosse assolutamente niente che non fosse corrotto o marcescente, muschiato per l’umidità o annerito per gli scarichi tossici. Non aveva visto una sola persona in salute, solo mendicanti, barboni e derelitti afflitti dalle più varie malattie, qualcuno lo era al punto da non poterlo più paragonare ad un essere umano o umanoide. Anche le guardie con cui Valiel si sforzava di comunicare dovevano essere ritardate o addirittura sorde.

«La mia imbarcazione si è rotta. Non mento, è la verità. Se trovassimo un altro modo di andarcene, ce ne andremmo subito».

Non ricevette alcun tipo di reazione dalle guardie stranamente abbigliate.

«Signor Valiel… andiamo via».

Si pentì subito di averlo suggerito: il bayou, un ammasso fetido di spazzatura, acqua, funghi e vegetazione, era stato molto più spaventoso in pochi minuti di traversata di quanto la città potesse mai essere. Dopotutto là abitavano esseri umani, mentre le cose curve simili a blatte che si aggiravano nel bayou non avrebbe nemmeno saputo con che nome chiamarle. Ma a giudicare dalla reazione della gente, lei e l’elfo con la loro sanità fisica erano non meno ripugnanti per i morbaniani di quanto non fosse il contrario.

«Dato che non mi lasciate altra scelta, chiedo formalmente udienza al Re Sosha».

Non accennarono a spostarsi dall’arco di pietra erosa che avrebbe permesso loro di passare dal bayou al quartiere esterno della città. Per strano che potesse sembrare, erano loro a non volere Jen e Valiel, come se potessero contaminarli con qualcosa di molto peggio di ciò che già consumava quella enorme città un tempo magnifica. Valiel si appoggiò pigramente ad una colonna spezzata, conficcata nella terra umida.

«Perché non ci vogliono nemmeno parlare?» domandò Jen.

«Il mondo preferisce non pensare all’esistenza di Morbane. E quindi Morbane rifiuta questo mondo tanto quanto si sente rifiutata. È persino legittimo in un certo senso».

«Non capisco… cos’è questo luogo? Cos’è successo qui?»

La maschera dell’elfo si incrinò, svelando un sorriso amareggiato: «Non sai nemmeno questo? Cinquecento anni fa, dopo la Grande Guerra, gli abitanti di questo piccolo regno si ammalarono di una piaga sconosciuta; ma non vollero abbandonare la loro terra, perché la amavano, anche se pare che proprio maltrattare la terra abbia scatenato la piaga. Allora, poiché erano così vicini al Continente Rubato, i signori degli uomini decisero ciò che pareva loro meglio: usare questo regno come discarica per tutti gli umani che altrove non fossero desiderati. Era un regno piccolo e indifeso che non accettava la sottomissione ma non valeva la pena di una conquista, quindi era perfetto per questo scopo».

«Indesiderati? Perché mai dovrebbero esistere persone che nessuno vuole?»

Valiel guardò verso l’alto, scuro in viso: «Vorrei sapere la risposta. Forse gli umani non vogliono pensare alla loro morte, alla fragilità e vulnerabilità della vita. Perciò allontanano chi gliela ricorda. Del resto, presto i nani e gli elfi hanno iniziato anche loro a mandare la gente in quarantena qui a Morbane. Forse le specie civilizzate sono capaci, e solo loro, di infliggere certe crudeltà ai propri simili. Anzi, forse sta nella crudeltà il senso stesso della cosiddetta civiltà».

Jen si appoggiò anche lei, stancamente, alla stessa colonna e si lasciò cadere a sedere su una roccia circondata da funghi minuscoli che si affollavano intorno ad essa.

«Lei mi sembra triste. Arrabbiato e triste».

L’elfo rimise immediatamente su quell’espressione di cortesia insincera che la spaventava: «Oh, non si preoccupi per me».

Jen rifletté: che senso aveva mantenere segreti, a quel punto? Non sapeva dove si trovava, né cosa stava succedendo. Non sapeva che fine avesse fatto Ed, né perché Ed ci tenesse tanto ad essere accompagnata alle Isole Ranaluta da lei. Né, d’altro canto, lei aveva rivelato tutto ad Ed. E se Ed era morta o scomparsa, il suo unico obiettivo doveva essere tornare nel Draile, alla sua fattoria. Che arma aveva se non l’onesta, aperta richiesta di aiuto?

«Signor Valiel…»

«Va bene solo Valiel».

«Valiel, allora. Posso capire perché vuoi lasciare questo luogo. Ma perché vuoi lasciarlo insieme a me? Perché non mi hai lasciato in spiaggia dopo avermi raccolto in mare?»

Valiel non rispose subito. Jen ebbe l’impressione che stesse valutando anche lui se essere sincero o meno.

«Sto seguendo la nana che accompagnavi, la forgiatrice. Per ordine della mia regina, dovrei scoprire cos’è successo alla Forgia del Lago Kalst settimane fa e che ruolo aveva lei. E soprattutto chi le dà la caccia e perché, perché il fatto che qualcuno la stia braccando è fuori discussione e possiamo dire per certo che è qualcuno di pericoloso».

Jen rabbrividì rimettendo a fuoco come era arrivata lì: la nave che andava in pezzi, i marinai in fuga… tutto scaturito dall’apparizione di un singolo individuo, di quello sconclusionato nano in giallo… lo scontro di incredibili poteri tra lei e Ed, che sembravano modellare la materia con una naturalezza per lei incomprensibile. Ed sconfitta… il naufragio.

«Insomma, devo solo farle delle domande. Non hai ragione di preoccuparti per lei, almeno non per causa mia».

Era un’altra menzogna, Jen lo avvertiva distintamente, ma si preoccupò di precisare: «Non è mia amica».

C’era cascata: Valiel aveva aspettato proprio il momento per porre quella domanda: «Allora perché la seguivi?»

Desiderò di essersi morsa la lingua: «Perché… bè, lei… aveva salvato i miei fratelli da alcuni… golem, si chiamano così, no? E allora per sdebitarmi le vado dietro per… per servirla».

«Non siete sincera» insistette pacatamente l’elfo, calcando ancora di più la nota di gentilezza forzata per nascondere l’impazienza «Cosa mai potreste fare voi per una apprendista forgiatrice di quel talento? Dev’essere qualcosa di preciso, di specifico».

«Vi sbagliate! Io…»

«E comunque» interruppe lui «non è stata lei a salvare i suoi fratelli, ma io, anche se forse non lo crederete».

Jen ripensò alle parole di Ed, così inusuali per una spaccona come lei: «Non so come ho fatto…»

«Invece vi credo» ammise dopo qualche secondo «È stata proprio lei ad ammettere che qualcun altro aveva distrutto il golem e non lei… suppongo quindi che dovrei ringraziarvi».

«Non dovete affatto, l’ho fatto solo perché era il mio dovere come ramingo e per il rispetto del Trattato dei Popoli. E per la stessa ragione vorrei comprendere appieno cosa succede. Chi è questa ragazza? Perché fugge? E perché fugge con voi?» più calmo e apparentemente casuale era il suo tono, peggiore era l’effetto che le faceva.

Sbottò: «Kalaston! Vi dirò tutto, tutto quello che so» esclamò, stavolta mentendo lei «Fatemi solo tornare a Kalaston! Dalla mia famiglia!» si pose esattamente davanti a lui «Io non c’entro niente con questa storia, ne so poco e vorrei saperne ancora meno. Voglio solo dimenticarmela».

Di nuovo, l’elfo sorrideva in modo strano, colmo di tristezza e rabbia invisibili ma al contempo impossibili da non notare.

«Credetemi, c’entro meno di voi».

***

Sosha bevve una coppa di vino inacidito prima di mettersi in bocca una radice cotta male per masticarla con un certo sforzo. Quando fu ridotta ad una poltiglia fibrosa e ostinata, dal quale aveva succhiato via ogni sapore, la sputò sotto il tavolaccio di legno. Subito accorse qualche sorta di piccolo roditore arboricolo che gli si era infilato in casa da qualche finestra, rubò il bolo masticato e fuggì mentre il Re di Morbane gli calciava contro una coppa sbeccata, finita a terra. Malgrado l’oggettiva scomodità della sua sala da pranzo, provava solo e soltanto disgusto e rabbia per i Re dei Sei Regni, che si diceva vivessero una vita niente affatto paragonabile a quella dei loro sudditi: che razza di regnanti erano, se non conoscevano la vita della loro gente? Lui, invece, era appartenuto a Morbane sin dal suo primo ricordo ed era cresciuto in essa e ne era fiero. La miseria dei suoi sudditi e la sua si compenetravano a vicenda, erano parte di un’unica trama.

«Sire» sibilò un monatto che gli era strisciato accanto mentre lui osservava l’animaletto dileguarsi.

 «Parla pure» concesse, con la voce roca per il catarro.

«Dalle porte a sud est una ragazza umana ed un elfo hanno chiesto di entrare. Vorrebbero comprare una barca, credo, per lasciare l’isola».

«Nulla si compra a Morbane. Le cose si trovano, si raccattano o si elemosinano. È una delle Tredici Leggi, non devo certo ricordartelo».

«Perdonatemi, Re Sosha. Non ho espressamente sottolineato che questi due non sono dei nostri».

«Come?» il giovane monarca sgranò gli occhi. Trangugiò dell’altro vino prima di alzarsi dal pavimento dov’era seduto, rovesciando senza curarsene il tavolo malamente arrangiato con dei mattoni e tavole di legno tarlato. Il vino e le radici caddero spargendosi a terra e per buona misura Sosha lasciò volontariamente che la coppa gli cadesse dalla mano, sulla macchia di sporco che si andava allargando.

«Sono forse dei reietti arrivati qui per conto loro?»

«Sono perfettamente sani, sire. Non appartengono a noi, in nessun senso possibile».

La parola sani fece sussultare Sosha: «Gente sana nella nostra terra non può volere niente di buono. Devono essere giunti con la barca elfica».

Rovesciò l’ammasso di pelli e stracci che gli faceva da letto e trovò sotto questo, nascosta in un buco del pavimento, la sua arma personale, simbolo del Re di Morbane.

«Li riceverò. Conducili alla mia corte».

 

***

Jen attraversò l’intera città di Morbane cercando di non vedere, né sentire, né odorare alcunché. Ma arrivata alla Sala del Trono di Re Sosha si confuse e suo malgrado non riuscì a celarlo. Persino Valiel si guardò intorno, meravigliato. La sala doveva essere stata, un tempo, un giardino rettangolare – ora integralmente ricoperto da rifiuti e cianfrusaglie – sul cui fondo stava il trono. Ai lati stavano giganteschi alberi morti, i cui rami si annodavano incessantemente su sé stessi come avessero tentato di sfuggire alla morte; i tronchi avevano ricevuto, per mano di abili scultori, un lavoro certosino che aveva intarsiato nei loro tronchi le figure di re e regine del passato, la cui perfezione era però odiata dagli attuali abitanti, che avevano quindi sfregiato con tagli grossolani ma profondi, grossi chiodi e bruciature ciascuna singola figura, maschile e femminile: ora i monumenti dei grandi re erano sfregiati e deformati non meno dei sudditi che vivevano nel presente. Sul fondo stava il trono, anch’esso scolpito in un tronco nodoso, depredato di ogni singola gemma e di ogni grammo d’oro e sfregiato anch’esso, non ne era rimasto che lo scheletro. Sotto ogni albero stavano in attesa delle figure integralmente incappucciate i cui volti erano perlopiù bendati: dovevano essere i cortigiani di Sosha.

«Ehm… salve…» disse nervosamente ma il trono era vuoto.

Entrò, barcollando come un ubriaco, un giovane uomo con qualcosa di lungo e pesante appoggiato su una spalla. Aveva lunghi capelli acconciati in treccine e una barba tagliata irregolarmente, gli occhi truccati di nero e il fisico scavato, la pelle butterata da chissà quante piaghe. Dai lineamenti, si capiva che doveva essere stato un bel ragazzo, pensò Jen, e come spesso accade la commistione di bellezza e sofferenza le mise addosso la voglia di stringerlo, di consolarlo, quasi di salvarlo. Ma le passò subito: negli occhi di quel ragazzo, per loro, c’era solo uno sdegno troppo forte e radicato per poterlo dissimulare. Sedette sul trono e con un gesto plateale mostrò a tutti l’oggetto che portava: era una spada spezzata, tanto che ne mancava metà, la quale era stata evidentemente ricavata da un blocco di roccia grezzamente scolpito e non dalla fusione di un metallo; una catena partiva dal pomello e si legava attorno a tutto il suo avambraccio, legando indissolubilmente la spada e l’uomo. Sebbene la scritta rossa sulla lama fosse illeggibile, quando fece rintoccare l’arma contro il pavimento la reazione intimorita dei cortigiani fugò ogni dubbio su cosa rappresentasse quell’oggetto: rappresentava la regalità a Morbane.

«Cosa volete da noi, cari amici dall’Astermagna?» chiese colmo di sarcasmo il giovane monarca, senza salutarli; la conversazione non si apriva certo nel migliore dei modi.

Nessuno dei cortigiani si mosse più, erano concentrati con ogni fibra sulle parole del loro monarca. Jen notò che i tetti che circondavano il giardino, definendone i confini, si affollavano di quelle strane guardie mascherate col becco che aveva visto in giro per la città. I viaggiatori non dovevano essere all’ordine del giorno, a Morbane.

«Una nave, sire, solo una nave» rispose Valiel, deferente «o un qualsiasi altro mezzo per tornare in Astermagna e liberarvi dal mortificante disturbo della nostra presenza».

Jen intuì subito che l’enfasi con cui Valiel si piegò in ginocchio non era frutto di un suo personale capriccio e si inginocchiò immediatamente anche lei, tanto quasi da toccare il pavimento sudicio con la fronte.

«Bene» commentò Sosha, mostrando i denti consunti in un sorriso malevolo «sono lieto di vedere che sapete stare al vostro posto».

Valiel non alzò la testa neppure di un millimetro. Jen faceva quasi fatica a guardarlo, da quella posizione esageratamente prostrata. Re Sosha rifletté per un po’.

«Che fareste, comunque, con una nave? Non vorrete certo salpare verso l’Oceano del Blu Maggiore per raggiungere il Continente Rubato, no?»

«Chi viaggia nelle terre infestate dal Chimaer è un pericolo per sé stesso e per gli altri. No, maestà, non abbiamo alcun affare in quelle terre e mai l’avremo».

Il Chimaer, aveva detto Valiel, e per la seconda volta quel giorno Jen si ritrovò a pensare alle parole di Ed e alla creatura luminescente che le aveva aggredite nella grotta; anche Ed aveva parlato del Chimaer, ricordava bene. Ma cos’era il Chimaer, se non una delle molte minacce incomprensibili, da cui la Chiesa metteva in guardia i fedeli in maniera vaga?

«Sarà meglio. Non si torna dal Continente Rubato. Non si sfugge al Chimaer che domina quelle terre».

Eppure, c’era sempre qualcuno che sembrava saperne più di lei e di qualsiasi compaesano con cui avesse mai parlato e quel pensiero non le piacque per niente. Jen era cresciuta pensando di possedere qualcosa di unico e prezioso: nascondendo un segreto, una conoscenza che non doveva essere condivisa con il resto del mondo. Invece, dal giorno dell’incidente, sembrava che chiunque sapesse qualcosa di più di lei sul mondo e sulle sue regole. Si faceva strada in lei l’impressione che chi, come la sua famiglia, si occupava della terra e del lavoro, vivesse in una specie di realtà fittizia da cui tutta una serie di concetti erano stati rimossi, censurati, nascosti alla coscienza comune. Spesso suo padre lamentava che non erano le persone come loro a decidere il corso della storia, che altri decidevano nell’ombra sulla loro pelle. Perché non avrebbero dovuto anche decidere cosa sapevano e non sapevano le persone come Jen? Strinse i pugni per la rabbia e con l’idea che il vero saggio, in famiglia, fosse stato sempre e solo suo padre. Si sentì ignorante e impotente.

La voce di Re Sosha la riportò al presente: «In ogni caso, non permetterò a due sprovveduti del continente di venire qui a fare i propri comodi ed andarsene. Ho pensato giusto ad un modo per trattarvi come meritate».

«Sire?» chiese Valiel con tono supplichevole ma Jen colse una sfumatura strana nella sua voce; in qualche modo fu certa che, nel caso le cose degenerassero, Valiel era preparato – e assolutamente disposto –  a ricorrere alla violenza: anche lui stringeva i pugni, la tensione nel suo corpo saliva. Jen avrebbe dato qualsiasi cosa per essere in un altro posto.

«Voi continentali avete la cosiddetta legge del mercato. “Niente in cambio di niente”, giusto? Ebbene, anche voi avrete quanto chiedete: arriverà presto un carico di scarti al porto e potrete andare via con quella nave quando ripartirà. Ma avrete questo solo in cambio di qualcos’altro. Un piccolo servizio».

«A vostra disposizione, sire».

Il tono di Re Sosha cambiò leggermente, si colorò quasi di una nota allusiva: «Sotto le fondamenta della città vive un mostro. Una creatura abominevole la cui sola esistenza minaccia le nostre».

Jen avvertì il fremito nei cortigiani di Sosha. Qualcosa nelle sue parole doveva sembrargli stimolante o addirittura divertente.

«Una creatura troppo potente per le mie guardie, siamo tutti malati o mutilati, del resto. Ma forse un ramingo elfico avrebbe qualche possibilità in più. E quindi vi chiedo…»

«…di uccidere ciò che dimora nelle fondamenta della città» concluse Valiel, con una punta di noia.

***

La spada spezzata fu ricongiunta all’altro frammento, che trapassava una incudine ottagonale. Sosha impresse molta forza per farla girare e presto venne soccorso da due monatti che lo aiutarono nella torsione. Le misteriose incisioni sulla lama rozzamente scolpita si illuminarono di un rosso violaceo per un attimo, quindi l’incudine girò. Ciascuna delle mattonelle a spicchio che circondavano l’incudine sprofondò verso il basso, ognuna fermandosi ad una diversa altezza. In pochi secondi la saletta circolare si era trasformata in una scala a chiocciola che scendeva ripida verso il sottosuolo. Il sovrano di Morbane guardò l’elfo e la ragazza con aria di sfida.

«Una serratura nanica» osservò Valiel «può essere preoccupante, credo».

Iniziò immediatamente la discesa e Jen non ci pensò un attimo a seguirlo. Appena li vide sparire Sosha spezzò di nuovo la spada, che smise di splendere. Gli scalini si ricomposero nuovamente in un unico disco di pietra e così l’apertura fu di nuovo sigillata. Uno dei suoi cortigiani si avvicinò strisciando sulle ginocchia e volse l’occhio, l’unica cosa che le bende avevano lasciato libera, verso il suo re, mentre gli altri si disperdevano.

«Sire… siete sicuro che non faranno ritorno?»

«Non c’è nulla che sia sicuro. Se faranno ritorno, data la difficoltà dell’impresa, ne prenderò atto e arrangerò il loro imbarco».

«Ma la cosa che dimora laggiù non può certo essere uccisa con semplici armi. Che senso ha questa prova?»

Sosha sogghignò: «C’è una ragione per cui questo è da sempre il castigo che riserviamo ai viaggiatori del continente. La conosci?»

L’uomo deforme scosse la testa bendata. Camminarono per un po’ lasciando la saletta, l’uomo inseguiva il suo Re e le sue risposte.

«Non so come quell’essere sia finito laggiù e nemmeno so se davvero un giorno ne verrà fuori. Neanche so come i miei antenati l’abbiano rinchiuso e neppure mi interessa. Ma ecco cosa so: Morbane è un luogo che il mondo non vuol vedere, che non vuole ammettere che esista. Per uno scherzo del destino, la cosa che dimora sotto di noi è anch’essa una esistenza che il mondo non accetta. Ecco perché infligge il castigo ideale a chi ci rifiuta».

Re Sosha sorrise, mentre i monatti si facevano di lato per lasciarlo tornare alle sale del palazzo reale, ormai invase da muschio e funghi e infestate da giganteschi coleotteri brulicanti, che si cibavano di sporco incuranti degli umani che passavano loro vicino.

«Ma!» fece il cortigiano, incuriosito, venendogli dietro «Di che verità si tratta, mio signore?»

«Non posso saperlo per certo» ridacchiò il re «ma in fondo Morbane rappresenta la prima verità a cui nessun uomo debole di mente può pensare: la verità della morte. C’è solo un’altra verità che terrorizzi altrettanto».

Sosha alzò un dito verso l’alto, con un gesto plateale. Il cortigiano diresse l’occhio verso la volta della sala dov’erano appena entrati. I muri erano tappezzati dai rozzi graffiti che i primi signori di Morbane a contrarre la malattia avevano disegnato. Erano disegni privi di senso, evocativi di qualcosa di indefinito legato al sesso, alla violenza, all’infermità. Si accavallavano tra loro fino a formare un unico inquietante murale: la manifestazione visibile dei loro incubi, delle loro menti che si sbriciolavano sotto i colpi del male sconosciuto che li devastava, terrorizzandoli.

«La follia. Ecco l’unica paura che può competere con la morte. La verità dell’assenza di qualsiasi verità. Mi capisci?»

L’uomo abbassò la testa, come fosse mortificato. Diversi tra i cortigiani di Sosha un tempo erano stati filosofi e sapienti di altri paesi, lui invece era stato un giudice. Ciò a cui ambiva era comprendere l’essenza di quel castigo che era l’estrema punizione a Morbane ma non riusciva ad afferrarla. Né riusciva a capire cosa venisse effettivamente punito, se non l’incapacità di sopportare una verità insopportabile. Ma quale?

«Non comprendo, sire, mi spiace» ammise infine.

«Mettiamola così» spiegò Re Sosha portandosi la spada spezzata sulla spalla «se usciranno vivi da lì, non vedo ragione di punirli. Ma io non credo che la cosa che dimora laggiù abbia mai ucciso qualcuno. Credo piuttosto che chiunque l’abbia vista si sia tolto la vita».

 

   
 
Leggi le 0 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Fantasy / Vai alla pagina dell'autore: Leo_Zanardi