7. MORBANE
Il
piccolo regno di Morbane rifiutò i Sei Re e
l’unica
Chiesa e come volse le spalle alla Dea, così a Dea le
voltò ai suoi abitanti e
certo essi pagarono per ciò un alto prezzo.
– da
“Cronistoria del Concordato dei Sette”
Suo padre guidava il carretto
sulla strada sterrata con mano sicura ma le arance che sobbalzavano
nelle
cassette di legno la preoccupavano, lui sembrava convinto di poterle
tenere a
posto col pensiero mentre lei era sicura che si sarebbero rovesciate in
strada.
Sua madre, davanti a loro, leggeva uno di quei libri con quelle
meravigliose
copertine piene di immagini variopinte che forse erano simboli, forse
disegni,
lei non riusciva mai a distinguerlo.
«Sarà una vera
svolta, una vera
svolta per questa famiglia».
Nessuno di loro, né lei
né sua
madre, né Lor né Yul, gli diede retta –
ma gli ultimi due, appena tre anni a
testa, erano giustificati – eppure sua madre gli rivolse
comunque un accenno di
sorriso condiscendente. Ma suo padre, cresciuto nei campi, sebbene
incolto era
tutt’altro che stupido: reagì con una smorfia di
disappunto che non tentava di
celare la stizza. Sentiva di non avere il dovuto riconoscimento.
«Se non avessimo grano e
arance e
miele e latte, di cosa vivremmo? Ci pensate mai, voi là
dietro?»
Lo disse appena sottovoce ma sua
madre lo sentì. Jen non capiva mai se fosse per autentica
comprensione o
piuttosto per pietà ma anche in questo caso chiuse il libro
e lo guardò con
qualcosa nello sguardo in cui suo padre seppe, o forse volle, leggere
delle
scuse.
«Sono sicuro che
apprezzeranno i
nostri prodotti, amore mio».
«Certo che lo faranno. E
se
inizieremo a vendere a Tuinsy, la nostra vita cambierà!
Diventeremo… bé, non
ricchi… ma meno poveri» ribadì con uno
sforzo di incondivisibile ottimismo
agitando l’indice.
Di nuovo, Jen non seppe decidere
se era fiducia o condiscendenza quella che sua madre rivolse al padre
con il
suo gesto di assenso, fatto sta che tornò subito a
concentrarsi sul suo volume.
Jen amava e odiava quei misteriosi oggetti che erano i libri della
madre, come
finestre su un mondo totalmente diverso da quello del resto della
famiglia,
dalla loro realtà fatta di noia, abitudine, fatica e
sacrificio. Cosa facevano
quelle pagine a sua madre? La conducevano in un posto migliore di
quello o
piuttosto la risucchiavano via dalla vita vera? E cosa facevano, cosa
avrebbero
potuto fare, a lei? Cosa custodivano quegli intrecci di parole e colori
e
forme, un dono o una maledizione?
«Ci fermiamo!»
disse suo padre di
botto e com’era sua abitudine agì prima di
apprendere cosa ne pensavano gli
altri.
«Perché,
papà?» chiese Jen.
Suo padre fece un cenno alla loro
destra e lei, Lor e Yul rimasero tutti e tre a bocca aperta.
C’era, oltre una
barriera di canne, una striscia di terra chiara e fine mai vista prima
e subito
dopo più acqua di quanta ne avessero mai visto assieme,
acqua a perdita
d’occhio, una distesa liquida e scintillante sotto il sole
tiepido dei mattini
del Draile.
«Non si va a Tuinsy senza
vedere
il mare» spiegò suo padre «e voi non lo
avete mai visto. Facciamo un bel bagno,
ragazzi!»
«Arriveremo tardi per
l’esposizione, papà…» disse
Jen, preoccupata.
«Anche questo
è importante.
Andate a farvi il bagno e basta».
Cercò lo sguardo di sua
madre.
Questo si staccò giusto un attimo dalle pagine e le fece
comprendere che doveva
obbedire, poi tornò immediatamente alla lettura. Jen prese
per mano Lor e Yul
per invitarli a scendere dal carretto, poi corsero tutti e tre verso
l’acqua.
Fu il primo momento della sua vita in cui sentì il tocco
della sabbia e del
mare.
***
Dal suo primo istante di
coscienza, Jen concentrò ognuno dei suoi cinque sensi nel
capire dove si
trovasse. C’era la sabbia e c’era il mare. Ma
c’era anche qualcosa che
rimarcava quanto diversi fossero quel mare, infestato di alghe scure, e
quella
sabbia, macchiata da cenere e pece, da quelli che ricordava. Il cielo
sopra di
lei era innaturalmente scuro e plumbeo, non limpido e azzurro come uno
specchio
del mare stesso, l’aria fresca ricca di salsedine sostituita
da un sottile ma
persistente fetore. Il mare di quel momento presente sembrava voler
sottolineare in ogni modo la sua differenza con quello esistente nella
memoria
di lei.
Voglio credere che la vita sia /
Come un unico fiume che scorre / Perché se non è
questo / è allora un insieme
di cose / perdute per sempre, / divorate da un mostro invincibile. / Il
nome
del mostro è il nome del tempo.
Erano versi che sua madre
recitava spesso. Più che una poesia, era un manifesto di
pensiero, un credo di
un mondo che non era più, una civiltà che ora
esisteva nello studio di chi,
come sua madre, voleva rivivere un’epoca perduta. Poi si
girò sulla battigia e
vide l’individuo sedutole accanto sulla sabbia, a pochi passi
dalle onde.
«Siete sveglia».
Jen aveva visto molti elfi ma
nessuno le poteva piacere meno di quello. Era coperto di foglie secche
e vesti
lacere e aveva una strana espressione concentrata, come di un animale a
caccia.
Le ricordò le storie che udiva da piccola, di cacciatori che
braccando le
stesse prede per mesi nella foresta, pensando come loro e condividendo
le loro
abitudini, diventavano bestie essi stessi, storie terrificanti, di
uomini
snaturati e maledetti, e Jen non dubitava – seppur dopo
appena uno sguardo –
che quell’elfo venisse da una vita, da una storia, molto
simile.
«State bene?»
L’apparente cortesia non
bastò a
cancellare quell’impressione ferina che dava. Non era sinceramente preoccupato per lei, ne era
certa. Balzò a sedere e si
allontanò da lui spingendo con i piedi sulla sabbia.
«I-io mi… mi
chiamo Jen. Molto
lieta».
«Non risponde alla
domanda» disse
con un sorriso comprensivo, che tuttavia era assolutamente falso
«tuttavia mi
presenterò anch’io, a questo punto. Il mio nome
è Valadwen Yun Valiel, sono un
ramingo al servizio della Regina Elfica di Evalunith».
«Evalunith?
Quella… Evalunith?»
chiese Jen sgranando gli occhi.
«L’unica e
sola» il sorriso
innaturale sembrò cristallizzarsi sul suo volto e non se ne
andò più.
«Evalunith…»
Jen aveva sentito molte volte
parlare di Evalunith, una delle più grandi città
elfiche al mondo. Tra tutte,
però, era la più difficile da raggiungere
perché si diceva che fosse nascosta
nelle foreste sulle montagne oltre il Lago Kalst, resa invisibile agli
occhi
umani grazie alla magia dei druidi. Tuttavia, capitava che qualche
viandante
smarrito vi arrivasse comunque, per caso, per tornare raccontando
trasognato le
meraviglie della dimora degli elfi della Luna, la città dai
colori di platino e
perla. Proprio lei, con Yul, aveva ascoltato le storie incantate di una
compagnia di girovaghi che sosteneva di esserci stata per addirittura
una
settimana. Era un luogo di fiaba, bello e irraggiungibile e confortante
come un
sogno. Era strano pensare che quel tipo inquietante venisse da
lì.
«Sei…
nato… ad Evalunith?»
desiderò subito di non averlo detto ma i pensieri le erano
usciti di bocca
troppo in fretta.
L’espressione
dell’elfo mutò per
una frazione di secondo appena ma poi tornò subito
sorridente prima che Jen
potesse leggervi qualche emozione precisa: «Strana domanda
per iniziare una
conoscenza. No, signorina, io sono nato a Valadwen, patria degli elfi
d’autunno. Mai sentita?»
«Ehm…
no… era solo curiosità,
comunque».
Valiel non accennava a dismettere
quella insopportabile espressione condiscendente e ipocrita:
«Bene! Malgrado il
nome, c’è ben poco da sapere su un posto come
quello. Al contrario di questo
luogo, purtroppo».
Jen si guardò intorno,
osservando
la sabbia sporca e il mare fetido. Oltre la spiaggia si apriva un bayou
innaturalmente contorto e fitto, intrappolati tra la vegetazione e il
fango
potevano vedersi rifiuti, scarti e relitti dalle forme ormai
indistinguibili.
Ancora oltre il bayou, svettava contro il cielo scuro una massa di
edifici in
rovina dai tetti divelti e i muri crepati che, data l’altezza
e la maestosità,
dovevano aver composto in passato una città grande e
gloriosa.
«Dove… ci
troviamo?»
«Morbane,
l’isola a metà tra il
Contine Rubato e l’Astermagna».
«Continente
Rubato…?»
«Gomorroindra. Mai
sentito?»
«Gomo
…»
«Lascia
perdere».
«E di quale isola
parli?»
«Morbane, come ho
detto» ribadì
dondolando la testa come chi vuol dire: “Purtroppo
è proprio così”.
Jen comprese che la spiegazione
avrebbe dovuto dirle qualcosa ma non era così.
L’Astermagna, ovviamente, era il
continente dove i Sei Regni dimoravano: Mohtam, Nanad, Nistria,
Nadorhai, Rah e
il Draile dov’era nata e cresciuta. Ad est di questa vi era
la Nerimkora, le
Sabbie Cieche, da cui venivano gli orchi; a nord-ovest si trovava
l’ “Imperiale
Bianco”: Keiserbana, terra innevata di villaggi sparuti e
delle grandi città
sotterranee dei nani. E poi… nient’altro. Non si
parlava mai di altri
continenti, anche se non aveva mai visto o cercato una vera mappa del
mondo.
Nessuno le aveva mai detto espressamente: “Non
c’è altro” ma nessuno aveva mai
nominato altre terre.
«Gomorroindra
… il Continente
Rubato?»
Valiel fissò Jen per
qualche
secondo, poi disse solo: «Comunque, non importa» e
aggiunse dopo una breve
pausa «Incamminiamoci».
«I-incamminiamoci? E
verso dove?»
***
Sosha si affacciò dal
balcone
incrostato del pulviscolo nero che si era stratificato su quello che un
tempo
era il palazzo del Municipio, osservando la città sotto di
lui. Le ciminiere
delle vecchie fabbriche, ormai adibite semplicemente a giganteschi
falò, continuavano
ad affumicare chi aveva voluto dimorare negli alloggi più
alti – questi erano i
cittadini più sfigurati e deformi, talmente ripugnanti alla
vista persino per
gli standard della sua gente che preferivano vivere reclusi, lontani
dai
bassifondi. I rioni stretti e bui erano invasi dai pochi averi dei
cittadini
che vi stendevano panni, sistemavano divani, cuocevano carne,
scaricavano
spazzatura.
«Quale dunque il bilancio
questo
mese, dopo il carico dall’Astermagna?»
L’uomo che si era
trascinato
nella sua stanza sulle stampelle – non aveva gambe
– alzò il capo da terra e
disse: «Sire, la percentuale di storpi e invalidi
è scesa, invece aumenta
quella di appestati e contagiati. Principalmente li scaricano dalla
Nistria e
dal Nanad così da tenerli lontani dai loro amati, sanissimi,
perfetti pargoli».
Sosha rifletté appena un
attimo:
«Un cambiamento piuttosto netto. Mi domando cosa lo
cagioni».
«Posso rispondervi, sire.
C’è una
nuova forma di pestilenza in Astermagna. La Chiesa della Dea va
sforzandosi di
nasconderla. Chi non può essere curato…
è invitato ad andarsene»
«E ci riempiono di
piagati. È un
bene questo: i malati contagiosi scoraggiano gli
indesiderati».
Era un ottimo deterrente per chi
voleva tentare un assalto militare o anche solo una scorreria.
Arrivavano
parecchi gruppi, chi per soddisfare la propria ipocrita sete di
pietà e chi per
sfruttare la loro miseria o anche per corrompere l’onesta
anarchia delle loro
vite con leggi ingannevoli spacciate per soluzioni salvifiche a tutti i
loro
problemi, venivano e dovevano essere ricacciati indietro. Con la forza
non
sarebbe stato possibile, con la ripugnanza invece era fin troppo
facile.
Morbane, il regno-discarica, non temeva alcun esercito.
«Altro?»
«I ratti sono
più grossi e feroci
dell’anno precedente ed è un bene anche questo: da
qualche mese la carne non è
più un lusso per i pochi fortunati che catturano qualche
bestia senza nome nel
bayou».
«Me ne rallegro. Il
popolo deve
pur mangiare».
Sosha alzò lo sguardo
oltre le
ultime case consunte: le guardie di Morbane, i suoi fidi monatti,
perlustravano
le strade, completamente coperti di tuniche stracciate e da maschere
dal lungo
naso – queste finalizzate a purificare il più
possibile l’aria che respiravano
– e, grazie ad un cargo di robivecchi giunto quasi due anni
prima, giravano
meglio armati di un tempo: mannaie sbeccate, pale consunte, forconi e
rastrelli
erano gli strumenti più in voga per mantenere il minimo di
ordine necessario
nelle strade. Come trentottesimo Re di Morbane, sotto il suo regno
tutto andava
decisamente meglio di quanto chiunque potesse ricordare.
«E
dell’imbarcazione elfica che
si è arenata ieri notte, che mi sai dire?»
***
«L’ho detto e
lo ripeto» spiegò
gentilmente Valiel «non vogliamo niente dal Re se non un
mezzo per lasciare la
vostra isola».
La città di Morbane era
per Jen
come un incubo ad occhi aperti. Sembrava che non ci fosse assolutamente
niente
che non fosse corrotto o marcescente, muschiato per
l’umidità o annerito per
gli scarichi tossici. Non aveva visto una sola persona in salute, solo
mendicanti, barboni e derelitti afflitti dalle più varie
malattie, qualcuno lo
era al punto da non poterlo più paragonare ad un essere
umano o umanoide. Anche
le guardie con cui Valiel si sforzava di comunicare dovevano essere
ritardate o
addirittura sorde.
«La mia imbarcazione si
è rotta.
Non mento, è la verità. Se trovassimo un altro
modo di andarcene, ce ne
andremmo subito».
Non ricevette alcun tipo di
reazione dalle guardie stranamente abbigliate.
«Signor
Valiel… andiamo via».
Si pentì subito di
averlo
suggerito: il bayou, un ammasso fetido di spazzatura, acqua, funghi e
vegetazione, era stato molto più spaventoso in pochi minuti
di traversata di
quanto la città potesse mai essere. Dopotutto là
abitavano esseri umani, mentre
le cose curve simili a blatte che si aggiravano nel bayou non avrebbe
nemmeno
saputo con che nome chiamarle. Ma a giudicare dalla reazione della
gente, lei e
l’elfo con la loro sanità fisica erano non meno
ripugnanti per i morbaniani di
quanto non fosse il contrario.
«Dato che non mi lasciate
altra
scelta, chiedo formalmente udienza al Re Sosha».
Non accennarono a spostarsi
dall’arco di pietra erosa che avrebbe permesso loro di
passare dal bayou al
quartiere esterno della città. Per strano che potesse
sembrare, erano loro a
non volere Jen e Valiel, come se potessero contaminarli con qualcosa di
molto
peggio di ciò che già consumava quella enorme
città un tempo magnifica. Valiel
si appoggiò pigramente ad una colonna spezzata, conficcata
nella terra umida.
«Perché non ci
vogliono nemmeno
parlare?» domandò Jen.
«Il mondo preferisce non
pensare
all’esistenza di Morbane. E quindi Morbane rifiuta questo
mondo tanto quanto si
sente rifiutata. È persino legittimo in un certo
senso».
«Non capisco…
cos’è questo luogo?
Cos’è successo qui?»
La maschera dell’elfo si
incrinò,
svelando un sorriso amareggiato: «Non sai nemmeno questo?
Cinquecento anni fa,
dopo la Grande Guerra, gli abitanti di questo piccolo regno si
ammalarono di
una piaga sconosciuta; ma non vollero abbandonare la loro terra,
perché la
amavano, anche se pare che proprio maltrattare la terra abbia scatenato
la
piaga. Allora, poiché erano così vicini al
Continente Rubato, i signori degli
uomini decisero ciò che pareva loro meglio: usare questo
regno come discarica
per tutti gli umani che altrove non fossero desiderati. Era un regno
piccolo e
indifeso che non accettava la sottomissione ma non valeva la pena di
una
conquista, quindi era perfetto per questo scopo».
«Indesiderati?
Perché mai
dovrebbero esistere persone che nessuno vuole?»
Valiel guardò verso
l’alto, scuro
in viso: «Vorrei sapere la risposta. Forse gli umani non
vogliono pensare alla
loro morte, alla fragilità e vulnerabilità della
vita. Perciò allontanano chi
gliela ricorda. Del resto, presto i nani e gli elfi hanno iniziato
anche loro a
mandare la gente in quarantena qui a Morbane. Forse le specie
civilizzate sono
capaci, e solo loro, di infliggere certe crudeltà ai propri
simili. Anzi, forse
sta nella crudeltà il senso stesso della cosiddetta
civiltà».
Jen si appoggiò anche
lei,
stancamente, alla stessa colonna e si lasciò cadere a sedere
su una roccia
circondata da funghi minuscoli che si affollavano intorno ad essa.
«Lei mi sembra triste.
Arrabbiato
e triste».
L’elfo rimise
immediatamente su
quell’espressione di cortesia insincera che la spaventava:
«Oh, non si
preoccupi per me».
Jen rifletté: che senso
aveva
mantenere segreti, a quel punto? Non sapeva dove si trovava,
né cosa stava
succedendo. Non sapeva che fine avesse fatto Ed, né
perché Ed ci tenesse tanto
ad essere accompagnata alle Isole Ranaluta da lei. Né,
d’altro canto, lei aveva
rivelato tutto ad Ed. E se Ed era morta o scomparsa, il suo unico
obiettivo
doveva essere tornare nel Draile, alla sua fattoria. Che arma aveva se
non
l’onesta, aperta richiesta di aiuto?
«Signor
Valiel…»
«Va bene solo
Valiel».
«Valiel, allora. Posso
capire
perché vuoi lasciare questo luogo. Ma perché vuoi
lasciarlo insieme a me?
Perché non mi hai lasciato in spiaggia dopo avermi raccolto
in mare?»
Valiel non rispose subito. Jen
ebbe l’impressione che stesse valutando anche lui se essere
sincero o meno.
«Sto seguendo la nana che
accompagnavi, la forgiatrice. Per ordine della mia regina, dovrei
scoprire cos’è successo alla Forgia del
Lago Kalst settimane fa e che
ruolo aveva lei. E soprattutto chi le dà la caccia e
perché, perché il fatto
che qualcuno la stia braccando è fuori discussione e
possiamo dire per certo
che è qualcuno di pericoloso».
Jen rabbrividì
rimettendo a fuoco
come era arrivata lì: la nave che andava in pezzi, i marinai
in fuga… tutto
scaturito dall’apparizione di un singolo individuo, di quello
sconclusionato
nano in giallo… lo scontro di incredibili poteri tra lei e
Ed, che sembravano
modellare la materia con una naturalezza per lei incomprensibile. Ed
sconfitta…
il naufragio.
«Insomma, devo solo farle
delle
domande. Non hai ragione di preoccuparti per lei, almeno non per causa
mia».
Era un’altra menzogna,
Jen lo
avvertiva distintamente, ma si preoccupò di precisare:
«Non è mia amica».
C’era cascata: Valiel
aveva
aspettato proprio il momento per porre quella domanda:
«Allora perché la
seguivi?»
Desiderò di essersi
morsa la
lingua: «Perché… bè,
lei… aveva salvato i miei fratelli da alcuni…
golem, si
chiamano così, no? E allora per sdebitarmi le vado dietro
per… per servirla».
«Non siete
sincera» insistette
pacatamente l’elfo, calcando ancora di più la nota
di gentilezza forzata per
nascondere l’impazienza «Cosa mai potreste fare voi
per una apprendista
forgiatrice di quel talento? Dev’essere qualcosa di preciso,
di specifico».
«Vi sbagliate!
Io…»
«E comunque»
interruppe lui «non
è stata lei a salvare i suoi fratelli, ma io, anche se forse
non lo crederete».
Jen ripensò alle parole
di Ed,
così inusuali per una spaccona come lei: «Non
so come ho fatto…»
«Invece vi
credo» ammise dopo
qualche secondo «È stata proprio lei ad ammettere
che qualcun altro aveva
distrutto il golem e non lei… suppongo quindi che dovrei
ringraziarvi».
«Non dovete affatto,
l’ho fatto
solo perché era il mio dovere come ramingo e per il rispetto
del Trattato dei
Popoli. E per la stessa ragione vorrei comprendere appieno cosa
succede. Chi è
questa ragazza? Perché fugge? E perché fugge con
voi?» più calmo e apparentemente
casuale era il suo tono, peggiore era l’effetto che le faceva.
Sbottò:
«Kalaston! Vi dirò tutto,
tutto quello che so» esclamò, stavolta mentendo
lei «Fatemi solo tornare a
Kalaston! Dalla mia famiglia!» si pose esattamente davanti a
lui «Io non
c’entro niente con questa storia, ne so poco e vorrei saperne
ancora meno.
Voglio solo dimenticarmela».
Di nuovo, l’elfo
sorrideva in
modo strano, colmo di tristezza e rabbia invisibili ma al contempo
impossibili
da non notare.
«Credetemi,
c’entro meno di voi».
***
Sosha bevve una coppa di vino
inacidito prima di mettersi in bocca una radice cotta male per
masticarla con
un certo sforzo. Quando fu ridotta ad una poltiglia fibrosa e ostinata,
dal
quale aveva succhiato via ogni sapore, la sputò sotto il
tavolaccio di legno.
Subito accorse qualche sorta di piccolo roditore arboricolo che gli si
era
infilato in casa da qualche finestra, rubò il bolo masticato
e fuggì mentre il
Re di Morbane gli calciava contro una coppa sbeccata, finita a terra.
Malgrado
l’oggettiva scomodità della sua sala da pranzo,
provava solo e soltanto
disgusto e rabbia per i Re dei Sei Regni, che si diceva vivessero una
vita
niente affatto paragonabile a quella dei loro sudditi: che razza di
regnanti
erano, se non conoscevano la vita della loro gente? Lui, invece, era
appartenuto a Morbane sin dal suo primo ricordo ed era cresciuto in
essa e ne
era fiero. La miseria dei suoi sudditi e la sua si compenetravano a
vicenda,
erano parte di un’unica trama.
«Sire»
sibilò un monatto che gli
era strisciato accanto mentre lui osservava l’animaletto
dileguarsi.
«Parla
pure» concesse, con
la voce roca per il catarro.
«Dalle porte a sud est
una
ragazza umana ed un elfo hanno chiesto di entrare. Vorrebbero comprare
una
barca, credo, per lasciare l’isola».
«Nulla si compra a
Morbane. Le
cose si trovano, si raccattano o si elemosinano. È una delle
Tredici Leggi, non
devo certo ricordartelo».
«Perdonatemi, Re Sosha.
Non ho
espressamente sottolineato che questi due non sono dei
nostri».
«Come?» il
giovane monarca sgranò
gli occhi. Trangugiò dell’altro vino prima di
alzarsi dal pavimento dov’era
seduto, rovesciando senza curarsene il tavolo malamente arrangiato con
dei
mattoni e tavole di legno tarlato. Il vino e le radici caddero
spargendosi a
terra e per buona misura Sosha lasciò volontariamente che la
coppa gli cadesse
dalla mano, sulla macchia di sporco che si andava allargando.
«Sono forse dei reietti
arrivati
qui per conto loro?»
«Sono perfettamente sani,
sire.
Non appartengono a noi, in nessun senso possibile».
La parola sani
fece sussultare Sosha: «Gente sana nella nostra
terra non può
volere niente di buono. Devono essere giunti con la barca
elfica».
Rovesciò
l’ammasso di pelli e
stracci che gli faceva da letto e trovò sotto questo,
nascosta in un buco del
pavimento, la sua arma personale, simbolo del Re di Morbane.
«Li riceverò.
Conducili alla mia
corte».
***
Jen attraversò
l’intera città di
Morbane cercando di non vedere, né sentire, né
odorare alcunché. Ma arrivata
alla Sala del Trono di Re Sosha si confuse e suo malgrado non
riuscì a celarlo.
Persino Valiel si guardò intorno, meravigliato. La sala
doveva essere stata, un
tempo, un giardino rettangolare – ora integralmente ricoperto
da rifiuti e
cianfrusaglie – sul cui fondo stava il trono. Ai lati stavano
giganteschi
alberi morti, i cui rami si annodavano incessantemente su sé
stessi come
avessero tentato di sfuggire alla morte; i tronchi avevano ricevuto,
per mano
di abili scultori, un lavoro certosino che aveva intarsiato nei loro
tronchi le
figure di re e regine del passato, la cui perfezione era
però odiata dagli
attuali abitanti, che avevano quindi sfregiato con tagli grossolani ma
profondi, grossi chiodi e bruciature ciascuna singola figura, maschile
e
femminile: ora i monumenti dei grandi re erano sfregiati e deformati
non meno
dei sudditi che vivevano nel presente. Sul fondo stava il trono,
anch’esso
scolpito in un tronco nodoso, depredato di ogni singola gemma e di ogni
grammo
d’oro e sfregiato anch’esso, non ne era rimasto che
lo scheletro. Sotto ogni
albero stavano in attesa delle figure integralmente incappucciate i cui
volti
erano perlopiù bendati: dovevano essere i cortigiani di
Sosha.
«Ehm…
salve…» disse nervosamente
ma il trono era vuoto.
Entrò, barcollando come
un
ubriaco, un giovane uomo con qualcosa di lungo e pesante appoggiato su
una
spalla. Aveva lunghi capelli acconciati in treccine e una barba
tagliata
irregolarmente, gli occhi truccati di nero e il fisico scavato, la
pelle
butterata da chissà quante piaghe. Dai lineamenti, si capiva
che doveva essere
stato un bel ragazzo, pensò Jen, e come spesso accade la
commistione di
bellezza e sofferenza le mise addosso la voglia di stringerlo, di
consolarlo,
quasi di salvarlo. Ma le passò subito: negli occhi di quel
ragazzo, per loro,
c’era solo uno sdegno troppo forte e radicato per poterlo
dissimulare. Sedette
sul trono e con un gesto plateale mostrò a tutti
l’oggetto che portava: era una
spada spezzata, tanto che ne mancava metà, la quale era
stata evidentemente
ricavata da un blocco di roccia grezzamente scolpito e non dalla
fusione di un
metallo; una catena partiva dal pomello e si legava attorno a tutto il
suo
avambraccio, legando indissolubilmente la spada e l’uomo.
Sebbene la scritta
rossa sulla lama fosse illeggibile, quando fece rintoccare
l’arma contro il
pavimento la reazione intimorita dei cortigiani fugò ogni
dubbio su cosa
rappresentasse quell’oggetto: rappresentava la
regalità a Morbane.
«Cosa volete da noi, cari
amici
dall’Astermagna?» chiese colmo di sarcasmo il
giovane monarca, senza salutarli;
la conversazione non si apriva certo nel migliore dei modi.
Nessuno dei cortigiani si mosse
più, erano concentrati con ogni fibra sulle parole del loro
monarca. Jen notò
che i tetti che circondavano il giardino, definendone i confini, si
affollavano
di quelle strane guardie mascherate col becco che aveva visto in giro
per la
città. I viaggiatori non dovevano essere
all’ordine del giorno, a Morbane.
«Una nave, sire, solo una
nave»
rispose Valiel, deferente «o un qualsiasi altro mezzo per
tornare in Astermagna
e liberarvi dal mortificante disturbo della nostra presenza».
Jen intuì subito che
l’enfasi con
cui Valiel si piegò in ginocchio non era frutto di un suo
personale capriccio e
si inginocchiò immediatamente anche lei, tanto quasi da
toccare il pavimento
sudicio con la fronte.
«Bene»
commentò Sosha, mostrando
i denti consunti in un sorriso malevolo «sono lieto di vedere
che sapete stare
al vostro posto».
Valiel non alzò la testa
neppure
di un millimetro. Jen faceva quasi fatica a guardarlo, da quella
posizione
esageratamente prostrata. Re Sosha rifletté per un
po’.
«Che fareste, comunque,
con una
nave? Non vorrete certo salpare verso l’Oceano del Blu
Maggiore per raggiungere
il Continente Rubato, no?»
«Chi viaggia nelle terre
infestate
dal Chimaer è un pericolo per sé stesso e per gli
altri. No, maestà, non
abbiamo alcun affare in quelle terre e mai
l’avremo».
Il Chimaer, aveva detto Valiel, e
per la seconda volta quel giorno Jen si ritrovò a pensare
alle parole di Ed e
alla creatura luminescente che le aveva aggredite nella grotta; anche
Ed aveva
parlato del Chimaer, ricordava bene. Ma cos’era il Chimaer,
se non una delle
molte minacce incomprensibili, da cui la Chiesa metteva in guardia i
fedeli in
maniera vaga?
«Sarà meglio.
Non si torna dal
Continente Rubato. Non si sfugge al Chimaer che domina quelle
terre».
Eppure, c’era sempre
qualcuno che
sembrava saperne più di lei e di qualsiasi compaesano con
cui avesse mai
parlato e quel pensiero non le piacque per niente. Jen era cresciuta
pensando
di possedere qualcosa di unico e prezioso: nascondendo un segreto, una
conoscenza che non doveva essere condivisa con il resto del mondo.
Invece, dal
giorno dell’incidente, sembrava che chiunque sapesse qualcosa
di più di lei sul
mondo e sulle sue regole. Si faceva strada in lei
l’impressione che chi, come
la sua famiglia, si occupava della terra e del lavoro, vivesse in una
specie di
realtà fittizia da cui tutta una serie di concetti erano
stati rimossi,
censurati, nascosti alla coscienza comune. Spesso suo padre lamentava
che non
erano le persone come loro a
decidere
il corso della storia, che altri decidevano nell’ombra sulla
loro pelle. Perché
non avrebbero dovuto anche decidere cosa sapevano e non sapevano le
persone
come Jen? Strinse i pugni per la rabbia e con l’idea che il
vero saggio, in
famiglia, fosse stato sempre e solo suo padre. Si sentì
ignorante e impotente.
La voce di Re Sosha la
riportò al
presente: «In ogni caso, non permetterò a due
sprovveduti del continente di
venire qui a fare i propri comodi ed andarsene. Ho pensato giusto ad un
modo
per trattarvi come meritate».
«Sire?» chiese
Valiel con tono
supplichevole ma Jen colse una sfumatura strana nella sua voce; in
qualche modo
fu certa che, nel caso le cose degenerassero, Valiel era preparato
– e
assolutamente disposto – a ricorrere alla violenza:
anche lui stringeva i
pugni, la tensione nel suo corpo saliva. Jen avrebbe dato qualsiasi
cosa per
essere in un altro posto.
«Voi continentali avete
la
cosiddetta legge del mercato. “Niente in cambio di
niente”, giusto? Ebbene,
anche voi avrete quanto chiedete: arriverà presto un carico
di scarti al porto
e potrete andare via con quella nave quando ripartirà. Ma
avrete questo solo in
cambio di qualcos’altro. Un piccolo servizio».
«A vostra disposizione,
sire».
Il tono di Re Sosha
cambiò
leggermente, si colorò quasi di una nota allusiva:
«Sotto le fondamenta della
città vive un mostro. Una creatura abominevole la cui sola
esistenza minaccia
le nostre».
Jen avvertì il fremito
nei
cortigiani di Sosha. Qualcosa nelle sue parole doveva sembrargli
stimolante o
addirittura divertente.
«Una creatura troppo
potente per
le mie guardie, siamo tutti malati o mutilati, del resto. Ma forse un
ramingo
elfico avrebbe qualche possibilità in più. E
quindi vi chiedo…»
«…di uccidere
ciò che dimora nelle
fondamenta della città» concluse Valiel, con una
punta di noia.
***
La spada spezzata fu ricongiunta
all’altro frammento, che trapassava una incudine ottagonale.
Sosha impresse
molta forza per farla girare e presto venne soccorso da due monatti che
lo aiutarono
nella torsione. Le misteriose incisioni sulla lama rozzamente scolpita
si
illuminarono di un rosso violaceo per un attimo, quindi
l’incudine girò.
Ciascuna delle mattonelle a spicchio che circondavano
l’incudine sprofondò
verso il basso, ognuna fermandosi ad una diversa altezza. In pochi
secondi la
saletta circolare si era trasformata in una scala a chiocciola che
scendeva
ripida verso il sottosuolo. Il sovrano di Morbane guardò
l’elfo e la ragazza
con aria di sfida.
«Una serratura
nanica» osservò
Valiel «può essere preoccupante, credo».
Iniziò immediatamente la
discesa
e Jen non ci pensò un attimo a seguirlo. Appena li vide
sparire Sosha spezzò di
nuovo la spada, che smise di splendere. Gli scalini si ricomposero
nuovamente
in un unico disco di pietra e così l’apertura fu
di nuovo sigillata. Uno dei
suoi cortigiani si avvicinò strisciando sulle ginocchia e
volse l’occhio,
l’unica cosa che le bende avevano lasciato libera, verso il
suo re, mentre gli
altri si disperdevano.
«Sire… siete
sicuro che non
faranno ritorno?»
«Non
c’è nulla che sia sicuro. Se
faranno ritorno, data la difficoltà dell’impresa,
ne prenderò atto e arrangerò
il loro imbarco».
«Ma la cosa che dimora
laggiù non
può certo essere uccisa con semplici armi. Che senso ha
questa prova?»
Sosha sogghignò:
«C’è una ragione
per cui questo è da sempre il castigo che riserviamo ai
viaggiatori del
continente. La conosci?»
L’uomo deforme scosse la
testa
bendata. Camminarono per un po’ lasciando la saletta,
l’uomo inseguiva il suo
Re e le sue risposte.
«Non so come
quell’essere sia
finito laggiù e nemmeno so se davvero un giorno ne
verrà fuori. Neanche so come
i miei antenati l’abbiano rinchiuso e neppure mi interessa.
Ma ecco cosa so:
Morbane è un luogo che il mondo non vuol vedere, che non
vuole ammettere che
esista. Per uno scherzo del destino, la cosa che dimora sotto di noi
è
anch’essa una esistenza che il mondo non accetta. Ecco
perché infligge il
castigo ideale a chi ci rifiuta».
Re Sosha sorrise, mentre i
monatti si facevano di lato per lasciarlo tornare alle sale del palazzo
reale,
ormai invase da muschio e funghi e infestate da giganteschi coleotteri
brulicanti, che si cibavano di sporco incuranti degli umani che
passavano loro
vicino.
«Ma!» fece il
cortigiano,
incuriosito, venendogli dietro «Di che verità si
tratta, mio signore?»
«Non posso saperlo per
certo»
ridacchiò il re «ma in fondo Morbane rappresenta
la prima verità a cui nessun
uomo debole di mente può pensare: la verità della
morte. C’è solo un’altra
verità che terrorizzi altrettanto».
Sosha alzò un dito verso
l’alto,
con un gesto plateale. Il cortigiano diresse l’occhio verso
la volta della sala
dov’erano appena entrati. I muri erano tappezzati dai rozzi
graffiti che i
primi signori di Morbane a contrarre la malattia avevano disegnato.
Erano
disegni privi di senso, evocativi di qualcosa di indefinito legato al
sesso,
alla violenza, all’infermità. Si accavallavano tra
loro fino a formare un unico
inquietante murale: la manifestazione visibile dei loro incubi, delle
loro
menti che si sbriciolavano sotto i colpi del male sconosciuto che li
devastava,
terrorizzandoli.
«La follia. Ecco
l’unica paura
che può competere con la morte. La verità
dell’assenza di qualsiasi verità. Mi
capisci?»
L’uomo abbassò
la testa, come
fosse mortificato. Diversi tra i cortigiani di Sosha un tempo erano
stati
filosofi e sapienti di altri paesi, lui invece era stato un giudice.
Ciò a cui
ambiva era comprendere l’essenza di quel castigo che era
l’estrema punizione a
Morbane ma non riusciva ad afferrarla. Né riusciva a capire
cosa venisse
effettivamente punito, se non l’incapacità di
sopportare una verità
insopportabile. Ma quale?
«Non comprendo, sire, mi
spiace»
ammise infine.
«Mettiamola
così» spiegò Re Sosha
portandosi la spada spezzata sulla spalla «se usciranno vivi
da lì, non vedo
ragione di punirli. Ma io non credo che la cosa che dimora
laggiù abbia mai
ucciso qualcuno. Credo piuttosto che chiunque l’abbia vista
si sia tolto la
vita».