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Autore: drisinil    30/11/2022    3 recensioni
[kurotsuki] [nospoiler] [canonverse] [long: 2 capitoli/settimana]
«Signor è-solo-un-club sei senza parole?» lo provoca Kuroo. «Vuoi che brindi io per te? Però poi bevi tu!»
«Okay, ma solo se il brindisi mi piace» risponde Kei con arroganza, spingendosi gli occhiali sul naso.
Kuroo storce le labbra e si riprende la bottiglia, strappandola a Kei. «E' una sfida?»
«Se vuoi...»
Kuroo distende lentamente il braccio verso Kei, con la bottiglia in mano. Si schiarisce la voce e tenta di scostarsi dalla fronte il ciuffo di capelli, che però ricade subito al suo posto. «Al muro perfetto, che ferma la palla, la devia, la smorza o la costringe. Obbliga le traiettorie, crea pressione e controlla il gioco.»
Kei sorride, gli strappa la bottiglia e beve d'impeto.
E' il vino più buono che abbia mai bevuto, forse il più buono che berrà mai.
Genere: Introspettivo, Romantico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Yaoi | Personaggi: Kei Tsukishima, Tetsurou Kuroo
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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35 - L'aggettivo giusto


 

24 marzo 2012 

[NdA l'anno scolastico giapponese inizia ad aprile e finisce a marzo.]

La cosa che Tsukishima Kei odia di più al mondo è trovarsi costretto, in tutti i sensi più o meno lati che la parola può assumere: chiuso, messo all'angolo, legato, coatto. 

Soffocato è l'aggettivo giusto. Talmente giusto che è una causa di morte.

Eppure, Kei ama gli spazi ristretti. Li ha sempre amati.

A sei anni si infilava negli armadi, si nascondeva in quell'angolino buio del sottoscala della casa al mare, la sera nel letto si tirava le coperte fin sopra la testa e poi accendeva una lucina da lettura minuscola (un regalo di Aki per il primo giorno di scuola) e giocava ancora un po' con i modellini, in quel bozzolo caldo in cui l'unico respiro e l'unico odore erano i suoi.

E' l'idea confortevole, soffice, pulita di un posto che sia allo stesso tempo luogo e non-luogo e che coincida con la forma della propria solitudine, o, più esattamente, con quella della compagnia di se stessi.

A papà piace la precisione lessicale e quindi Kei ci ha pensato su un bel po', a quale fosse l'aggettivo giusto. E l'aggettivo giusto era: intimo.

Crescendo, intimo è diventato un concetto incerto, a tratti confuso. E per niente giusto. Ha qualcosa a che vedere con quel corpo indisciplinato, che si permette di cambiare così tanto senza preavviso, senza regole, senza un chiaro foglio di istruzioni. Cambia da un giorno all'altro, mentre tutto quello che c'è intorno resta identico. Si allunga, come se lo tirassero dall'alto. E va a finire che il pavimento, i suoi stessi piedi, il centro del mondo e tutti quei miliardi di abitanti diventano sempre più lontani.

Per uno che è miope - parecchio miope - rischia di essere un problema. Perché si perdono i contorni e la gente diventa una massa unica di preconcetti, prevenzioni, ridicole fissazioni, mode incomprensibili, gerarchie insensate, regole così stupide che obbedire è un insulto.

Se cerca di abbassarsi, per guardare qualcuno da vicino, va a finire che diventa troppo vicino e l'eccesso di prossimità è un rischio inaccettabile. La via di mezzo, la giusta distanza non la trova mai. Forse non esiste, oppure è una linea così sottile che si smarrisce tra una risposta scorbutica e l'altra, tra una canzone e l'altra sparate nelle cuffie mentre qualcuno ti parla, tra una sferzata di sarcasmo e un insulto velato, infierendo sulle debolezze degli altri per non mostrare le proprie.

Un paio di occhiali per guardare negli occhi la realtà e una cuffia in testa per tenere la giusta distanza: a Kei non serve altro, non serve nessuno. Neppure un padre.

Indipendente è l'aggettivo giusto. E in prima media si è già infiltrato sottopelle, come un tatuaggio enorme, che tutti riescono a vedere anche se non con gli occhi.
 

Indipendente. Kei se lo ripete come un mantra, mentre si abbraccia le ginocchia e ci nasconde in mezzo la faccia, raccolto su se stesso, compresso.  Indossa la solitudine come un guscio di lumaca e continua a ripetersi quella parola.  Indipendente. Indipendente. Indipendente. 

Le cose, a furia di dirle, diventano vere.


A dodici anni compiuti, gli spazi ristretti gli piacciono ancora. Non più perché sono intimi, ma perché sono privati, e quindi sono sicuri.

Sicuro è mille volte più importante di intimo ed è senza il minimo dubbio l'aggettivo giusto.

Dodici anni è l'età in cui ha capito una cosa importante: che comunque te la raccontino, la vita è uno di quei giochi d'azzardo in cui conta molto il culo e pochissimo la strategia.

Kei, sarà perché è così magro, di culo ne ha sempre avuto troppo poco; deve puntare tutto su quel po' di strategia.

Per esempio: se ci tieni a sopravvivere ogni giorno all'ordalia sociale che chiamano scuola, devi trovarti un rifugio. Uno spazio qualsiasi nel complesso scolastico che possa diventare privato, in cui chiudersi dentro e stare da soli. Sfogarsi, se serve. Piangere a dirotto. Incazzarsi fino a diventare viola. Tutte le reazioni emotive che nessuno deve vedere, e neanche sospettare, ma che, a negarsele, si finisce per non controllare più la pressione interna.

Il rifugio di Kei all'Amemaru è uno sgabuzzino nel seminterrato, poco più grande di un ripostiglio e ingombro di tutti gli scarti polverosi dei club scolastici aboliti e dimenticati.


Chiuso nel suo rifugio, Kei sta piangendo. E non sa bene per cosa; questa volta ha l'imbarazzo della scelta. Forse è per la tristezza disumana che gli affonda piano piano in gola, ostacolando i respiri, o per quella ruvida autocommiserazione che irrita i nervi infiammati e tende ancora di più tutti quei lacci gettati a caso fra il cuore e la nuca, fra l'anima e la pelle. 

Sprovveduto è l'aggettivo giusto, ma anche idiota andrebbe benissimo.


Fino a poco tempo prima, Kei si guardava nudo allo specchio ogni mattina, prima di asciugarsi. A un certo punto quel riflesso ostinato ha iniziato a infastidirlo.

Non è una questione estetica, no. E' proprio un problema di convivenza.

Chi è quel tizio indisponente, con le costole in evidenza, le braccia scarne, gli occhi inquisitori? Che vuole? Che ne sa di quanto è dura là fuori?

Kei cerca se stesso tra le gocce di condensa che gli rigano il viso e mostra il dito medio al frignone dall'altra parte, che subito gli restituisce la cortesia.

«Ti capita mai di non riconoscerti?»

Lo ha chiesto ad Akiteru una domenica d'agosto, con il ronzio del ventilatore a fare da basso a un'acuta sinfonia di cicale. Quando è a casa in vacanza dall'università, Aki si sveglia prima del solito e prepara la colazione per il fratello. Kei finge di non capirlo e il più delle volte neanche si siede a tavola.

Quel giorno si è seduto.

Dopo la domanda di Kei, Akiteru ha abbassato le bacchette e ha sollevato gli occhi, a guardarlo. Ha sbattuto le palpebre due volte, ha piegato la testa di lato, come un piccione. E poi ha fatto quella faccia.

Quella faccia preoccupata, affettuosa, vagamente amareggiata, con due piccole rughe ai lati degli occhi e le labbra strette. E' l'espressione di chi vorrebbe disperatamente capire, e aiutare, e abbracciare e chissà che altro verbo che implica violazione di spazi personali. L'espressione di chi vorrebbe ma non riesce, vorrebbe ma non osa.

Kei ha distolto lo sguardo. «Lascia perdere» ha concluso, senza la minima inflessione di disappunto.

«No. Aspetta. Aspetta, Kei. Che intendi?»

Kei si è stretto nelle spalle. «Non lo so nemmeno io» ha risposto, senza mentire. «Qualche volta al mattino mi guardo allo specchio e siamo già in troppi.»

Akiteru ha solo accennato al gesto di sporgersi a scompigliargli i capelli, ma si è bloccato subito, con la mano a mezz'aria; invece ha riso. Ha detto a Kei che quattordici anni sono troppo pochi per diventare un misantropo.

Kei si è domandato se misantropi si nasca o si diventi. E comunque, fra un mese sono quindici.

«C'entra il sesso?» ha chiesto Akiteru subito dopo, fissando il motivo shippo ricamato sulla tovaglia, i sette gioielli del buddismo finiti sotto le loro macchie di unto e di salsa di soia.

«Davvero, lascia stare, non è importante» ha risposto Kei svogliato.

Però, come al solito, sparando a caso, Aki ha colto il bersaglio, anche se stavolta solo ai margini. Perché quello che Kei avrebbe voluto chiedere esattamente è: come si tiene a bada questo corpo indisciplinato? Come lo si soddisfa senza che diventi troppo esigente? Come si fa a farci entrare dentro, letteralmente, un altro essere umano e poi essere sicuri di non avergli trasmesso niente? O che non ci lasci qualcosa e ti contamini, ti cambi?

Ma non sono domande che si senta di rivolgere a suo fratello. A parte l'imbarazzo, lo metterebbe in crisi: Aki penserebbe subito alle malattie veneree, ai preservativi, al bullismo e solo dopo arriverebbe al reale significato di "farci entrare dentro qualcuno" e lì gli si incepperebbe il cervello definitivamente. Kei non se la sente di fargli una cosa del genere. E non ha nessuna voglia di starsene lì buono a subire un'inquisizione.

Un giorno, prima o poi, gli dirà tutto.

Akiteru intanto è rimasto a fissarlo. «Ce l'hai scritto in faccia che è importante. E sai una cosa? A quattordici anni il sesso c'entra sempre.»

«Che c'è? Vuoi farmi una lezioncina? L'ape e il fiore?»

«Se servisse, Kei...se volessi chiedermi qualsiasi cosa, sai che io... da quando papà...voglio dire, io per te...»

Kei ha interrotto quello sproloquio con uno sbuffo sonoro e si è alzato da tavola. La sua ciotola di macedonia è ancora quasi piena, al pane tostato ha dato solo un morso, i pancake sono intonsi e ormai freddi. «Grazie per la colazione, onii-chan» ha detto.

«Quale? Quella che non hai mangiato?»

Kei non ha risposto, invece si è messo a infilare gli avanzi in un contenitore di plastica. Il rimorso e il senso di colpa sono scattati dentro di lui come le alette di plastica di quel coperchio, e gli hanno intrappolato la voce. Lontano è l'aggettivo giusto.


Sette mesi dopo Kei ancora non si riconosce, ma nudo allo specchio non si guarda più. 

E adesso è lui a piangere. Forse da qualche parte c'è uno specchio appannato e un altro se stesso che guarda le gocce di condensa che gli scorrono sul viso e lo deride.


Negli ultimi sette mesi sono successe tante cose: la Amemaru è arrivata ai quarti di finale del torneo di pallavolo della prefettura; Tsukishima Kei si è classificato quinto nella graduatoria di merito della scuola (Yamaguchi Tadashi undicesimo); le scarpe da pallavolo comprate lo scorso aprile sono diventate troppo piccole di quasi due misure; Kei ha imparato a fare la lavatrice. E Shinoyama Shuto non è più un estraneo. Le ultime due sono collegate.

Tanto per cominciare, Shinoyama è uno stronzo. Kei l'ha sempre saputo ma, poiché qualche volta lo pensa anche di se stesso, ha deciso che una certa indulgenza fosse dovuta.

Come sia iniziata fra loro è difficile a dirsi. A un certo punto, in un momento imprecisato dopo il ritorno dalle vacanze estive, si sono adocchiati a vicenda.

Kei ha iniziato a sentirsi lo sguardo di Shinoyama sulla nuca, durante la fila per la mensa. Un giorno si è voltato e lo ha visto spiccare sopra un mare di teste, tutte molto più in basso. Shinoyama gli ha mostrato il dito medio. Kei ha sbadigliato, con gli occhi socchiusi e la mano educatamente davanti alla bocca.

A fine ottobre, Kei è capitato a una gara di nuoto: l'unica cosa che ha guardato per due ore è stato il corpo seminudo e bagnato di Shinoyama, il modo in cui il torace si allarga a partire da una vita stretta quasi quanto la sua, il profilo delle braccia, le mani grandi, i rilievi degli addominali, la curva della nuca, la linea delle spalle, il movimento ipnotico dei dorsali durante lo stretching prima di entrare in vasca.

Tutto materiale per le squallide seghe del mattino, il tributo quotidiano che Kei paga alla sua adolescenza inquieta. E' sempre quel corpo che ha in mente, mentre soddisfa il proprio. Un corpo perfetto, senza una faccia sopra, perché le fantasie erotiche di Kei sono semplici, pratiche, finalizzate al banale scopo di venire, magari senza combinare un casino sul materasso. La complicazione di una faccia, ancorché bella, non serve.

Qualche volta, Kei si sente schizofrenico: il tizio triviale che si masturba furiosamente tra le lenzuola o sotto il getto d'acqua calda della doccia non può essere lo studente modello che colleziona haiku, legge romanzi francesi e riflette sui massimi sistemi. Eppure quei due convivono, con un fragile accordo di non belligeranza basato su orgasmi privati e su un mondo onirico sfrenato e lubrico, di cui Kei non parlerebbe nemmeno sotto tortura.

A quella gara di nuoto, Shinoyama è arrivato primo.

«Complimenti» gli ha detto Kei, con scarsa convinzione.

«Grazie... Tsukishima, vero?»

Rispondere non serviva, era ovvio che sapesse perfettamente il suo nome.

«Ti è piaciuta la gara?»

Kei si è spinto su gli occhiali sul naso con due dita. Ha infilato la mano in tasca. E poi ha guardato Shinoyama. Tutto Shinoyama, risalendo lentamente con lo sguardo dai piedi, alle gambe, al costume che non lascia molto all'immaginazione, fino alle labbra e agli occhi.

«Sì» ha risposto.

Shinoyama ha sfoderato un sorrisetto, i suoi occhi allungati e nerissimi si sono fatti affilati, ma non ha detto una parola. Kei si è tirato su le cuffie sulle orecchie e se n'è andato.

A gennaio Shinoyama si è presentato ai quarti di finale dell'interscolastico di pallavolo. Ci è venuto con una ragazza carina, che per tutto il tempo gli è rimasta spalmata addosso, come fosse fluida, mentre le mani di lui raggiungevano ogni lembo di pelle nuda con un'avidità così ostentata da risultare ben poco credibile. Era un'imitazione scadente di passionalità, fatta apposta perché il messaggio arrivasse a Tsukishima forte e chiaro: certe cose solo di nascosto.

Kei lo ha pensato esattamente in questi termini, nella sua testa: certe cose. Poi ha pensato che si sarebbe meritato uno schiaffo. Certe cose. Quali cose?

Tsukishima Kei detesta mettere in piazza la sua vita privata. E non ha la minima intenzione di avere una relazione di lunga durata con Shinoyama Shuto. Ma neppure gli piace questo modo subdolo di dissimulare: tenere riservati i propri fatti di letto è sacrosanto, ma nascondere se stessi dietro un dito, o dietro due tette enormi nel caso specifico, è insieme una fatica inutile e una vigliaccheria.

Forse doveva capirlo lì. Quando, dal campo, ha visto chiaramente le dita di Shinoyama fare pressione sul ginocchio nudo della ragazza e il sorriso di lei ghiacciarsi per un attimo. Ha letto il disagio nell'ombra di quei gesti, e lo ha consapevolmente ignorato. Che a Shinoyama stesse benissimo il nuovo taglio di capelli, un po' scompigliato, è l'unica cosa che ha voluto notare quel giorno.

La Amemaru ha perso ai quarti di finale. Shinoyama non gli ha rivolto la parola, la ragazza lo ha salutato dagli spalti con la mano, come se lo conoscesse.

A febbraio ha nevicato forte e Shinoyama è andato a sedersi al tavolo di Kei in mensa.

Di solito, pranza con la squadra. Anzi, tutto quello che fa lo fa con la squadra: ha sempre un paio di sgherri alle calcagna. Kei si è chiesto se ci scopi ma si è risposto di no o non avrebbe quell'aria perennemente affamata.

Il giorno che si è seduto al tavolo di Kei, comunque, Shuto era solo. Fuori c'era mezzo metro di neve, ma lui portava la tuta della scuola con la felpa slacciata. Tenendo il vassoio con una mano sola, con l'altra ha scostato la sedia, all'improvviso, in uno stridio molesto che ha fatto sobbalzare Yamaguchi.

«Ciao» ha esordito, strafottente, sedendosi. Si è rivolto a Tadashi, chinandosi verso di lui e ignorando Kei. «Sei la sua ragazza?»

Yama è arrossito fino alle orecchie. Ha annaspato, cercando un appiglio inesistente nello sguardo piatto di Kei dietro le lenti.

«Allora?» ha incalzato Shinoyama. Ha ridacchiato, ma non c'era niente di simpatico nella sua espressione.

«No! Io...no! Certo che no! Io non... »

«Tu cosa?»

«Io non... »

«Te ne frega qualcosa?» è intervenuto Kei, prima di lanciarsi in bocca una rondella di carota bollita, come se nulla fosse.

Shinoyama ha accennato un sorrisetto. «Magari sì.»

«Ma io e Tsukki non... »

«Urusai Yamaguchi!»

«Gomen, Tsukki.» Tadashi ha abbassato lo sguardo e si è ammutolito.

«Ma che cagnolino obbediente. Vediamo se funziona anche con me: levati dalle palle, Yamaguchi!» gli ha ordinato, con il tono categorico di un addestratore.

Kei ha tirato un respiro sommesso e ha continuato a masticare, evitando di proposito di guardare verso Yama, anche se la mano di lui che tremava aggrappata al bordo del vassoio non ha potuto fare a meno di vederla. Ha scelto l'egoismo, però. Ha scelto il silenzio.

A parlare ci ha pensato Shinoyama: «No, non funziona. Peccato. E' uno di quei cagnolini fedeli che obbediscono solo al padrone. Allora diglielo tu, Tsukki, di lasciarci in pace.»

«Mi chiamo Tsukishima» ha chiarito Kei, acido.

E in quel momento, si è sentito spaccato a metà. Perché se è vero che Shinoyama sta facendo lo stronzo più di quanto sia tollerabile e si meriterebbe di essere rimesso al suo posto, è anche vero che lo sta facendo per mettersi in mostra. Per mettersi in mostra con lui. E non si può dire che la cosa gli dispiaccia. Gli dispiace semmai che a farne le spese debba essere il suo migliore amico.

Quando ha alzato gli occhi, ha incrociato quelli amareggiati di Yama. «Potresti andare avanti? Ti raggiungo in classe. Per favore, Yama.»

Yama si è morso il labbro e poi ha esalato un lungo respiro sonoro. Ha appoggiato le bacchette sul piatto, dal bicchiere d'acqua trasferito di colpo sul vassoio sono piovuti spruzzi tutt'intorno. Infine, si è alzato di scatto, voltando loro le spalle.

«Ciao ciao, Yamaguchi!» ha salutato Shinoyama in un falsetto derisorio.

Kei sa benissimo che chiunque altro per una condotta così meschina gliela farebbe pagare cara, ma la gentilezza di Tadashi non conosce rancore e il suo affetto supera l'amor proprio. Mentre si allontanava con il vassoio in mano, anziché offeso, deluso o incazzato nero, come avrebbe avuto tutto il diritto di essere, Yama gli ha lanciato uno sguardo sinceramente preoccupato.

«Sei uno stronzo» ha comunicato Kei a Shinoyama.

«Lo so.» Shuto ha sorriso come fosse un complimento.

«E quindi? Ora che mi hai importunato mentre mangio e hai costretto Yamaguchi ad andarsene, te ne stai zitto come un idiota?»

Shinoyama, per tutta risposta, ha allungato le bacchette verso il bento di Kei, la cui reazione fulminea è stata spostarlo fuori portata. 

«Non ti azzardare.»

«Permaloso» ha osservato Shuto, critico.

«Anche pericoloso e molto irritabile» ha rincarato Kei.

«Quindi quali sarebbero le tue qualità, Tsukishima?»

Il sarcasmo di Kei è affiorato dal disappunto, più affilato che mai. «Avere un bel culo? Non fai altro che tenerci sopra gli occhi.»

Lo ha detto a voce alta e Shinoyama si è guardato intorno preoccupato, anche se nessuno prestava attenzione a loro due. Si è sporto verso Kei, attraverso il tavolo, con i gomiti premuti sul ripiano di formica. «Se lo dici a qualcuno ti ammazzo.»

«Cosa?»

Sono rimasti a guardarsi: Kei a braccia conserte, appoggiato allo schienale, armato del solito sorrisetto odioso e Shinoyama proteso verso di lui, le mani aperte ai lati del vassoio.

Kei si è sentito improvvisamente in vantaggio. Con la stessa chiarezza con cui avverte i risultati esatti e i conti che tornano, ha compreso che il rapporto di forza fra loro due è sbilanciato a suo favore. Non se lo aspettava.

Shinoyama non è stupido, ma i suoi punti deboli sono esposti come marchi visibili sulla pelle, come bersagli, tessuti molli sui quali basterà esercitare anche solo una piccola pressione per averlo in pugno.

In tutta onestà, Kei aveva sperato l'esatto contrario. Nell'ammetterlo a se stesso si è reso conto che era una speranza stupida e rischiosa, eppure è una punta acida di rammarico quella che manda giù prendendo atto di come stanno le cose.

Se non altro, è bello da far schifo. Così, da vicino, con gli occhi aggrottati, la tensione scolpita nella mascella squadrata, le labbra socchiuse, una vena del collo in rilievo, gli è parsa la materializzazione di tutte le più sconce fantasie erotiche del repertorio Tsukishima.

«Rilassati» ha intimato Kei, in un sussurro perentorio.

Shinoyama si è fatto indietro ed è tornato a sedere composto. Si è infilato in bocca un pezzo di cotoletta e ha preso a masticare con foga.

Anche le sue mani sono belle, strette sulle bacchette con forza visibile e sproporzionata. All'improvviso ha sollevato su Kei due occhi feroci, forse anche eccitati. «Non ho ancora capito se ti va o no che scopiamo.»

«Romanticismo come se piovesse... »

«Che cazzo vuoi, Tsukishima? Un anello?»

Kei ha scosso la testa, con un broncio annoiato. «Okay» ha concesso, appoggiando le bacchette sul vassoio. «Scopiamo. Ma devi stare alle mie regole.»

Shinoyama ha sgranato gli occhi come piattini da tè, perché sul serio quel biondino attizzacazzi è una mina vagante. E anche se è vero che ha un culo da infarto e che non vede l'ora di sfondarglielo, quello che Shuto desidera più di tutto è cancellargli dalla faccia il ghigno di sfida, l'aria di superiorità, la piega strafottente delle labbra. Lo sa bene lui cosa ci va messo, in quella bocca, per riempirla e tenerla occupata come si deve.

«Me ne fotto delle tue regole!»

«Allora stai a vedere che ti fotti solo quelle... »

Shinoyama ha tracannato acqua come se fosse alcol e servisse a calmarlo. Gli occhi lucidi, le guance arrossate, sta tentando di opporre ancora un po' di resistenza, ma Kei sa che presto cederà e che alla fine sarà lui ad avere il controllo.

Dominante, è l'aggettivo giusto, e Kei non capisce se gli piaccia o meno.


Kei sprofonda la faccia fra le ginocchia. Sente le lacrime scivolargli lungo le gambe. Sono lacrime di frustrazione e di rabbia, ma anche stupide lacrime di delusione. Perché in fondo, se l'è proprio cercata. Perché ha commesso un errore di valutazione dietro l'altro.

Davvero, avrebbe dovuto capirlo alla partita. O al tavolo della mensa. O in libreria. O l'altroieri, alla fermata dell'autobus. E invece ha pensato di poter passare sopra al suono degli allarmi interni, alla voce della ragione. Ha dato a quel suo corpo avido e irragionevole così poca importanza da credere che non servisse difenderlo. Che non gli occorresse null'altro che essere strofinato, leccato, succhiato, soddisfatto. Come se la pelle, la carne e i nervi non fossero collegati a tutto il resto, come se potesse separarli dal cervello. 

Ingenuo è l'aggettivo giusto, e fa discretamente male.


Che dovesse succedere il giorno dei diplomi, lo ha deciso Kei. E' l'unico giorno in cui tutti si fanno trascinare come pecore da una cerimonia priva di senso a un'altra: dall'aula, al cortile, al piazzale, alle sedie ben disposte in palestra.

L'unico giorno in cui i campi da gioco, gli edifici secondari, la piscina sono vuoti.

E gli spogliatoi della piscina, di cui Shinoyama ha la chiave, gli erano sembrati un posto perfetto.

Kei sentiva di avere tutto sotto controllo, imprevisti compresi. Persino l'aspetto meramente fisico della faccenda. Si era organizzato, ci aveva pensato su, aveva studiato la meccanica fin nei minimi dettagli, aveva stabilito con precisione assoluta quali fossero i limiti. Aveva analizzato così tanti possibili copioni (tutti con pochissima sceneggiatura verbale) pche ormai, fra farlo con Shinoyama e masturbarsi nella doccia immaginandosi di farlo con Shinoyama, la differenza era minima.

Questo pensava Kei, mentre Shuto lo tirava per il polso oltre la soglia, fingendo che fosse un'iniziativa propria.

Pensava ancora a questo quando la chiave ha girato nella toppa e si è sentito addosso le mani dell'altro e le sue labbra, quando ha iniziato a scaldarsi, a eccitarsi e a tremare di anticipazione.

E però, allo stesso tempo, gli sembrava di riuscire a guardarsi dall'esterno.

Si è persino detto, mentre Shinoyama gli sfilava il blazer dell'uniforme dalle spalle e le sue mani gli si infilavano un po' ovunque sotto la camicia, che visti dall'esterno, come coppia, dovevano essere uno spettacolo estetico notevole.

«Niente segni!» ha sibilato, ribellandosi alla fitta di piacere dei denti di Shinoyama affondati nella spalla. Niente segni: è una delle regole.

«Fanculo Tsukishima» ha reagito Shuto. Ma ha obbedito, si è scostato e ha iniziato a spogliarsi, con mani ansiose e occhi impazienti.

Kei si è tolto pigramente la camicia e la maglietta e si è preso il tempo di guardare Shinoyama. Sotto i boxer aderenti, il profilo del sesso indurito forma una curva lasciva. Una macchia umida più scura disegna la punta, il cui contorno si intuisce in rilievo sotto la stoffa. Kei adesso vuole toccarlo, più di quanto abbia mai desiderato qualsiasi cosa.

Toccarlo, essere toccato. Venire. Come nella doccia, ma meglio, di più. E' bastarda la potenza di questa biologia, che non fa sconti a nessuno, nemmeno a chi le cose finisce per farle contro natura. Kei è sempre più convinto che la natura non abbia affatto una direzione.

Shinoyama smette di ragionare quando vede Kei leccarsi le labbra, la lussuria gli colora le guance e gli accorcia il respiro.

«Che ne hai fatto degli occhiali?» domanda, mentre lo ghermisce alla vita.

«Lenti a contatto. Dobbiamo fare conversazione?»

«Ah vuoi essere scopato e basta?»

«Perché, tu che cazzo vuoi, Shinoyama? Un anello?»

E' indisponente Tsukishima Kei. E' fastidioso, sempre un passo avanti. Ma ormai Shuto riesce a pensare solo al suo culo, alle natiche tonde, al solco lì in mezzo. A quella schiena bianchissima, che non vede l'ora di coprire.

Gli assalta le labbra, gli infila la lingua in bocca, lo tocca dovunque le mani possano arrivare.

Kei lo lascia fare, e intanto pensa. Non c'è un cazzo da fare, i suoi pensieri non si fermano mai, neppure in mezzo alla saliva, ai risucchi, al calore di quello che, a tutti gli effetti, è il suo primo bacio.

Kei è convinto che la gente normale in questi casi si lasci andare e perda il controllo.

E si stupisce, davvero, si stupisce, che il suo sesso stia per scoppiare fra le dita di Shinoyama, che gli escano respiri strozzati e miagolii ridicoli dalla gola, e in tutto ciò possa stare lì a ragionarci sopra. A chiedersi se e quanto farà male. Se è normale che la saliva di qualcuno sia così densa e così calda. Se dovrebbe sapere di qualcosa di buono, perché, a dire il vero, non sa di niente.

Shinoyama, almeno, sembra perduto. Ha gli occhi chiusi, mugola e intanto gli spinge il bacino addosso, ripetutamente. Quando Kei gli sfiora il sesso con la punta delle dita, da sopra i boxer, trema tutto, geme senza ritegno e gli blocca il polso, per trattenerlo, per forzare il contatto, per sfregare il palmo aperto su tutta la lunghezza. Praticamente si masturba con una mano presa in prestito, a ogni tocco il suo sesso pulsa e si contrae.

«Se vieni adesso ti ammazzo» ringhia Kei, divincolandosi.

E forse esagera, perché gli occhi di Shinoyama si accendono, si libera in un attimo dei boxer e lo afferra da dietro, strofinandogli il cazzo duro contro la schiena, senza ritegno.

Kei sente uno spasmo orribilmente piacevole in mezzo alle gambe, e quell'ossimoro si amplifica nel suo cervello mentre due mani calde lo denudano. Orribilmente piacevole.

Cosa manca? si chiede mentre Shinoyama gli stringe e gli separa le natiche e una voce che non sembra la sua articola suoni a caso.

Cosa cazzo manca? continua a chiedersi mentre un fiume di lubrificante freddo gli cola lungo le cosce e le dita di Shinoyama, prima una sola e poi due, gli incendiano il corpo dall'interno, con uno sciacquio liquido e indecente.

E fa male. E' proprio dolore. Eppure al suo corpo non dispiace. Eppure gli va incontro con il bacino, una fitta bruciante dopo l'altra. Eppure vorrebbe di più, eppure il sesso pulsa e si contrae, gonfio di sangue. E' tutto giusto, ma in qualche modo perverso è anche tutto sbagliato.

E Kei vorrebbe solo che finisse. Come sotto la doccia, con un bell'orgasmo riparatore, fiotti di sperma denso sul metallo lucido degli armadietti e ognuno via per la sua strada, che poi è l'ultima regola: una volta sola.

Kei volta il viso, Shinoyama ha uno sguardo da idiota, sembra incantato a godersi lo spettacolo del suo culo e delle dita che ci spariscono dentro.

«Muoviti!» gli ordina Kei. Spettinato, sudato, le maledette lenti a contatto che gli navigano nelle pupille, perché in una situazione del genere doversi togliere gli occhiali e non vederci un cazzo era inammissibile. Lo vuole proprio vedere un cazzo stavolta. Ne vede due. E gli sembrano così simili che per un attimo tutto perde di senso e l'unica mossa possibile gli sembra quella rassicurante di darsi piacere da solo.

«Muoviti» biascica, di nuovo, mentre si tocca e cerca di ignorare il dolore.

Shinoyama reagisce a quella visione con un suono che sembra un ansito di disperazione. Si afferra il sesso e lo stringe forte alla base, per impedirsi di venire, poi lo allinea con quell'apertura piccola e contratta e cerca di fare esattamente ciò che sogna di fare da sei mesi. Spaccare, sfondare, riempire.

Ma anche per lui è la prima volta. E non ha tempo. Non resisterà molto. Non ragiona, non ha un solo pensiero in testa né un grammo di ossigeno fra le sinapsi: tutto il sangue che ha in corpo è confluito fra le gambe; nel suo cervello c'è un biancore accecante e insensato.

Vorrebbe entrare e spingere ma non ci riesce. Il maledetto buco del maledetto Tsukishima è scivoloso e lo respinge. Shuto afferra i fianchi di Kei per tenerlo fermo e prova ancora, con frenesia e con disperazione. Gli sembra di esserci quasi, ma di nuovo scivola fuori e il sospiro di frustrazione che esce dalla gola di Kei lo incattivisce. Perché lui stesso è frustrato e anche duro come il marmo e se non si dà una mossa, gli verrà sulla schiena come uno stupido dodicenne.

Per un attimo pensa di tirarsi indietro. Di scopargli le cosce e finire in dieci secondi scarsi. E poi imboccare la porta e fuggire. Ma quello continua a voltare la testa e guardarlo con un'arroganza insopportabile.

E allora Shuto vede nero. Lo copre, letteralmente, gli afferra tutto il torso con un braccio e l'altro gli finisce intorno alla gola, la mano aggrappata alla spalla, le unghie nella pelle; inizia a spingere a caso, facendo forza, senza curarsi di quale sia l'ostacolo.

Gli ansima nei capelli, gli preme il petto contro la schiena, spinge con le braccia finché la fronte di Tsukishima non sbatte contro l'armadietto numero sedici...

«Lasciami!» abbaia Kei all'improvviso.

«Zitto...» mugugna Shuto continuando a muoversi.

«Lasciami adesso!»

Shuto non si fermerebbe neppure se entrasse sua madre dalla porta. Sente di esserci vicino, che la punta sta entrando, che l'attrito del preservativo contro la carne, dentro quella fessura rovente, è una delle cose più erotiche mai provate.

Finché lo stronzo di Tsukishima non lo morde. Forte, sul braccio. E poi un gomito incredibilmente appuntito gli arriva dritto fra le costole, facendolo guaire e piegare in due.

«Ti ho detto di lasciarmi!» sibila Tsukishima, con gli occhi fiammeggianti. Si volta e lo spinge via a due mani, con una violenza sproporzionata a un corpo così esile.

«Sei uno stronzo incapace» gli sputa addosso Kei, infilandosi i boxer sopra un'erezione enorme e insoddisfatta.

Shinoyama, nella più assoluta confusione mentale, balbetta insulti e ripiega su una sega frenetica. Tsukishima si riveste in fretta dandogli la schiena, che è un pasticcio umido di saliva e lubrificante.

Quando la porta sbatte, Shinoyama viene schizzando sperma contro il battente. Congratulazioni per il tuo diploma, Shinoyama Shuto. Grazie per il tuo duro lavoro.

Mentre si chiude dentro il suo sgabuzzino e si accascia nel buio, strappandosi le lenti dagli occhi e i vestiti sporchi di dosso, Kei vede con chiarezza la verità. Non più coperta di lussuria, di narcisismo e di arroganza è tutto sommato ovvia: farselo mettere nel culo, in qualche modo significa fidarsi. E quindi non si può scegliere un tizio a caso, solo perché te lo fa venire duro strizzato in un costume da bagno. Perciò, dopotutto, aveva ragione Yamaguchi: ci voleva uno meno stronzo.

All'amore Kei non ci crede. Crede alla biochimica, capace di tenere in ostaggio per mesi un cervello inondandolo a fasi alterne di dopamina e adrenalina, un genere di tossicodipendenza che non ci tiene a sperimentare.

Non crede all'amore, ma al rispetto ci crede. E in questo caso, non ne ha avuto abbastanza per se stesso. E in fondo l'errore è tutto qui.
Tsukishima Kei sbaglia, ma mai due volte nello stesso modo. Sbaglia, ma va avanti sempre.

Le lacrime arrivano quando si rende conto che non sa più neanche se debba considerarsi vergine o meno. Esiste una mezza misura? Inculata parziale per sopravvenuto disgusto e manifesta incapacità. Sembra una diagnosi.

La malattia è l'adolescenza. Che fa davvero schifo.

Merdoso, è l'aggettivo giusto, realizzato fra un singhiozzo e l'altro.


Alla fine passa. Passa come un'onda di maremoto, che lascia dietro di sé rottami e cadaveri, ma a un certo punto si ritira e l'oceano non è mai stato così calmo.

Passa. E Kei può soffiarsi il naso con la camicia bianca dell'uniforme di una scuola che sta per lasciare. Può infilarsi gli occhiali. Indossare la tuta di ricambio. Ravviarsi i capelli con la mano. Può alzarsi e rimettersi addosso la sua solita faccia scontrosa.

Passa. E Kei scopre di aver imparato qualcosa di nuovo, di aver fatto un lungo, faticoso passo avanti. Di essere più forte. 
Strappa via la coccarda del diploma dal risvolto della giacca e se la getta alle spalle; finisce nella polvere insieme alla verginità, accanto a una mazza da croquet scrostata e un vecchio ferro da calza.

Cresciuto è l'aggettivo giusto.

 

   
 
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