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Autore: Glenda    12/12/2022    2 recensioni
La storia si ambienta in una nazione immaginaria di un paese immaginario, in un tempo non definito, ma in realtà non così diverso da una qualunque luogo in Europa oggi.
Noam Dolbruk, giovane attivista politico, da poco eletto in parlamento, pieno di carisma e buone intenzioni ma originario di una terra piena di conflitti, ha ricevuto una serie di minacce che lo hanno costretto a essere messo sotto protezione. Adrian Vesna, l'uomo che gli fa da guardia del corpo, ha un passato che gli pesa sulle spalle e nessun desiderio di inciampare in rapporti complicati. Ma con un uomo come Noam i rapporti non possono non complicarsi, e non solo per via del suo carattere bizzarro, quanto per gli scheletri dentro il suo armadio.
Questa non è una storia di eventi ma di relazioni: è la storia dell'incontro e dello scontro tra due diversi dolori, ed anche la storia di un'amicizia profonda, con qualche tono bromance. Ci sono tematiche politiche anche impegnative ma trattate in modo non scientifico, servono solo come sfondo alle dinamiche interpersonali.
(Storia interamente originale, ma già circolata in rete, che ripubblico qui per amore dei personaggi e piacere di condividerla con altri lettori)
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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“Ma che accidenti è successo? Siamo per caso due bestie feroci, Lant ed io?”

Noam ricordava Mòrask transennata e invasa dalla polizia, ricordava quell’atmosfera blindata che aleggiava in piazza Vittoria ad ogni Festa della Repubblica, ma lo spettacolo cupo che si spalancava davanti ai suoi occhi andava oltre ogni peggiore immaginazione. C’erano in giro più truppe antisommossa che abitanti!

“Nella visione di chi allestisce la scena, non siete voi le bestie: sono tutti gli altri.” commentò Adrian con un sorriso indolente.

“Porca miseria, mi sento in imbarazzo!”

Ma non era solo imbarazzo.

Era qualcosa di più vicino alla vergogna: vergogna di essere la causa dello scempio fatto alla sua città e vergogna nei confronti di chi trattava la sua gente come un branco di criminali, di chi aveva ridotto Mòrask ad una specie di zona di guerra, ovvero vergogna per le stesse persone con cui lavorava, per il lato della barricata da cui aveva scelto di trovarsi, e, in sostanza, per se stesso.

Si immaginò a vent’anni, quando ancora aveva il diritto di indignarsi apertamente, quando era lui a sfidare gli scudi ed i manganelli con uno striscione sollevato, quando disponeva omini di carta per le strade sotto la neve: come si sarebbe posto il Noam di allora di fronte al Noam politico che si presentava lì a fare campagna elettorale, a imbonire coi buoni propositi, a promettere cambiamenti e a chiedere alla gente di accettare, di fatto, i suoi compromessi? Che idea si sarebbe fatto di un uomo che parla a debita distanza, tenuto al sicuro da staccionate e divise? Davvero c’era una possibilità di non perdere ogni credibilità, in quelle condizioni? E i suoi colleghi, il governo, l’amministrazione, la polizia… credevano davvero che questa pagliacciata significasse “sicurezza”? Pensavano di proteggere la sua vita?

“Lo so cosa stai pensando…” disse Adrian strappandolo alla sue rimuginazioni.

“Davvero? Prova.”

“Che sono tutte paraculate.”

A Noam sfuggì un sorriso.

“Eheh… Già. Il mio dubbio è se dovrei starci o no. Se dovrei…”

“Se dovresti cosa, Noam? Ignorare ogni precauzione, per quanto esagerata sembri, per dimostrate di avere sufficiente arbràsk? Non ne hai bisogno. Sei comunicativo abbastanza da ignorare le barriere emotive, figuriamoci due palizzate…”

Noam si stropicciò la testa e arrossì.

“Wow.”

Mòrask sul finire d’ottobre era gelida e grigia: gli alberi avevano già perso quasi tutte le foglie trasformandosi in ampie ragnatele scure che si intrecciavano sui viali, il cielo era costantemente coperto di nuvole gonfie e la pioggia cadeva spesso, lenta e metodica, a cordicelle sottili talvolta quasi impercettibili, ben diversa dagli improvvisi e vertiginosi temporali primaverili. Solo le montagne in lontananza tingevano l’atmosfera di un amabile azzurrino. Ci sarebbe voluta la neve per restituire alla città la sua fatata aura invernale.

A volte Noam si chiedeva se non fosse a causa di quell’assenza di colori che il Dàrbrand abbondasse tanto di persone coi capelli rossi: la natura doveva pur distribuire un po’ di luce da qualche parte. Di certo, lui ne sentiva il bisogno, perciò aveva messo in valigia gli abiti più variopinti che aveva: righe, quadretti e maglioni dalle tinte calde. Niente abiti da cerimonia, per parlare in pubblico a Mòrask: e quella sarebbe stata, davvero, la prima volta che avrebbe parlato in pubblico a Mòrask, la prima da quando se ne era andato, la prima in un ruolo che non era quello dell’agitatore. L’altro lato della barricata. Dio. Si sentiva così confuso…

Svuotò lentamente la valigia riponendo le sue cose ad una ad una nell’armadio a muro del piccolo appartamento in cui si erano sistemati. Avevano cambiato di nuovo strategia: niente alberghi, a quel giro, ma un anonimo buco in affitto al terzo piano di uno stabile per i due terzi vuoto, poco distante dal Piazza del Campanile, dove si sarebbe tenuto il comizio l’indomani.

Sarebbero rimasti lì due sole notti, forse persino una soltanto: Adrian era convinto che fosse meglio trattenersi in città solo lo stretto necessario ed era disposto a ripartire a manifestazione finita, a costo di guidare l’intera notte, se nessuno li avesse trattenuti.

“Andiamo a farci un giro.” disse Noam, richiudendo l’armadio e indossando al volo un maglione oversize di un rosso sfacciato “A mangiare qualcosa. A bere.” gli strizzò l’occhio “Soprattutto a bere!”

“Hai un discorso domani.”

“Ecco. Ho un discorso domani!”

Confuso.

Si sentiva così confuso.

Tutto stava rotolando, tutto era velocemente rotolato fino a portarlo lì, ad avere un discorso domani.

Era stata la sua decisione (o la sua non-decisione) a portarcelo.

Aveva ricevuto una richiesta da Segùr, aveva avuto paura delle sue previsioni, aveva per un momento sinceramente pensato di assecondarlo.

Poi aveva incontrato i suoi fratelli, Trexìa ed Alma che credevano in lui, Dzjorzj che continuava a dargli fiducia, nonostante quello che tutti e tre dovevano aver passato a causa sua.

Non poteva tirarsi indietro.

Che avrebbe pensato Thièl? Che non era capace neppure di affrontare le conseguenze della sua fuga?

No, lui doveva dimostrare che non era stato tutto inutile.

Doveva vincerle, quelle elezioni.

Doveva accettare il rischio, anche se quel rischio coinvolgeva Lant.

Eppure, ogni volta che gli tornavano alla mente le parole di Segùr si rivedeva in quella galleria: fumo e macerie e tutto il mondo che crollava.

Perché Segùr lo aveva voluto a Mòrask?

Perché, se il suo desiderio era che Màrna perdesse?

Voleva fargli pagare il rifiuto della sua complicità?

Voleva metterlo nella condizione di aver paura?

Ma perché, perché allora lo aveva trattenuto sulla porta chiamandolo per nome, per poi non dirgli ciò che forse per un attimo aveva desiderato di dirgli?

E che cosa, maledizione, aveva desiderato di dirgli?

Tutto era confusione.

Aveva bisogno di scivolare nebbiosamente nel domani.

Aveva bisogno di abbracciare quella confusione.

“Stasera devo uscire Adrian. Con te o senza.”

“Non mi sfidare, testa matta.”

Simulò una buffa faccia implorante.

“Per favore…?”

Adrian sbuffò e si rimise svogliatamente il cappotto, abbozzando un sorriso che somigliava ad una mano sulla spalla.

“Non avrò pietà per nessun lancia-pietre.”

 

***

 

Al K-32 faceva tremendamente caldo e c’era moltissima gente, tanto che Adrian guardava Noam con l’espressione risentita di chi si sente trascinato in una brutta situazione. Sedettero di fronte al tavolo-bancone (che si era allungato di un paio di assi in più, sostenuti con un’impalcatura improvvisata), schiacciati e spintonati da ambo i lati, e Noam dovette fare qualche acrobazia per sfilarsi il maglione e legarselo in vita.

“Sarebbe questa la tua sfida alla paraculaggine delle transenne?”

“Può darsi!”

Adrian si sforzava di essere ironico, ma Noam avvertiva che lo stava assecondando per fargli piacere e che essere lì gli costava un grande sforzo. Era all’erta, nervoso, con gli occhi ovunque: la sua tensione vibrava nell’aria.

“Ti hanno mai detto che a volte ti comporti come un adolescente cretino?”

“Mm… credo che tu me lo abbia detto spesso e in svariati modi!”

“E invece di meditarci su, te ne fai un vanto.”

“Sì. Mi piacciono gli adolescenti cretini!”

I due o tre barman improvvisati non avevano ancora rivolto loro la parola: non c’era urgenza di chiedere le consumazioni a tutti in serate come quelle, tanto era chiaro che l’incasso finale avrebbe pareggiato il bilancio della Tana per il resto del mese!

Tuttavia, quando l’uomo della volta precedente si accorse di loro i suoi occhi si strinsero in due piccole fessure.

“Mi ricordo di te, forestiero” disse, avvicinando la grossa testa a quella di Noam e abbassando il tono, nonostante il largo vociare di sfondo richiedesse di fare altrimenti “Quella sera avrei dovuto riconoscerti, ma ho fatto mente locale solo dopo.”

Lo sguardo di Adrian ebbe un guizzo, ma Noam gli fece cenno di stare tranquillo.

“Chi avresti dovuto riconoscere? Il personaggio che hai visto in TV o lo studente che ha fatto qui la sua festa di laurea?”

“Entrambi, figliolo: ma è il primo dei due che forse non si trova dove dovrebbe essere.”

Adrian fece un cenno di approvazione, ma contemporaneamente si irrigidì.

“Invece questo è proprio il luogo in cui voglio essere” fece Noam “ed oggi non intendo raccontare balle né all’oste né ad altri.” si aggiustò sullo sgabello e alzò lievemente la voce, permettendo ai vicini di sentire.

Il volto dell’uomo si fece cupo. Quello di Adrian pure.

“Perché oggi e non la volta scorsa?”

“Perché la volta scorsa ero venuto per bere con lui.”

E inclinò la testa in direzione dell’amico.

“E stasera… ?”

Noam sfoderò il migliore dei suoi sorrisi.

“Stasera sto facendo propaganda!”

Indicò una bottiglia ad uno dei ragazzi con l’inequivocabile gesto di riempire un bicchiere.

“Mi correggo, stasera sono venuto a bere, ma anche a fare propaganda.” rivolse lo sguardo alle persone più vicine di cui aveva inesorabilmente catturato l’attenzione “Io non amo la propaganda, e amo ancora meno coloro che fanno propaganda in continuazione dicendo che non è così: la gente che fa propaganda parlando di musica, di letteratura, persino del tempo… A me piace dire le cose che mi vanno, mi piace parlare con la gente, mi piace – e pure un po’ troppo – parlare per il gusto di farlo, ohimè! Ma se vengo in una Tana di sabato sera, mi siedo, ordino da bere e non tengo nascosta la mia identità, beh, questa è chiaramente propaganda.” spaziò con gli occhi sulla sala quasi a constatare l’entità dell’effetto delle sue parole, ma incontrò quelli di Adrian, che aveva finalmente capito il suo piano e stava scuotendo impercettibilmente la testa “Non ho niente da temere da questo posto.” dichiarò Noam, facendo cenno con un dito al suo bicchiere vuoto “Non ho niente da temere dalla gente di Mòrask. Questa è ancora casa mia.”

Il ragazzo dietro il bancone, che era rimasto per un attimo fermo ad ascoltare, gli versò del vino “E come dirgli di no?” ridacchiò, rivolto prima all’omone e poi a Noam “Alla salute di Noam Dolbruk e delle tane!”

Noam batté il fondo del bicchiere sul tavolo, in un gesto che venne imitato da qualche altro dei presenti, poi lo vuotò in un solo sorso.

“Alla salute delle tane!” esclamò.

  
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