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Autore: Adeia Di Elferas    25/01/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
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Lorenzo stava camminando a passi veloci e furiosi verso palazzo Medici. L'udienza che si era appena chiusa gli era sembrata una farsa.

Era come le accuse sempre più serpeggianti in Firenze, che lo volevano unico artefice di ogni disgrazia della Repubblica, fossero entrate in aula, andando a annebbiare tutto il resto. Addirittura, durante una pausa, aveva sentito più di una persona citare con sdegno il suo rifiuto, risalente ormai a quasi tre mesi prima, di presenziare al banchetto con cui si era festeggiato l'insediamento di Soderini come Gonfaloniere a vita...

Dov'era finita la giustizia? Dov'era finito il buon senso? Cosa c'entravano tutte quelle cose con il processo che vedeva fronteggiarsi lui e Caterina Sforza?

Era come se adesso che Jacopo Salviati era ambasciatore presso il Valentino, tutto quello che era stato fatto e detto prima della sua nomina non fosse altro che un intrico torbido, atto a far precipitare Firenze in una trappola. Solo adesso che il Salviati – o meglio, sua moglie Lucrezia Medici, che lo comandava come un burattinaio – aveva preso in mano la situazione, si vedeva uno spiraglio per la Repubblica...

Il Popolano, finalmente in vista di casa, scosse tra sé il capo, stringendosi il più possibile nelle spalle, per far fronte al vento freddo che spirava nella via Larga. Com'era possibile che un tribunale giusto trattasse in modo così poco equanime lui, un cittadino di Firenze, e una donna come la Sforza, che aveva fatto dei sotterfugi e degli inganni uno stile di vita?

Il Medici, tramite i suoi legali, aveva chiesto che la sua contendente alla custodia di Giovannino producesse i propri libri contabili, sicuro che avrebbero dimostrato che lei gli era debitore di quattromila denari. Il rappresentante di quella disgustosa donna aveva mostrato le carte risalenti al 1497, 1498, 1499 e 1500, e non c'era traccia del debito, anzi, sembrava che lo stesso Lorenzo fosse debitore di quella cifra.

La cosa che più lo aveva fatto infuriare era stato il modo insinuante con cui il legale della milanese aveva sottoposto la questione, lasciando intendere che la Sforza era disposta a soprassedere a certi crediti maturati verso Lorenzo, avendoli, a suo tempo, maturati con Giovanni che le era stato molto caro in un primo momento e legittimo marito in un secondo.

Il Popolano aveva fatto in modo che i suoi rappresentanti non si dessero per vinti e ribadissero la realtà dei fatti, sottolineando come la donna dovesse anche rimborsare le spese che attualmente il Medici stava sostenendo per mantenerla. Tutto ciò che la corte era stata in grado di ribattere, però, era stato che la Sforza aveva prodotto quanto richiesto, mentre Lorenzo no.

Dunque la seduta si era sciolta con un ulteriore ingiunzione al Medici di portare i propri libri entro e non oltre l'udienza fissata per il 20 di quello stesso mese, uno sprone che il Popolano aveva letto come un castigo.

Quando l'uomo entrò in casa propria, il mantello inumidito e la testa persa nelle sue congetture, quasi non si accorse della voce di sua moglie Semiramide. Stava parlando con Pierfrancesco, ma il ragazzo era in silenzio, apparentemente disinteressato ai discorsi della madre.

“Fornire un tetto ai beccai era il minimo che si potesse fare...” stava dicendo lei, con tono pratico e con la fronte aggrottata: “E le bottegucce che hanno fatto tutt'attorno erano un'altra cosa di cui Firenze avrebbe dovuto occuparsi già da molto tempo...”

“Ma perché sprechi fiato a parlare di cose che non capisci?” l'attaccò Lorenzo, non appena capì di cosa stesse parlando: “L'organizzazione di questa città esula dalle tue conoscenze... Altrimenti capiresti che tutte queste cose non contano nulla...”

Il figlio diciassettenne del Popolano guardò il padre con aria allarmata, poi dedicò uno sguardo dubbioso alla madre e nel vederla avvampare, ma non controbattere, non riuscì a trattenere una smorfia di impazienza e, senza dire nulla, passò accanto ai genitori e si allontanò a passo svelto.

“Avresti potuto evitare...” sussurrò l'Appiani, mentre il Medici restava fermo al suo posto, squadrandola in modo strano.

Lorenzo, proprio mentre cercava le parole per ribattere e provare a scaricare un po' della propria rabbia sulla moglie, avvertì una fitta incoercibile nel centro della fronte. Si portò una mano alla testa, lasciando scivolare la punta delle dita fino alla tempia, e serrò con forza gli occhi. Gli parve di restare in apnea per almeno un minuto, e solo quando dischiuse di nuovo le palpebre si rese conto che la moglie gli stava parlando.

Con ostentato distacco, ma con una vena di preoccupazione impossibile da nascondere, Semiramide si era un po' protesa verso di lui e stava chiedendo: “Stai bene..? Vuoi sederti? Lorenzo, come stai..?”

L'uomo ci mise qualche secondo a capire le parole dell'Appiani. Gli sembrava che la sua voce creasse un frastuono disordinato, ma grossomodo ricostruì il senso delle sue domande.

“Non ti interessa, come sto...” farfugliò lui e, scuotendo con forza il capo, alzò anche una mano, come a voler aumentare la distanza tra loro.

Semiramide, che pur ribolliva di rancore nei confronti del marito, nel vederlo tanto sconvolto non poté fare a meno di provare a seguirlo, e di accertarsi una volta di più della sua salute. Il fiorentino, però, non gliene diede il modo. Camminò rapido, anche se un po' ciondolante, fino alle sue stanze e poi, senza dire una parola, vi si chiuse dentro.

“Tutto bene, mia signora?” chiese una serva, vedendo l'Appiani immobile davanti alla porta chiusa.

La donna si morse il labbro e poi, con durezza, si scrollò di dosso la domestica dicendo semplicemente: “Mio marito è ubriaco. Meglio non disturbarlo finché non sarà lui a uscire...”

 

Caterina aveva ascoltato con un certo distacco il resoconto puntuale che Fortunati le aveva fatto dell'udienza di quel giorno. Le sembrava una buona cosa che la corte avesse imposto anche a Lorenzo di onorare i patti, portando i propri documenti, ma non le pareva che per lei ci fossero grosse novità in vista.

Odiava quel modo di fare giustizia, quelle lunghe arringhe ed eterne discussioni che portavano solo a nuove arringhe e nuove discussioni... A Forlì, avrebbe risolto la questione in modo molto più efficiente e veloce.

L'unica cosa positiva, di quel giorno, si dimostrò essere una visita a sorpresa da parte di Scipione Riario che si era annunciato come di passaggio, diretto a Bologna.

“Perché mai stai andando a Bologna?” chiese Caterina, dopo cena, quando si trovarono tranquilli e da soli.

Il giovane si grattò un istante il mento e poi iniziò a dire: “Ottaviano mi ha scritto... E non mi sembra che stia facendo un bel lavoro, in Emilia.”

La Tigre, che aveva deliberatamente evitato di leggere le ultime missive del suo primogenito, rimase in attesa di ulteriori spiegazioni, temendo all'improvviso che Fortunati non le avesse riferito i punti veramente salienti di suddetti messaggi.

“Vorrei, con il tuo benestare, convincerlo a lasciare Bologna e tornare qui e lasciare a me il compito di farci degli amici al nord.” spiegò Scipione, muovendosi un po' a disagio sulla poltroncina.

La Sforza, che teneva in mano un calice colmo di vino dolce, dovette trattenersi dal lasciarsi andare a un moto violento di repulsione. Si portò il bicchiere alle labbra, sperando che un po' di quel nettare dorato che chiamavano vin santo potesse calmarla, e poi si schiarì la voce.

“Se farai tornare qui Ottaviano, adesso... Adesso che ho qui Pier Maria, adesso che ho il processo, adesso che ancora non so come stia mia figlia... Se lo farai, sappi che non ti rivolgerò mai più la parola.” disse, a voce bassa.

Il Riario incrinò le labbra da un lato e ammise: “Immaginavo che avresti detto qualcosa del genere...” si grattò il naso e poi, più per imitazione che per altro, sorbì a sua volta un po' di vino e riprese: “Allora lascia almeno che lo affianchi per un periodo. Di sé, e quindi di tutti noi, sta dando solo un'immagine lasciva e inaffidabile. Lascia che mi muova io coi Bentivoglio, che mi confronti con Gian Piero Landriani a Milano... Lascia che lo faccia.”

“A patto che nessuno possa incolpare me per questa tua idea.” accettò la donna, senza troppi problemi.

Si fidava, in effetti, molto di più di un uomo come Scipione, che le aveva dimostrato tante volte il suo valore e la sua lealtà, che non di Ottaviano.

“Presto anche Bartolomeo d'Alviano cercherà un contatto coi Bentivoglio... Voglio esserci.” si premurò di specificare il giovane.

La Leonessa gli chiese di spiegarsi meglio e il Riario le riassunse i fatti che avevano coinvolto Pantasilea Baglioni e che ormai erano di dominio pubblico. Inoltre Scipione era venuto a conoscenza, per vie traverse, della presenza di Giampiero Baglioni presso Pandolfo Petrucci e sapeva che l'uomo aveva fatto sapere di voler raggiungere il cognato a Rimini.

“Credi lo farà davvero?” si informò la Tigre che, malgrado tutto, non riusciva a provare l'interesse necessario, per quei maneggi, per quanto ne capisse l'importanza ai fini del quadro politico italiano.

“Sarebbe come dire al Valentino di inseguirlo in Romagna... No, non credo lo farà. Inoltre, se l'Alviano sta già andando verso Bologna...” soppesò il Riario, finendo il suo vino.

Non ci fu bisogno di aggiungere altro, specie perché la milanese si era estraniata per qualche secondo, lasciando al figlioccio il tempo per versarsi ancora un calice e rilassarsi un momento.

“Ci sono altre novità? Tu che vivi in città, avrai sentito qualche cosa... Cosa sta succedendo nel resto dell'Italia?” domandò la Sforza, accigliandosi.

Scipione raccontò di come avesse sentito parlare, anche se molto vagamente e solo da qualche mercante che arrivava da lontano, delle terre che si diceva fossero state scoperte al di là del mare, qualche anno prima. Si parlava di frutti strani e di stranissimi uomini, di animali mai visti e di una gran quantità di altre bizzarrie, ma, per il momento, pareva che solo le grandi corti potessero permettersi un'anteprima di tutte quelle novità.

“Un nuovo mondo...” commentò Caterina, disillusa: “Non riusciamo nemmeno a far funzionare quello che abbiamo, figuriamoci imparare a usarne uno nuovo...”

Il Riario sorrise e si disse d'accordo e poi si ricordò di un altro argomento che avrebbe potuto interessare la sua interlocutrice: “Te lo ricordi Prospero Colonna?”

“Eccome.” rispose subito lei, riportando alla mente il condottiero che doveva avere una decina d'anni circa più di lei e contro cui aveva combattuto da ragazza, durante la guerra che aveva visto contrapporsi Orsini e Colonna: “Che ha fatto?”

“Pochissimi giorni fa, ha sconfitto i francesi a Barletta, in una strana scaramuccia...” iniziò a raccontare il giovane.

Le spiegò che, non aveva ben capito per quale ragione, ma pensava una questione di scambio di prigionieri, le fazioni spagnola e francese erano arrivate ai ferri corti, in Puglia. Il Colonna, assieme al cugino Fabrizio, militava per gli spagnoli ed era ai comandi del Gran Capitano Consalvo da Cordoba.

“Dicono che Consalvo sia diventato amante di tua cognata Isabella in autunno... Perché dicono che lei avesse paura che lui le requisisse Bari e la consegnasse al re di Spagna...” aggiunse, come inciso, il Riario.

“Mi auguro che almeno questo Consalvo sia un bell'uomo.” fu l'unico commento di Caterina, che ricordava molto bene le chiacchiere che volevano l'Aragona amante anche di Prospero Colonna.

Per esperienza diretta, sapeva che poteva benissimo essere, specie per una donna con un discreto potere, intrattenere più amanti anche contemporaneamente, tuttavia voleva restare cauta, nelle sue valutazioni, conoscendo la malvagità delle lingue pettegole.

Scipione riprese spiegando come si fosse deciso di risolvere la diatriba tra spagnoli e francesi con uno scontro tra campioni: tredici per parte.

Louis d'Armagnac, capitano per conto di re Luigi XII, aveva scelto tredici francesi, mentre i Colonna avevano consigliato accuratamente a Consalvo di scegliere tredici italiani.

I francesi erano sicuri di vincere specie perché le truppe spagnole avevano fame e i loro cavalli non avevano biada da giorni. Era stata, si diceva, Isabella d'Aragona a far arrivare, per mezzo del suo uomo di fiducia, tal Capitano Lamberti, tredici cavalli freschi e forti, per soccorrere il suo – o forse sarebbe stato meglio parlarne al plurale – amante.

Prospero Colonna aveva scelto con cura le armi da dare ai suoi campioni: due lance, più lunghe di quelle francesi, e due stocchi, di cui uno fornito di punta robustissima, da bloccare all'arcione di sinistra, e l'altro da tenere sul fianco destro, adatto a ferire sia di punta sia di taglio. Al posto della mazza ferrata che tutti si aspettavano, i cavalieri avevano in dotazione una scure. Per le emergenze, il Colonna aveva fatto sistemare in terra due spiedi per ciascun cavaliere.

I cavalli della Duchessa di Bari erano stati coperti con frontali di ferro, armature al collo e barde di cuoio dorate e variopinte.

Caterina ascoltava rapita, mentre il Riario raccontava di come il campo di combattimento fosse stato disegnato con l'aratro, in territorio veneziano. Quasi come una bambina, la donna trattenne il fiato nel sentire il premio stanziato a cento ducati a testa, con armi e cavalcature dei perdenti.

Scipione, più per far felice la milanese che non perché conoscesse davvero quei dettagli, si sprecò in una lunga descrizione dello scontro, descrivendo con dovizia di particolari ogni duello, ogni imprecazione e perfino il suono sordo dei cavalieri che venivano disarcionati.

“Alla fine Consalvo ha ordinato cavalieri tutti i suoi campioni, risultati vincenti.” concluse il giovane: “Ha donato a ciascuno una collana composta da tredici anelli d'oro, con il permesso di aggiungerla ai rispettivi stemmi di famiglia.”

La Tigre aveva ancora gli occhi che luccicavano, immersa nella battaglia che aveva appena sentito descrivere, e non si trattenne da un'esternazione scurrile, che finì con un più pacato: “Quei dannati francesi se lo meritavano, di venir battuti dagli italiani!”

“E pensa – sorrise l'uomo – che i francesi erano così sicuri di vincere, da non aver depositato in anticipo al loro giudice di campo, com'era negli accordi, i milletrecento ducati da dare ai nemici, se avessero vinto... E così quando Diego De Vera, il giudice di campo spagnolo, ha chiesto al francese la consegna della posta, lui non sapeva che fare... Dicono che i francesi abbiano dovuto lasciare i loro campioni in ostaggio, finché non verrà saldata l'intera cifra...”

La Tigre rise di gusto, sbeffeggiando con qualche bestemmia colorita la vanagloria dei francesi, e il Riario non poté che farle eco. Benché fosse abbastanza pacato, come persona, era pur sempre stato un soldato della Leonessa, e aveva imparato ad apprezzare quel genere di scambi camerateschi.

Finite le risate, però, Caterina si fece malinconica. Bevve qualche sorso di vino, che, pur se dolce, le parve stranamente amaro.

“Che c'è?” chiese il Riario, cogliendo quel cambiamento repentino.

“Mentre raccontavi...” sospirò lei, poi scuotendo il capo: “Stavo solo pensando che... Io probabilmente non andrò mai più in battaglia... Né cavalcherò alla carica, né brandirò mai più il mio spadone...”

“Però potresti insegnare a Giovannino a farlo.” cercò di risollevarla il giovane.

La Sforza lo fissò per un lungo istante e poi concluse: “Chi può dirlo... Magari vorrà fare il prete...”

“Coi genitori che l'hanno dato alla luce, lo dubito fortemente...” commentò l'altro, allegro.

“Giovanni non era un guerriero...” gli fece notare Caterina: “Era un uomo tranquillo...”

“Ma ha sposato te...” concluse lui, con un sospiro, alzandosi dalla poltroncina e sbadigliando: “Non penso fosse un uomo pacifico come sembrava, se ha intrapreso una campagna del genere...”

Mentre si congedavano per la notte, il Riario le chiese se Bianca fosse stata felice di partire per andare finalmente a sposarsi con l'uomo che amava.

Soddisfatto nel sentire la risposta affermativa della milanese, propose: “Tornando da Bologna, potrei fermarmi qualche giorno da lei...”

“Probabilmente sarà ancora a Roma, quando rientrerai... Non so quanti mesi si fermerà, alla corte del papa...” soppesò Caterina, che pure sarebbe stata felice di sapere che Scipione sarebbe andato da Bianca, controllando de visu come stesse.

“Allora potrei fermarmi a Roma...” disse lui, cauto.

“Non fare lo sciocco... Per te Roma è ancora troppo pericolosa.” tagliò corto la donna: “Ora vai a riposarti, e stai tranquillo: Bianca è sicura dell'uomo che ha scelto, e io mi fido di lei. Andrà tutto bene.”

 

Il viaggio verso Roma era stato travagliato e funestato dal mal tempo, ma Bianca non si era mai persa d'animo. Con lei c'era Creobola, che, pur non essendo una compagnia propriamente rilassante, aveva dimostrato di sapersi comportare, all'occorrenza, come una vera amica.

Aveva coperto egregiamente le sue nausee, aveva finto malesseri inesistenti per convincere la piccola carovana a fermarsi solo per lasciar riposare la Riario, e, soprattutto, l'aveva distratta con le sue chiacchiere nei momenti in cui la ragazza si era sentita sopraffare dalla circonstanze.

Erano arrivati in vista dell'Urbe in un tardo pomeriggio, mentre cominciava a venire buio. Il febbraio di quell'anno minacciava di essere freddo quanto il gennaio e la figlia della Tigre si sentiva scossa fin nelle ossa, come se nemmeno la cappa pesante cavallerescamente offerta da uno degli uomini di scorta potesse scaldarla.

Alla porte di Roma erano attesi: passarono senza problemi, ma, a differenza di quanto aveva pensato la ragazza, non andarono subito a presentarsi in Vaticano. Raggiunsero il palazzo che li avrebbe ospitati nei giorni a venire e la Riario venne subito portata nelle sue stanze, assieme alla sua accompagnatrice, senza una precisa spiegazione riguardo al da farsi.

Arrivata l'ora di cena, fu certo che per il momento non si sarebbe mossa da lì, quindi Bianca decise di sfruttare quelle ore per riprendersi dal viaggio durato giorni. Anche se moriva dalla voglia di rivedere Troilo, non poteva darlo troppo a vedere: nessuno avrebbe creduto che una sposa di guerra, un trofeo, come veniva chiamata da qualcuno, avesse tanta voglia di incontrare l'uomo che l'aveva vinta.

Così chiese un bagno caldo che, dopo qualche rimostranza da parte del padrone di casa – un prelato che non conosceva, ma che si era fatto garante, su ordine del papa, della sua custodia – le venne preparato direttamente in stanza. Si lavò con cura, assaporando il calore dell'acqua, e poi si cambiò e andò a dormire, dopo aver mangiato appena qualche pezzo di formaggio.

Il giorno dopo, finalmente, attorno all'ora di pranzo – come disse Creobola: “A Roma, prima di mezzogiorno non si muove una foglia...” – Bianca venne convocata per raggiungere il Vaticano, dato che il suo promesso sposo aveva espresso il desiderio di vederla.

La giovane sapeva quanto fosse importante non dimostrare grande trasporto, specie perché, pur in assenza del papa, ci sarebbero stati occhi e orecchie sufficienti a far sapere al Santo Padre ogni cosa di quell'incontro.

La strada che fecero per raggiungere i palazzi vaticani non sfiorò nemmeno l'attenzione della Riario, né la giovane registrò il nome del posto in cui erano diretti, né i volti degli altri presenti.

L'unica cosa che vide fu il profilo alto e slanciato del De Rossi, l'unica cosa che sentì fu la sua voce, profonda e calma, che la salutava in modo formale, chiamandola 'Madonna Riario' e l'unica cosa che avvertì fu la sua presa salda, mentre le prendeva la mano per portarsela alle labbra e baciarla.

Bianca sentiva dentro di sé un fuoco che non accennava a spegnersi. Non avrebbe saputo dire nemmeno lei con quale forza stesse combattendo contro la voglia di saltare al collo dell'uomo che amava e baciargli le labbra. Quel lieve contatto che lui le stava offrendo, andando già oltre ciò che i presenti si aspettavano, la stava facendo ardere ancora di più, provocandole quasi un dolore fisico.

“Mi avete trovato una moglie bellissima!” esclamò Troilo, rivolgendosi agli uomini che gli stavano alle spalle, verosimilmente parte di coloro che avevano, sulla carta, fatto da mediatori per le nozze.

Anche lui stava facendo fatica a mantenere viva la recita. Aveva lasciato con riluttanza la mano della sua donna e ancor di più gli risultava ostico staccare il suo sguardo dagli occhi blu della Riario.

Tuttavia sapeva bene quanto lei quanto fosse importante non sollevare dubbi e sospetti, mentre erano a Roma, perciò fece un paio di passi indietro e le parlò come se tra loro non ci fosse nemmeno un briciolo dell'intimità e della confidenza che in realtà avevano: “Mi auguro che vi troviate bene, qui a Roma. Sarà mia premura far sì che sappiate la data esatta delle nostre nozze non appena il Santo Padre la comunicherà a me.”

Bianca fece una breve riverenza, arrossì appena, abbassando lo sguardo come se fosse davvero in soggezione davanti a quel condottiero tanto più adulto e grosso di lei, e rimase in silenzio, pensando che da lei quello ci si aspettasse.

“Questa sera – disse uno degli uomini che stava alle spalle del De Rossi – siete ospite, con la vostra dama di compagnia, presso il desco papale... Non assicuriamo che il pontefice ci sarà, ma è importante che voi ci siate: troppi, qui a Roma, dubitano della vostra esistenza.”

La Riario dovette fare un'espressione più interrogativa di quanto volesse, perché l'uomo rise e, guardando con aria cameratesca i suoi compari, dovette cercare le parole giuste per qualche istante.

Alla fine esclamò: “In pochi, ricordando vostra madre, credono che esista una figlia della Tigre tanto graziosa ed educata... Molti si aspettavano che la sua unica figlia femmina fosse come un figlio, ma dotato di sottana e...”

“Basta così.” intervenne Troilo, secco, intuendo dove la battuta di Scaramuzza Trivulzio stesse per andare a parare e volendo risparmiare alla sua amata l'imbarazzo di tanta volgarità: “Adesso è tempo di ritirarci. Ci vedremo questa sera al banchetto.”

La Riario attese la sera come un naufrago una scialuppa. Sapeva bene che non avrebbe quasi avuto modo di parlare con Troilo, né tanto meno di toccarlo di nuovo, ma le bastava poterlo rivedere.

La cena era stata organizzata in modo sontuoso, ma Bianca capì subito le intenzioni pontifice: il papa voleva farla sentire a disagio. Al tavolo, oltre al suo promesso sposo, assieme agli stessi uomini che gli avevano fatto da scorta quel giorno, c'erano solo soldati e – la ragazza ne fu certa dopo poche parole – qualche scudiero. Sboccati, disordinati e chiassosi, quegli uomini erano stati scelti di certo per metterla in difficoltà e farle rimpiangere la tranquillità della casa che aveva lasciato.

Si trattava, però, di una mossa ingenua, da parte del Borja... Bianca era cresciuta in una rocca militare e, anzi, le ci volle tutto il proprio autocontrollo per non cedere alla tentazione di unirsi a certi fraseggi o di ridere a certe battutacce.

Troilo continuava a guardarla di straforo, controllando come stesse, ma, soprattutto, riempiendosi gli occhi della sua immagine. Gli sembrava impossibile, ma ogni volta che la osservava, gli sembrava sempre più bella. I capelli biondi, pettinati alla moda di Roma, le iridi blu scure, come un mare in tempesta, la pelle quasi diafana, che risplendeva ancora di più alla luce delle candele...

Quando il banchetto finì, Creobola scortò fuori la Riario con lo stesso cipiglio di un generale, e, quando furono relativamente sole, lungo la via che le avrebbe portate al portone oltre il quale il calesse le attendeva, sussurrò: “Furbo, il papa... Voleva indurvi a rivelare una natura diversa da quella che mostrate... Se vi foste lasciata trascinare da quei mascalzoni, domani in tutta Roma avrebbero detto che la figlia della Tigre di Forlì è una sgualdrina tale e quale alla madre...”

Con un brivido lungo la schiena, nel percepire la reale portata del rischio corso, Bianca le diede ragione e poi, quasi distrattamente, guardò una figura che aspettava in un angolo buio, vicino a una colonna.

Le ci volle un po' per riconoscerlo, ma quando il giovane – poco più che ventenne – le sorrise, alle labbra affiorò senza problema il nome: “Baccino..?”

L'uomo le fece segno di non parlare, perché c'erano troppe persone in quell'ala del palazzo, ma le fece un gesto eloquente, con cui la invitava ad attenderlo un attimo fuori dal palazzo.

Con il cuore che batteva veloce, la ragazza continuò quindi a camminare e, appena fuori, Creobola si offrì per prendere tempo. Con il suo fare sbrigativo, si sporse verso il cocchiere e cominciò a fare delle domande strane a cui il poveretto non sapeva come rispondere, e diede così il tempo alla Riario di spostarsi un attimo in un punto buio, in attesa di Baccino.

Questi arrivò subito, con passo svelto e silenzioso, come un ladro e le sussurrò, veloce: “Vostra madre mi ha chiesto di vegliare per come posso su di voi, e io farò quel che posso, come ho giurato... Lavoro per un prelato, ma ho una discreta autonomia di movimento. Ditemi quello che volete e io farò in modo di aiutarvi.”

“Voglio incontrare Troilo De Rossi da sola.” rispose lei, senza pensarci, come se quello fosse un bisogno primario al pari di respirare o mangiare.

Il cremonese si fece serio, intuendo la difficoltà di quel compito, ma poi annuì: “Tornate al vostro palazzo. So dove alloggiate, conosco bene quel posto... Abbiate fede. Se posso, esaudirò il vostro desiderio questa notte stessa.”

La giovane guardò Baccino che, anche in quella penombra, mostrava tutta la sua bellezza e la sua prestanza. Anche se era un po' cambiato, dall'ultima volta in cui Bianca l'aveva visto, a Forlì, in lui c'era ancora il ragazzo che aveva stregato la Leonessa di Romagna e ora la Riario capiva un po' meglio la debolezza della Sforza.

“Siete stato prezioso, per mia madre.” le sussurrò lei, prima di congedarsi, vedendo Creobola scostarsi un po' dal cocchiere.

“Spero di poterlo essere ancora.” ribatté lui e, con un sorriso pieno e un po' arrogante, si dileguò nel buio.

“Andiamo...” sospirò Creobola, fingendosi molto seccata dall'incompetenza del ragazzo che guidava il calesse: “Che cosa assurda, che uno che lavora su queste strade, non sappia dire quale sia la più antica...”

La Riario annuì, seguendo il gioco della sua accompagnatrice e fece eco: “Davvero inconcepibile, sono d'accordo...” poi appena furono sedute e al riparo, le sussurrò: “Stanotte dovrete stare vicina alla mia camera... Potrei aver bisogno di qualcuno che faccia da vedetta... Vi spiego dopo, con calma...”

 

   
 
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