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Autore: Puffardella    14/02/2023    0 recensioni
Roma, una delle città più belle del mondo. Roma Caput Mundi, città artistica e storica, che si affaccia sul mare e dove splende quasi sempre il sole. Ma Roma non è solo questo. Roma è anche la città delle borgate, nelle quali povertà e delinquenza hanno sempre camminato a braccetto. È in questo contesto che si muove il protagonista di questa storia: Fabio. Costretto fin da adolescente a prendersi cura di se stesso e di sua madre, Fabio non vede altre soluzioni che quella di delinquere. Diventerà ospite abitudinario delle carceri romane, ma è proprio qui che la sua vita avrà un’incredibile svolta grazie all’incontro con una persona eccezionale, che si dedicherà a lui come il padre che non ha mai avuto...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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L’aria era piacevolmente fresca, ed era satura della fragranza dei tigli in fiore. La piazza era affollata ma, come al solito, in maniera composta, dignitosa. La gente, tutt’al più, emetteva un placido brusio.
Mentre Marina parlava, ogni tanto si affacciava nella mia mente il discorso che mi ero preparato da giorni e che avevo imparato a memoria. Perfino prima di uscire di casa, dopo aver fatto la doccia tanto agognata, ero rimasto a lungo a ripetermi le parole con cui avevo scelto di parlarle, ed ora che ne avevo l’occasione non ne trovavo il coraggio.
Ma, forse, il coraggio non c’entrava niente. Marina era davanti ai miei occhi, in carne ed ossa, e parlava di sé. Finalmente avevo l’opportunità di conoscerla, di sapere chi fosse. Era meraviglioso starla ad ascoltare, non desideravo altro. Quando il senso del dovere si riaffacciava a rimproverarmi, lo scacciavo via in malo modo. Che male facevo? Geppetto per anni aveva accresciuto il mistero sulla figlia, tacendo riguardo a lei. Volevo solo completare il quadro che lui stesso aveva iniziato a dipingere parlandomi di Genzio, omettendo al tempo stesso il particolare più bello: lei.
Marina si era diplomata in agraria, anche se quel diploma non le aveva offerto molti sbocchi lavorativi. La madre malata era andata peggiorando drasticamente negli ultimi anni, così che lei aveva rinunciato all’università per starle vicino, e aveva trovato un posto in una delle biblioteche comunali di Ancona, che dista pochi chilometri dal paese. Lo stipendio era basso, ma lei era felice così. Le piaceva stare in mezzo ai libri, respirare ogni giorno l’odore della carta stampata e della polvere, camminare tra gli scaffali e prendersi cura di loro. Amava le parole scritte, molto più di quelle pronunciate.
Le lanciai un’occhiata di stupore e compiacimento, inclinando la testa di lato, e sorrisi impercettibilmente: aveva la stessa passione del padre. Marina mi sorrise di rimando, abbassò lo sguardo e arrossì leggermente.
«E tuo padre?» azzardai dopo. Lei smise di sorridere, il suo sguardo si fece duro. «Se ne è andato quando ero piccola. Non credo che avrò modo di rivederlo in futuro» rispose laconica.
«Andato dove?» tentai ancora, ma lei strinse le labbra in una smorfia di disappunto. «Se n’è andato. Dove non è una cosa che mi interessa.» ribadì con fastidio, e il suo tono mi indusse a demordere. Seguì un attimo di silenzio imbarazzato, carico di pensieri.
«E di te cosa mi dici? Qual è il tuo lavoro? Quello vero, intendo…» volle sapere dopo un po’.
«Quindi, non credi alla storia dello scrittore?» chiesi a mia volta, sorpreso. Lei scoppiò a ridere. «Direi di no, anche se ne avresti tutta l’aria.»
«Finalmente, qualcuno che lo ha capito!» esclamai sinceramente sollevato.
«Credimi, tutti gli abitanti di Genzio lo sanno. La loro è solo una fantasticheria collettiva.»
«Che vuol dire?»
Marina scrollò le spalle. «Guardati intorno. Genzio è un paesino di seicento abitanti, con una spiaggia di poche centinaia di metri chiusa da pareti rocciose, accessibile solo dalla piazza del paese. In genere i turisti ci snobbano, preferiscono affollare città come Ancona, o Fano, dove oltre al mare possono svagarsi in altri modi. Qui non succede mai niente. Di giovani ne sono rimasti pochi, e trascorrono le loro giornate nelle città, sia che lavorino o che si incontrino per svago, mentre i vecchi passano intere giornate sulle panchine a rinvangare ricordi che appartengono ad altre epoche… Tutti sanno che Peppino ama far galoppare la fantasia, ma stanno al gioco perché è bello pensare che questo piccolo paesino possa essere rivalorizzato, essere menzionato nel romanzo di un grande scrittore.»
Rimasi a lungo a riflettere su quelle parole, non sapendo bene come interpretarle. Non riuscivo a decidermi se la cosa mi dava più sollievo o fastidio. Avevo iniziato a calarmi bene nel ruolo dello scrittore maledetto, a ricavare soddisfazione nell’essere considerato tale, perché avevo scoperto che scrivere mi piaceva, e mi veniva anche piuttosto bene.
Presi a torturare l’insalata di polpo che avevo nel piatto, corrucciato, come un moccioso a cui viene di colpo proibito di giocare col suo giocattolo preferito. E nel frattempo cercai una risposta da darle. Che lavoro facevo? Cosa risponderle? Avrei voluto far finta di niente ed evitare così l’argomento, ma sapevo che non sarebbe stato possibile. Marina, infatti, continuava a fissarmi, in attesa di una risposta.
«Faccio il meccanico. Al momento, però, sto cercando di rimettermi in sesto da un periodo piuttosto negativo, perciò sono senza lavoro…» risposi evasivo. Avvertivo lo sguardo di Marina addosso, mi penetrava nelle ossa, fin dentro l’anima, e ne fui turbato.
«È a causa di una donna? È per lei che sei qui?» mi chiese a bruciapelo. Sapevo che si stava riferendo ad altro, ma pensai che, in fondo, aveva ragione: io ero lì per lei. Perciò risposi di sì.
Grazie al cielo non mi fece altre domande in proposito. Si era convinta che avessi avuto una delusione di tipo sentimentale e che mi fossi recato in quel paese per dimenticarmi di qualche ragazza, e rispettava il mio dolore. E questa cosa mi procurava un dispiacere enorme. Non mi andava di mentirle. Dovevo trovare il coraggio di dirle la verità. Tuttavia, quando mi decisi a farlo, il fiato con cui mi ero riempito i polmoni uscì dalle labbra in un sospiro privo di voce, che Marina probabilmente scambiò per sofferto stato d’animo dovuto alla delusione d’amore.
La serata proseguì piacevolmente tra chiacchiere frivole e simpatici aneddoti. Ma era mercoledì e Marina il giorno dopo si doveva recare al lavoro, perciò si concluse presto.
E una volta tornato a casa mi disprezzai. Avevo avuto l’occasione di parlarle di Geppetto, invece avevo pensato solo a me stesso. Marina mi piaceva, speravo di passare con lei altri momenti. E questo dimostrava solo una cosa: in fondo continuavo ad essere la persona che ero sempre stato. Diplomato sì, ma pur sempre un mediocre.


Passammo i giorni successivi a rincorrerci. Trovavamo ogni pretesto per vederci, anche solo per pochi minuti. Cercavo sempre di farmi trovare sotto casa al suo rientro dal lavoro, e se non mi trovava, allora era lei quella che mi aspettava, attardandosi a parlare con le matrone con la speranza di vedermi arrivare, o affacciare dalla finestra.
Qualche volta, di sera, scendevamo in spiaggia a mangiare un gelato, o una fetta d’anguria. Marina mi piaceva ogni giorno sempre di più, ed io piacevo a lei. Flirtavamo, e sebbene fosse piacevole presto divenne sfibrante. Non ci bastava più. Ogni volta che le stavo vicino, il calore del suo corpo accendeva i miei sensi, il suo odore mi inebriava. E non avevo dubbi che fosse così anche per lei.
Ecco perché quel sabato, due settimane dopo il nostro primo incontro, sapevo già che sarebbe accaduto. Lo sapevo prima di uscire di casa per recarmi alla festa della mietitura del grano, che si celebrava ogni anno e che prevedeva perfino i fuochi di artificio.
Avevamo stabilito di andarci insieme, Marina ed io, e mi sentivo eccitato come uno scolaretto al primo appuntamento. Eccitato ed atterrito allo stesso tempo. Marina era come un bel sogno da cui avevo il terrore di svegliarmi, anche se sapevo che sarebbe stato inevitabile, prima o poi. Mi ero fermato a Genzio più del consentito. Non potevo procrastinare ancora per molto. Dovevo tornare alla realtà e cercarmi al più presto un lavoro: i soldi non sarebbero durati per sempre.
E poi c’era la questione di Geppetto. A quel pensiero sentii una fitta al cuore. Mi chiesi cosa avrebbe pensato di me se lo avesse scoperto, se avesse scoperto che mi trastullavo con la figlia. Non me lo avrebbe mai perdonato, ecco cosa sarebbe accaduto. Si sarebbe sentito tradito, e l’amore che provava per me si sarebbe trasformato in risentimento e odio. Mi aveva dato tutto il suo affetto, e questo era il modo in cui lo ripagavo.
Ero davanti allo specchio dell’armadio in camera che mi rimiravo mentre mi facevo queste considerazioni, e in quel momento mi odiai. Andai a frugare nel borsone e tirai fuori il libro di Pinocchio, con l’infantile speranza che mi desse il coraggio di tornare in me, di fare ciò che era giusto. Lo strinsi forte tra le dita, mi portai il libro sotto il naso e ne aspirai a fondo l’odore. Le lacrime iniziarono ad offuscarmi la vista, e un groppo mi chiuse la gola. Mi recai in cucina, gettai il libro sul tavolo e riempii un bicchiere d’acqua, che bevvi avidamente per liberarmi dal nodo. E quando mi avviai all’appuntamento, lo feci con uno spirito abbattuto.
Ciò nonostante mi bastò vedere Marina per rincuorarmi. Mi ero innamorato di lei, che potevo farci? Non si trattava solo di attrazione fisica. Io le volevo bene davvero. Ecco perché era difficile per me rassegnarmi all’idea di rinunciare a lei. Mi accolse con un sorriso raggiante, che mi scaldò il cuore. Mi prese a braccetto e ci dirigemmo verso la piazza, sotto gli sguardi compiaciuti e ammiccanti delle matrone che non rinunciavano alle loro seggiole spartane e alle loro innocue chiacchiere nemmeno in quella sera di festa.
Nonostante il cielo plumbeo minacciasse pioggia, passammo una serata deliziosa all’insegna del buon umore, in compagnia di altri giovani del paese, ragazzi semplici e spassosi, che spesero gran parte del tempo a convincermi a ballare, inutilmente. Non ne ero capace, e non ci tenevo a coprirmi di ridicolo. Ma quando l’orchestra che si stava esibendo sul palco nel centro della piazza propose un lento, Marina mi prese per mano, mi guardò implorante e mi trascinò lentamente in mezzo alle altre coppiette. Scossi la testa sorridendo a mia volta, ma non mi opposi.
Iniziammo a muoverci piano, guardandoci intensamente. Presto ci estraniammo da tutto e da tutti. C’eravamo solo io e lei, e l’eco dei nostri cuori che galoppavano impazziti. Marina appoggiò la testa sul mio petto, ed io la strinsi più forte a me, emozionato e felice. Le diedi un bacio sulla testa e subito dopo, quando la musica cessò, un boato assordante diede inizio ai fuochi di artificio che venivano fatti esplodere dalla spiaggia di ciottoli. Tutti iniziarono a correre verso la staccionata, e così facemmo anche io e Marina, tenendoci per mano. Quello era tutto ciò di cui riuscivo a essere consapevole in quel momento: della sua mano intrecciata alla mia.
Avrei voluto fermare il tempo, fissarlo per sempre a quell’unico istante, con i nostri nasi incollati al cielo e il piacere che ricavavamo da quel semplice contatto. Ma poi, l’ultimo dei tre caratteristici boati che annunciano di solito la fine dei fuochi, esplose espandendosi nello spazio vuoto del cielo e riecheggiando a lungo nell’aria, e venne il momento dei saluti. Saluti che furono affrettati dal frastuono di tuoni vigorosi che anticipavano pioggia. E quella non si fece attendere molto. In breve tutti si dileguarono, ciascuno verso le proprie destinazioni, chi in macchina chi verso casa. Io e Marina imboccammo correndo lo stretto vicolo in fondo al quale c’erano le nostre dimore, ridendo felici, e quando la pioggia si trasformò in un vero e proprio diluvio, tolsi la giacca di cotone e la sollevai sulle nostre teste.
Piombammo letteralmente sul portoncino. Marina si affrettò ad aprire, mentre io continuavo a ripararla dalla pioggia con la giacca. Poi si voltò verso di me, sorridendo. Sapevamo entrambi cosa volevamo, e lasciammo che accadesse. Mi chinai su di lei e ci baciammo.
Quanto avevo desiderato quel momento. Tremavo dall’emozione, e sentivo fremere il suo corpo nello stesso modo. Abbassai le braccia per stringerla a me, e la giacca scivolò sulla strada. La pioggia ci sferzava con furia, eppure noi non ce ne curavamo. Tutto ciò di cui riuscivamo ad avere percezione, era il desiderio di noi che si faceva sempre più intenso. Ma quando Marina mi prese per mano e mi condusse all’interno della sua casa, tornai in me. Mi bloccai sull’uscio e le feci cenno di no con la testa. Lei mi guardò frastornata, le guance arrossate e gli occhi lucidi dall’eccitazione.
«È meglio di no, Marina…» bisbigliai. La desideravo da stare male, ma non potevo farle questo. Non potevo farlo a Geppetto. E nemmeno a me stesso. Se lo avessi lasciato accadere me ne sarei sicuramente pentito, in seguito.
«Scusa, io credevo che… Sono proprio una stupida. Stupida ed egoista. È ovvio che tu non te la senta… Perdonami, davvero…»
«No, non è come pensi, credimi… Marina, io devo dirti delle cose. O meglio, dovrei dirtele, ma non trovo il coraggio…»
«Tu non devi spiegarmi niente, davvero. Non ce n’è bisogno…»
«Sì, invece!»
«No, credimi, non devi farlo. Non sei costretto a farlo… Non importa, davvero… Scusa Fabio, ma in questo momento non riuscirei ad affrontare altro. Ho solo bisogno di restare da sola…» farfugliò imbarazzata. La fissai a lungo, indeciso sul da farsi. Poi annuii lentamente, mi girai e me ne andai. Rimanere non avrebbe comunque risolto niente, visto che non trovavo la forza di dirle la verità. Sarebbe solo servito a farla stare peggio, ed io non volevo farle altro male. Gliene avevo già fatto abbastanza, umiliandola in quel modo.
In casa iniziai a girare per le stanze rantolando, come un leone ferito. Una parte di me voleva tornare da lei e porre fine una volta per tutte a quella faccenda, confessandole il mio passato e il motivo della mia visita; l’altra, invece, voleva lei e basta.
Più volte infilai la porta, per tornare subito dopo sui miei passi, più confuso e atterrito che mai. Infine decisi di farmi una doccia per calmare i bollori, ma non servì a molto. Mi strinsi un telo intorno alla vita e mi lasciai cadere di peso sul letto.
Rimasi a lungo ad ascoltare lo scroscio della pioggia che picchiava con forza sulle tegole e sulla strada, mentre lampi sempre più distanziati filtravano di tanto in tanto dalle fessure delle persiane chiuse e illuminavano la stanza, proiettando strane forme sulle pareti e sul soffitto. Poi, all’improvviso, smise di piovere. E poco dopo sentii il citofono gracchiare.
Balzai sul letto col cuore in gola. Non avevo mai smesso di sperarci. Aprii le imposte della finestra, e quando di sotto vidi Marina con la mia giacca stretta in mano, mi affrettai ad aprirle. Entrò senza dirmi nulla, con lo sguardo basso. Mi porse la giacca fradicia, ed io la gettai in un angolo della sala. Marina si morse il labbro inferiore, riempì d’aria i polmoni e fece un gesto ampio con la mano.
«Avevo detto che non m’importa, però non è così. M’importa, invece. Ho bisogno di saperlo, almeno questa cosa: sei sposato?» disse tutto d’un fiato.
«Sposato? No, certo che no!»
«E… lei. La donna che ti ha fatto del male… la ami ancora?»
Scossi la testa con fare deciso. Non c’era nessun’altra donna, non c’era mai stata. Avrei voluto dirglielo, ma ero troppo emozionato per farlo. Marina si avvicinò a me lentamente. «Ed io ti piaccio? Pensi che potresti amarmi?»
«Io credo di amarti già…» ammisi debolmente.
Ci baciammo di nuovo, con rinnovato ardore.
E facemmo l’amore, tutta la notte. 
   
 
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