Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    21/02/2023    2 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Il porporato terminò la sua recita molto prima di quanto Troilo e Bianca desiderassero. Per quanto fosse penoso starsene lì a sentirlo parlare in latino, era comunque meglio di quello che li aspettava.

Era avvilente, per entrambi, pensare che avrebbero dovuto unirsi, fingendo reciproco fastidio – o, meglio, la Riario avrebbe dovuto simulare dolore e vergogna, mentre lui la libidine comune a tanti uomini, nel prendersi con la forza una donna fresca e ingenua quale lei era stata presentata – ed entrambi, nel profondo, temevano che quei pochi minuti avrebbero potuto incrinare o quanto meno in parte cambiare il loro rapporto.

A un certo punto, però, la parte più strettamente burocratica dello sposalizio arrivò al termine, e i due, che quasi non si erano resi conto di essersi promessi amore e sostegno eterni davanti a Dio e davanti agli uomini, vennero trascinati quasi di peso verso quella che sarebbe stata la loro camera nuziale.

I presenti, tra cui, oltre a uomini di Chiesa, si riconoscevano anche cortigiane e intriganti di ogni tipo, si divisero equamente tra la sposa e lo sposo e quando giunsero alla stanza che era stata preparata appositamente per quell'evenienza, sia Bianca sia Troilo erano pressoché nudi.

La Riario sentiva il cuore battere in fretta e tuttavia fu felice di vedere che le pareti scure rendevano difficile alle candele rischiare più di tanto il letto che, per di più, aveva uno spesso baldacchino le cui tende, per quanto aperte, limitavano almeno in parte la visuale.

Per tutto il tempo era riuscita a stringere tra le cosce la vescichetta piena di sangue di piccione senza né perderla, né romperla, ma temeva che mettendosi coricata avrebbe rischiato di farsi scoprire in qualche modo.

Il De Rossi parve quasi leggere nel pensiero della moglie e, volendosi fingere impaziente, la prese di peso, limitandone i movimenti e la mise lui stesso sul letto.

L'uomo indossava solo le brache e uno dei due calzari – l'altro l'aveva perso nel tragitto fino a quella stanza – ma stava tergiversando, prima di togliersi anche quei pochi indumenti rimasti, perché prima voleva sentirsi pronto. Anche se si rendeva conto che fosse Bianca quella più in difficoltà tra loro, anche lui non si sentiva a suo agio nell'essere dato in pasto alla curiosità morbosa di quel pubblico che cominciava anche a prendere posto e commentare a bassa voce ogni cosa.

Rimpianse per qualche secondo la sua riluttanza e il suo rifiuto, negli anni, a fare come molti suoi compagni d'armi che, dopo le battaglie o nelle serate libere, non si facevano problemi ad affollare il bordello più vicino, senza farsi problemi nel mostrarsi agli altri mentre giacevano con la donna scelta per l'occasione. Il De Rossi era sempre stato ritenuti da tutti anche troppo morigerato, e in quel frangente sperò che il suo tentennare venisse interpretato proprio come il risultato del suo temperamento riservato e rigido.

“La sposa va spogliata – vociò uno dei porporati presenti – o non saremo mai sicuri che non stia nascondendo un pugnale tra le pieghe della sottoveste...”

Ovviamente si trattava di un'annotazione pretestuosa, ma l'emiliano non volle scatenare inutili polemiche, che avrebbero solo reso più lungo quel suplizio. Andando a inginocchiarsi sul letto, prese e gettò in terra con fervore – ma cercando di non esagerare – ciò che restava degli abiti della Riario e poi si spogliò a sua volta.

L'uomo stava applicando al proprio corpo il rigore militare che aveva applicato da sempre a tutti gli aspetti della sua vita. Aveva ripassato molte volte, nella sua mente, cosa fare e quando farlo, ma mentre si insinuava tra le gambe di Bianca, non poté evitare di cedere un attimo alla tentazione di guardarla negli occhi.

La giovane ricambiò lo sguardo, con fermezza, e bastò quel brevissimo scambio per rasserenare entrambi. Senza parlarsi, si erano detti tutto. In fondo avevano saputo fin dal primo momento in cui il papa si era messo in mezzo che quella prova sarebbe giunta e quindi tanto valeva portarla a termine al meglio e in fretta.

Mentre la Riario fingeva un dolore che non c'era, riuscendo perfino a lamentarsi in modo credibile e lasciarsi scappare qualche lacrima – che venne particolarmente apprezzata da un certo tipo di testimoni – Troilo si impose di andare dritto per la sua strada e, prima che qualcuno potesse perdersi in troppi commenti e considerazioni, portò a compimento il suo compito e, apparentemente senza grandi remore, lasciò in fretta il talamo, mostrandosi per intero ai presenti, in modo che vedessero il sangue che l'aveva sporcato, e poi lanciò la coperta sul corpo di Bianca.

“Togliete quel lenzuolo!” esclamò uno dei presenti, una voce fumosa e indistinta nella penombra.

Con quello che a tutti parve un vero e proprio ringhio, il De Rossi ribatté: “Ormai quella è mia moglie! Non voglio che nessuno di voi la guardi più! È roba mia. Intesi?”

A quel punto, nessuno osò contraddirlo. Troilo era alto e ben piazzato, ben noto per le sue capacità belliche: di certo nessun chierico né nessuna cortigiana avrebbe avuto il coraggio di scontrarsi apertamente con lui.

La Riario, immobile, stava piangendo in silenzio, alimentando le proprie lacrime chiedendosi quante donne avevano dovuto subire una simile umiliazione pubblica, ma senza avere almeno l'appoggio di un uomo che amavano, lasciate sole in balia di una tempesta che portava con sé ansia, paura e dolore. Si riteneva fortunata, al loro confronto e, soprattutto, al confronto di sua madre che, seppur senza testimoni, aveva dovuto affrontare il trauma più grande della sua vita, quando era stata condotta nella sua camera nuziale, a dieci anni non ancora compiuti, per suggellare la scellerata unione con Girolamo Riario, un uomo che non aveva mai visto e che aveva vent'anni più di lei.

Istintivamente, si aggrappò alla coperta, ma solo per schermirsi finalmente degli sguardi rapaci degli uomini e delle donne che allungavano ancora il collo verso di lei.

“Sono stanco. Me ne vado a dormire. E voi andatevene! Non c'è altro da vedere...” ordinò Troilo, infilandosi in fretta le brache e andando alla porta: “E voglio che mia moglie venga portata al suo palazzo. Non mi interessa se il Cardinale Sansoni Riario ancora non risponde alle lettere: io e la mia sposa ci trasferiamo lì da stanotte. Intesi?”

Anche quella volta, nessuno trovò il coraggio di contraddirlo e, anzi, un paio di guardie che erano vicino all'ingresso, si affrettarono a uscire, probabilmente per andare a riferire le disposizioni dell'uomo a chi di dovere.

Bianca sentiva il cuore più leggero al pensiero che avrebbe passato le prossime ore al palazzo Riario. Si trattava, comunque, di un possedimento di suo fratello Ottaviano e abitato, di solito, dal loro cugino Raffaele... Di certo era per lei un luogo più sicuro di qualsiasi altro palazzo in Vaticano o in generale a Roma.

Pian piano, il pubblico lasciò i propri scranni di fortuna, si staccò dal muro, tornò a farsi ombra e bisbigli e defluire dalla porta. La giovane sentì giusto un paio di frasi dette a mezza bocca. C'era chi derideva lei, chiedendosi se anche la Tigre di Forlì avesse pianto a quel modo, quand'era stata la schiava di Cesare Borja. Altri, invece, prendevano di mira il De Rossi, sogghignando e suggerendo che il condottiero avesse concluso in fretta la sua battaglia perché fosse ormai passato troppo tempo dall'ultima volta in cui si era concesso la compagnia di una donna.

Tutte quelle chiacchiere, però, ormai non toccavano più la Riario che, sentendo finalmente il silenzio, attese, per precauzione, che fosse Creobola ad arrivare al suo fianco.

“Tutto bene, mia signora?” le chiese, accorata.

“Ci sei solo tu?” domandò di rimando Bianca, non avendo il coraggio di guardarsi troppo attorno.

La serva confermò: erano lì da sole. Ancor più sollevata, la figlia della Leonessa di Romagna si mise a sedere e chiese all'altra di darle qualcosa per pulirsi un po'. Le dava fastidio l'odore del sangue di piccione, ma avrebbe atteso, per lavarsi, di essere al palazzo Riario. Si fece aiutare a rivestirsi e poi pregò Creobola di andare a chiedere come e quando sarebbero state scortate fino ai loro nuovi alloggi.

 

Caterina aveva cercato invano di prendere sonno. Si era assopita un paio di volte, ma per risvegliarsi subito, o tormentata dai ricordi del periodo di prigionia passato alla mercé del Valentino, o per gli incubi che la volevano riportare continuamente alla rocca di Ravaldino, il giorno della disfatta, circondata da cadaveri di uomini che conosceva e dal tanfo delle morte.

Restare sveglia, però, alleviava solo in parte le sue pene, perché sapeva bene che quella era la notte fissata per il matrimonio di sua figlia. Benché la rincuorasse sapere che Troilo era l'uomo che Bianca stessa aveva scelto per sé e benché fosse consapevole che proprio il loro amore e la loro intimità li avrebbe aiutati in quel frangente, non poteva evitare di arrovellarsi e tormentarsi. La cattiveria del papa era infinita, ai suoi occhi, e la Leonessa sapeva bene che quell'umiliazione – che andava dalle nozze a Castel Sant'Angelo, fino alla presenza di testimoni nella camera da letto – era di fatto rivolta a lei e non a sua figlia. Nell'ottica del pontefice, la povera Riario era stata data in pasto a un volgare condottiero che militava per i nemici della Sforza... Quasi volesse infliggere alla Sforza stessa una violenza per procura.

Col cuore che martellava di rabbia e la mente che ipotizzava mille e mille scenari in cui Bianca e il De Rossi si trovassero per qualche motivo in difficoltà, la Tigre decise di provare ad alzarsi, per rinfrescarsi le idee.

Al suo fianco Fortunati dormiva silenzioso, ma profondamente. Quella sera avevano solo parlato un po' e avevano letto qualche pagina di un libro trovato in casa, ma a Caterina era andata benissimo così. Aveva sentito il bisogno di quel genere di calore e il piovano, generoso come sempre nell'offrirsi nella forma che più serviva alla sua amata, si era prestato volentieri a una serata tranquilla, trattenendo il desiderio che pur gli avrebbe fatto volere qualcosa in più.

La donna si vestì in fretta, continuando a controllare che il fiorentino ancora dormisse. Con quel buio, il bel volto di Francesco non aveva nemmeno una ruga e la sua barba e i suoi capelli perdevano quel tocco di grigio che, alla luce del sole, lasciava intendere la sua vera età.

Pensando che, comunque, anche lei ormai non era giovane, dato che avrebbe compiuto a breve quarant'anni, la Leonessa uscì di soppiatto dalla sua camera e andò verso quella di Pier Maria.

La balia si accorse subito del suo arrivo e, avvezza com'era a ubbidire senza far domande né avanzare recriminazioni, lasciò il suo posto alla Sforza, facendo presente che sarebbe stata nella stanza affianco, nel caso ci fosse stato bisogno di lei.

La milanese, sedutasi accanto al lettuccio del piccolo, che ormai aveva circa sei mesi, lo guardò a lungo, invidiando la calma che gli stendeva il viso. Avrebbe voluto dirgli che ormai i suoi genitori erano di certo sposati agli occhi di Dio e degli uomini e che lui, ormai, era al sicuro. Sapeva, però, che sarebbe stata una realtà solo parziale, perché il De Rossi, come tutti loro, non sarebbe mai stato al sicuro, finché il papa e suo figlio fossero stati in vita.

Soggiogata dal silenzio e dalla pace che il bambino emanava, anche la Sforza, poco a poco, malgrado la sedia non comodissima, finalmente si addormentò. Si risvegliò abbastanza in fretta, però, agitata da uno dei suoi soliti incubi, e si rese conto di aver gridato nel sonno o, almeno, parlato, perché Pier Maria era sveglio e la fissava con due occhi grandi e spaventati.

Per consolarlo – malgrado non stesse piangendo – la Tigre lo prese subito in braccio, cullandolo in silenzio e trovando che il suo tepore le fosse terapeutico. In quel momento era più il nipote a consolare la nonna che non il contrario.

Erano così da un po', quando la porta si schiuse lentamente. Caterina aveva creduto che si trattasse della balia che, per qualche motivo, avesse pensato di dover tornare al lavoro, perciò si sorprese un po' nel vedere Fortunati, in abiti da camera e con gli occhi gonfi di sonno, una candela in una mano e uno scialle nell'altra.

“Che ci fai qui?” chiese la donna, a voce bassa

“Non c'eri... Mi sono preoccupato.” spiegò lui, arrossendo appena: “E ho pensato che magari avevi freddo...”

“Dovresti stare attento a far così...” lo rimproverò la Leonessa, lusingata, comunque, dalla premura del piovano: “Ufficialmente tu non dovresti sapere se io sono o meno nel mio letto...”

L'uomo sollevò le sopracciglia, appoggiò lo scialle al mobile più vicino e poi tornò a guardare la Sforza, soffermandosi molto anche su Pier Maria: “Siete bellissimi, insieme.” soffiò.

“Tu avresti voluto un figlio?” chiese di rimando Caterina, senza pensarci.

La domanda mise in forte difficoltà il religioso che dapprima borbottò qualcosa riguardo ai suoi voti e poi, in uno slancio di temerarietà, provò a dire che l'unico figlio che avrebbe voluto, sarebbe quello che avrebbero potuto generare loro due assieme.

“Ma io ormai sono sterile...” constatò la milanese, con fatalismo: “Chissà se mai riuscirò a essere una nonna migliore di quanto sia stata come madre...”

Francesco avrebbe voluto dire subito di sì, ma poi pensò che sarebbe stato più gentile dirle che anche come madre non era stata malvagia, ma infine, più di ogni altra cosa, lo colpì il pensiero di Cornelia, una nipote che la Leonessa non aveva mai davvero considerato tale.

“Ormai a Roma dovrebbe essere tutto sistemato, non credi?” chiese Caterina, per cambiare discorso, dato che pure lei aveva ripensato alla piccola Riario.

“Sì, penso di sì.” annuì lui, avvicinandosi abbastanza da poter sfiorare la guancia rosea di Pier Maria con indice e medio: “E di certo è andato tutto bene. Bianca è sveglia: è tua figlia. Sapeva bene cosa andava fatto...”

La Tigre strinse le labbra: “Mi manca già. Mi rattrista pensare che potrei non rivederla mai più.”

Era raro sentire quella donna esprimere in modo tanto franco una propria emozione, perciò il piovano ne fece tesoro e sorrise: “Vedrai... Vincerai il processo e presto anche la guerra sarà finita e allora potrai andare a trovarla a San Secondo ogni volta che vorrai...”

Rimettendo con cura il bambino nella culla, la milanese scosse piano il capo: “Eh, è proprio vero che gli uomini troppo buoni non riescono a non essere ottimisti...” ebbe una breve esitazione e poi, prima di voltarsi di nuovo verso Fortunati, aggiunse: “Anche Giovanni cercava sempre di pensare che le cose sarebbero andate bene...”

Per qualche istante il fantasma del Medici parve aleggiare tra loro, come un monito, come a ricordare a entrambi che, in realtà, non sempre le cose si aggiustavano come sperato.

“Torniamo a dormire.” concluse la donna, accigliandosi.

Andò nella stanza accanto, chiedendo alla balia di riprendere il suo posto e poi seguì il piovano fino in camera da letto. Si rimise subito sotto le coperte e accettò di buon grado che lui, fatto altrettanto, le desse un bacio. Ormai era abituata al suo sapore e, in qualche modo, ne era diventata dipendente, perché la calmava e la rassicurava.

“Lo so che non sono una passione bruciante – le sussurrò lui, dopo aver spento la candela, facendo ripiombare la camera nel buio – né il grande amore della tua vita, ma voglio comunque che tu sappia che finché avrai bisogno di me, io ci sarò sempre.”

In tutta risposta, senza trovare il fiato necessario né per ringraziarlo, né per dirgli che non sentiva di meritare un uomo come lui, la Tigre lo baciò a sua volta e poi lo strinse a sé con una dolcezza che di rado sapeva mostrargli.

 

“Mi spiace, ma non vi lascio passare. Dovevate prenderla di nuovo prima, quando eravate al castello... Non tornare adesso!” l'esclamazione della guardia fece sobbalzare Bianca.

La giovane era sveglia, nella sua nuova stanza, al palazzo Riario – un palazzo di cui, almeno con la luce soffusa della notte, non aveva riconosciuto quasi nulla – e stava aspettando con ansia che succedesse qualcosa o che arrivasse presto l'alba per poter uscire liberamente. Sapeva che alla porta erano stati messi due soldati, ufficialmente per proteggerla, ma in realtà si trattava di cagnacci del papa.

Con il cuore che batteva a mille, immaginando che le parole della guardia potevano essere rivolte solo a Troilo, la giovane andò alla porta e l'aprì appena.

Come si era aspettata, vide il De Rossi ergersi davanti ai due soldati, proprio mentre chiedeva, minaccioso: “E chi saresti tu, per darmi ordini?”

Il giovane, confuso da quell'inattesa animosità, rimase qualche istante senza parole. Si accorse quasi per caso – e così il suo compare – che intanto si era unita a loro Bianca e la sua presenza non faceva che renderlo ancora più insicuro.

Senza preavviso – difficile dire se facesse parte di una recita studiata o se fosse un gesto proprio di una sfumatura del carattere di Troilo che la Riario ancora non conosceva – l'uomo afferrò per il collo la guardia, sollevandola da terra e premendola contro la parete.

Mentre il volto del ragazzo diventava paonazzo e il suo respiro affannoso, il De Rossi gli disse, con un ringhio cavernoso: “Vuoi che dica al re di Francia che un ragazzino come te vuole impedire a un condottiero di Sua Maestà di prendersi ciò che gli spetta di diritto? Questa donna io me la sono guadagnata combattendo per il re e non sarai certo tu a dirmi come disporne!”

L'altra guarda, atterrita, guardava senza trovare la forza di reagire e perfino Bianca, che pur parteggiava per il marito, era impallidita dinnanzi a uno sfoggio simile di aggressività.

“Anzi, domattina andrò dal papa in persona a lamentarmi della presenza di voi due in casa mia!” si premurò di precisare l'emiliano, lasciando finalmente cadere a terra la guardia ormai violacea e annaspante.

Tenendosi il collo dolente e tossendo per tornare a respirare, il giovane fece convulsamente segno all'altro soldato di non fare nulla e di ubbidire.

Troilo fece un fischio e arrivarono dall'ombra quattro dei suoi uomini: “Prendete il posto di questi due ragazzini...” ordinò loro, mentre Bianca, tornando pienamente padrona di sé, rientrava nel personaggio della sposa spaventata dal bruto che l'avevano costretta a sposare: “E fate in modo che nessuno mi disturbi fino a domattina...”

Detto ciò, scansò la guardia rimasta in piedi e entrò nella stanza, chiudendosi subito la porta alle spalle.

Prima ancora che Bianca potesse fargli delle domande e prima ancora che lui potesse scusarsi per i modi brutali che aveva usato con il soldato, i due volarono l'uno nelle braccia dell'altro e si baciarono.

“Sei mio marito, adesso.” disse la Riario, sentendo per la prima volta una gioia concreta e pervadente illuminarle l'anima.

“Sei mia moglie.” ribatté lui, con orgoglio, quasi che non credesse possibile di essere riuscito ad aggiudicarsi una simile fortuna.

“Le tue labbra stillano miele...” sussurrò lei, quasi divertita, ricordandosi dei versi del Cantico dei Cantici che tanto l'avevano affascinata, quando li aveva letti in convento.

L'uomo non capì la citazione, ma baciò comunque le dita della sua sposa, che gli sfioravano con delicatezza le labbra, proprio come se da esse derivasse la sua più grande felicità.

Dopo essere rimasti ancora qualche istante stretti l'uno all'altra, l'emiliano le accarezzò il viso e poi le posò una mano sul ventre: “Come stai?”

“Bene.” rispose lei, decidendo che non era il caso di parlare di quanto accaduto poco prima, calcolando che, in fondo, suo marito era un soldato ed era scontato che fosse capace di certi gesti violenti, quando necessari.

“Il bambino?” chiese allora lui, le dita che ancora le sfioravano la pancia coperta dalla sottile vestaglia da notte.

“Penso bene...” sospirò lei: “Non ho avuto fastidi particolari in questi giorni, quindi penso stia andando tutto bene, com'è stato per Pier Maria...”

Sorridendo entrambi al nome di quel primogenito che erano stati costretti a lasciare temporaneamente a Firenze, si baciarono di nuovo e poi si andarono a sedere sul letto, le mani intrecciate e le labbra che continuavano a cercarsi.

“Non è stato bello, quello che ci hanno costretto a fare...” sussurrò lui, accigliandosi: “Non avrei mai voluto doverti prendere così...”

“Non pensarci più.” fece lei, accarezzandogli il viso e poi posandogli una mano sulle lunghe gambe, che tanto le piacevano: “Siamo stati costretti, adesso è passata. Da stanotte in poi, nessuno potrà più dirci cosa dobbiamo fare... Almeno, non a letto.”

Il De Rossi fece un sorriso un po' imbarazzato e poi, come sempre, nel sentire la naturalezza con cui Bianca affrontava certi argomenti, si accese: “E se ricominciassimo daccapo, questa volta nel modo giusto?”

“Non aspettavo altro...” accettò subito lei: “Anche se per me, il nostro vero inizio, è stato tanto tempo fa.”

“Anche per me.” convenne lui: “E ringrazio il cielo... Anzi, ringrazio te per aver trovato il coraggio quel giorno di...”

Senza lasciare che il De Rossi potesse parlare oltre, ricordando benissimo la mattina in cui, prima della partenza dell'uomo dalla villa di Castello, la Riario era andata a cercarlo nelle stalle e l'aveva convinto ad amarla, Bianca lo baciò di nuovo e non gli diede più modo di dire altro.

Finalmente, liberando la tensione che li aveva accompagnati negli ultimi giorni, lasciarono che il fuoco che li univa lavasse via, come una pioggia scrosciante, tutto lo sporco che Roma aveva cercato di mettere loro addosso. Amandosi come volevano loro, come avevano già fatto tante volte in quell'alcova protetta e segreta che era stata la villa di Castello, Troilo e Bianca sentirono di aver ripreso la loro storia in mano e di essere pronti a riprenderla, ripartendo dal punto esatto in cui l'avevano momentaneamente interrotta per dar retta al mondo che li circondava.

“Quando saremo a San Secondo faremo una grande festa e ci risposeremo come vogliamo noi... Tu avrai tutto quello che una sposa può avere e io potrò mostrarti a mia madre e alla nostra gente con la fierezza di un uomo innamorato...” disse piano l'emiliano, mentre ancora la passava in rassegna con le mani e con le labbra, cercando sempre di più.

“Prima dovremo sopravvivere a Roma...” fece presente lei, con gli occhi chiusi, intenta ad assaporare il tocco del suo amato, ma decisa a non farsi soggiogare da facili sogni, rischiando poi di non trovare la forza di affrontare la realtà: “In pubblico, per ora, io sono la tua preda di guerra e questo dovrò essere per tutta Roma...”

“Ma giurami che, ogni notte, chiusa quella porta...” cominciò a dire lui, ma la Riario lo interruppe.

Mettendogli una mano tra i capelli biondo rossi, lo costrinse a guardarla in viso e lo incitò: “Hai detto bene: ogni notte. Sbrigati, amore mio, a farmi tua ancora una volta, perché presto sarà l'alba e...”

Questa volta fu lui a non lasciarla finire, cercando di nuovo le sue labbra e tornando a pretenderla, proprio come lei stessa gli aveva appena chiesto di fare.

 

   
 
Leggi le 2 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas