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Autore: Glenda    27/02/2023    2 recensioni
Firenze, primi duemila.
Artin ha trent'anni e già sa di vivere in un mondo ostile: padre in galera, madre in ospedale, lavoro intermittente e tre fratelli da mantenere, barcamenandosi ogni giorno tra assistenti sociali, bollette e microcriminalità dei quartieri popolari. Finché, il giorno in cui pensa di non farcela proprio più, un misterioso uomo che gli somiglia come un gemello gli propone un patto terrificante...
Questa è una storia d'ambientazione realistica ma dal tono magico-fiabesco, che riprende il filone tradizionale del principe e il povero e degli scambi di identità: ci sono protagonisti eroici, ottimismo, redenzioni inaspettate, gentilezza come se piovesse, e i miracoli accadono. Anche se lo sfondo è cupo. Anche se il mondo è pieno di falsità, macchinazioni, apparenze e ferocia nascosta.
Dunque astenersi i non amanti dei buoni sentimenti.
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Aveva fatto tardi, a casa dovevano essere tutti in pensiero. Si affrettò per le scale, e si fermò davanti al bancone della reception per salutare, ma Marta doveva aver già finito il suo turno. Questo lo mise ulteriormente in ansia sull’orario: da tempo non portava un orologio con sé, si era venduto tutto ciò che poteva vendersi, compresi gli orecchini d'oro della sorella, ereditati da una nonna albanese mai conosciuta.

Pensò che per quella volta avrebbe dovuto prendere un treno da Rifredi: uno su due fermava anche alle Piagge, e da lì a casa la strada era breve. Si avviò alla stazione a passo spedito, e appena fu abbastanza vicino, alzò la testa per cercare l'orologio a muro, e rendersi conto dell'effettiva ora che s'era fatta. Quasi le nove: peggio del previsto.

Quando riabbassò la testa, si trovò davanti un volto.

- Hai qualche spicciolo? -

Artin fu per un attimo catturato dai piccoli occhi luccicanti, così azzurri che sembravano due zaffiri: pensò che quella triste figura col volto emaciato e le occhiaie profonde un tempo doveva essere stato un uomo molto bello e che gli occhi erano sempre l'ultima parte del corpo da cui la bellezza se ne andava.

- Non ne ho neppure per pagarmi il treno. – mormorò.

- Per favore, solo uno spicciolo. -

Inaspettatamente, con un guizzo di una velocità imprevedibile, la mano dello sconosciuto afferrò il polso di Artin e lo stinse con forza.

- Mi stai facendo male. – disse lui, mantenendo la calma.

Vagliò con lo sguardo i dintorni, ma non c'era nessuno in giro: era una nebbiosa sera di novembre, e le persone felici erano sicuramente già a tavola con i propri cari.

La voce dell'uomo si fece più profonda.

- Tu lo sai che sto morendo. -

- So che ti stai uccidendo, e non ti posso aiutare. -

- È la vita che mi uccide. Come a te: lo vedo che ti uccide. -

Artin cominciava ad avere paura: quell'incontro stava diventando surreale e lui non era pronto ad incontrare il diavolo al crocevia.

- Lasciami in pace. -

Si liberò della mano che gli teneva il polso e l'uomo non fece resistenza. La sua voce cambiò di nuovo tono, diventando stridente.

- Va' a casa, ragazzino. Va' a casa da mamma. -

Artin fece qualche passo all'indietro, senza riuscire a distogliere lo sguardo da quegli occhi innaturalmente blu.

- Va' a casa, non vedi com'è tardi? -

Cominciò a mugolare una canzonetta, e gli passò oltre, dandogli una spallata.

Istintivamente Artin si mise a correre verso la stazione.

Ci mise parecchio tempo a togliersi i brividi dalla schiena e l'immagine di quella faccia dalla mente.

Non riusciva a liquidare la faccenda pensando di aver semplicemente incontrato uno dei tanti tossici che girano per le stazioni chiedendo soldi ai passanti col pretesto di aver bisogno di fare il biglietto.

Quell'individuo lo aveva scelto perché aveva riconosciuto in qualche modo in lui un risentimento nei confronti della vita, e ci aveva cercato complicità.

Il suo rifiuto doveva averlo fatto sentire abbandonato, e nessuno dovrebbe pensare di star morendo da solo.

Il senso di colpa si sostituì lentamente allo spavento.

Della droga aveva sempre avuto paura: non per se stesso – a lui bastavano un paio di bicchieri di grappa per perdere completamente la cognizione di sé – ma per Andrea. Aveva quattordici anni e non era stato abbastanza con sua madre per crescere con l'idea che, quando sei figlio di un'albanese immigrata, devi fare l'impossibile per restare una brava persona nonostante tutto, perché i pregiudizi si alimentano già da soli.

Le case popolari delle Piagge erano un brutto posto, lo sapevano tutti: la “gente bene” che stava sull'altro lato della strada malediceva quel progetto edilizio da vent'anni. Ma Andrea aveva trovato lì i suoi amici, era abbastanza grande per essersi fatto le proprie idee sulla vita, e non aver più voglia di sentire Artin insegnargli le proprie.

Quella sera, però, gli avrebbe raccontato di aver incontrato un uomo che non voleva morire e a cui la bellezza era rimasta negli occhi, mentre tutto il resto del corpo voleva cacciarla via. Gli avrebbe detto anche – forse – che la bellezza va disseppellita dalla spazzatura del mondo e che impegnarsi per questo non è né far buon viso a cattivo gioco, né servilismo nei confronti di una società che ti lascia affondare nella merda. Poi gli avrebbe permesso di mandarlo al diavolo, ma la mamma sarebbe stata contenta.

La mamma. A volte si trovava ad agire come se lei potesse davvero osservare e giudicare le sue azioni, ma questo avrebbe presupposto pensarla morta – e non lo voleva – o credere nell’aldilà – e non ci riusciva. Forse ciò che gli restava di sua madre era proprio la bellezza negli occhi che lei aveva passato a lui solo, su quattro figli: gli stessi occhi di quella nonna albanese mai conosciuta di cui aveva dovuto vendere gli orecchini, memoria di una terra dove faceva meno freddo e il cielo era azzurro anche d'autunno.

 

Ana gli corse incontro. I due maglioni di lana che indossava la facevano sembrare un goffo pupazzo: stava cambiando il tempo e loro erano senza riscaldamento. Le uniche utenze che non gli avevano ancora staccato erano acqua e luce, ma Artin si aspettava che accedesse da un momento all'altro.

- Hai freddo, bimba bella? - la abbracciò forte, stropicciandole le spalle con le mani – Mi dispiace tanto. Le cose si aggiusteranno, vedrai. -

Lo ripeteva ogni volta, ma ormai non ne era convinto da un pezzo, ed era certo che Ana lo sapesse. Dopotutto non era più una bambina, era entrata quell'anno in prima media e, anzi, era spaventoso quanto apparisse più adulta delle ragazzine della sua età. Il suo sguardo non aveva nulla della leggerezza e delle promesse che hanno gli occhi delle adolescenti.

- Adesso ceniamo e poi facciamo un gioco. -

Ana sorrise e due allegre fossette le comparvero sulle guance. Era l'unico tratto fisico in cui la sorella gli somigliava. Nessuno dei suoi fratelli aveva preso dalla madre come lui: avevano tutti i tratti del padre, come se, figlio dopo figlio, la presenza di Giovanni Dorsi nella loro vita si fosse radicata più a fondo.

- Dov'è Alba? - chiese, accorgendosi d'un tratto che dalla cucina non proveniva alcun odore.

- Aveva un appuntamento. – spiegò la ragazzina non naturalezza.

- Ah. Ed è almeno uno bello? -

Rise, ma in realtà non era contento quando Alba stava fuori fino a tardi: aveva ventiquattro anni ed era la ragazza più corteggiata del caseggiato, le capitava spesso di essere in compagnia, ma, finché non la sentiva rientrare, Artin non riusciva ad addormentarsi, nonostante la sera fosse sempre distrutto. Talvolta avrebbe voluto che lei se ne rendesse conto, ma non per questo glielo aveva mai fatto presente: avvertiva che i suoi sentimenti avevano qualcosa di sbagliato, era quasi come se desiderasse provarli al posto dei suoi genitori, quasi che questo lo confermasse in un ruolo che in realtà nessuno gli riconosceva.

Notò Andrea accovacciato su divano, con una massa di capelli ogni giorno più lunghi tirati in avanti per coprire un vistoso sfogo di acne giovanile sulla fronte. Gli faceva effetto vederlo mezzo sbracciato in novembre, ma il corpo che si trasforma è come se producesse calore dall'interno: difesa fortunata dalla povertà, di cui c'era solo di che esser contenti.

- Ehi, non si saluta più? -

Il ragazzo non rispose, ed Artin si accorse subito che non lo aveva sentito: era tutto concentrato ad ascoltare qualcosa in un paio di cuffie. Tra le gambe incrociate teneva un I-phone.

- Dove lo hai preso? -

Lo scosse su una spalla col solo effetto di farlo sbuffare. Ci volle una seconda scrollata perché si togliesse una cuffietta, svogliatamente.

- Dove lo hai preso? - ripeté Artin, severo.

- Che palle! Devi sempre rovinare tutto? Voglio solo ascoltare un po' di musica! Non so più neppure cosa va: hai idea di che vuol dire? -

Sì, ne aveva idea. Sapeva cosa voleva dire entrare in prima superiore senza potersi comprare un paio di Jeans alla moda e doversi inventare che i genitori gli impedivano di prendere il motorino perché avevano paura. Ma non riusciva ad accettare che suo fratello rubasse, come non accettava che frequentasse i peggiori elementi del Gruppo Piagge, e che presto dal furto di telefonini sarebbe passato a quello d’auto.

- Dammelo. – disse.

- Ma nemmeno per un cazzo! Quella stronza ha soldi abbastanza da ricomprarne due! -

- Non c'entra niente! Non c'entra quanti soldi abbia la persona che derubi: si tratta della ferita che infliggi, le fai pensare di non essere al sicuro! -

- E noi? Al fatto che noi non siamo al sicuro, chi ci pensa? -

Artin gli strappò l'I-phone di mano.

- Non è una giustificazione. Robin Hood è morto da un pezzo. -

- Vaffanculo, Artin, sei uno stronzo! -

Lui lo ignorò, e, requisito l'oggetto, si diresse in cucina per mettere la cena in tavola.

Non gli piaceva che Ana ascoltasse quelle discussioni, e non gli piaceva doverne avere. Se fossero stati una famiglia normale, forse gli sarebbe parso quotidianità litigare un giorno sì e uno no con un quattordicenne in piena esplosione ormonale. Ma lui non era suo padre, non era capace di fare il genitore, e Andrea lo sapeva benissimo.

Ciò che non poteva sapere, era che quella situazione non sarebbe durata per molto. Erano già stati contattati più volte dagli assistenti sociali, e il fatto che entrambi i ragazzi avessero cambiato ordine di scuola aveva solo rallentato l'inevitabile: adesso era novembre, e quando la macchina burocratica si fosse definitivamente messa in moto, qualcuno sarebbe venuto a bussare alla loro porta, a vedere le condizioni in cui vivevano e a constatare che due minori non potevano restare affidati a due fratelli disoccupati e incapaci di garantirgli un'esistenza dignitosa.

Dentro di sé, Artin sapeva che era giusto così: almeno a loro sarebbe stata data un'opportunità. Ma l'idea di affrontare un'altra perdita lo lacerava: la morte, idealmente, avrebbe dovuto essere l'unica perdita a cui non c'è rimedio, e già bastava. Invece, nella vita di ogni giorno, ne esistevano tante altre contro cui non si poteva combattere.

Si sentiva impotente.

- Artin… -

Andrea stava appoggiato allo stipite della porta, mangiandosi un'unghia. I capelli erano una grossa nuvola infeltrita che gli copriva gli occhi.

- Sono un cretino, ok? Non fare quella faccia da cane bastonato. Davvero, non è colpa tua. -

Invece era colpa sua. Tutta la colpa del mondo, quella sera, gli pareva non avere altri proprietari che lui.

- So che è dura per te. – si sforzò di dire - Ma vorrei che cercassi di essere la persona migliore che puoi. È l'unica cosa che possiamo fare: cercare di restare delle belle persone, perché se anche la bellezza sparisce… -

Si interruppe. Che senso aveva? Come parlare di bellezza, di occhi come zaffiri o di avere amore per se stessi nonostante tutto, quando tutto stava morendo, ed anche un drogato incontrato per strada se ne accorgeva?

- Senti, domani lascio questo aggeggio alla coop. Lei penserà di averlo perso e tornerà sicuramente a chiederlo. Però, almeno per stasera, la possiamo ascoltare un po' di musica? -

Anche lui desiderava ascoltare della musica. Anche a lui avrebbe fatto bene.

Dopo cena si misero tutti seduti sul divano, mentre l'I-phone trasmetteva la play list che aveva accompagnato momenti di vita di una ragazza sconosciuta.

Arriverà la fine, ma non sarà la fine

ed ogni volta ad aspettare e fare mille file

con il tuo numero in mano e su di te un primo piano

come un bel film che purtroppo non guarderà nessuno1.

 

Era tardi, ed i ragazzi già dormivano, quando vide dalla finestra una macchina fermarsi sotto il portone: i suoi fanali proiettarono coni nel grigio. Alba uscì dallo sportello destro, si rassettò la gonna, si passò una mano tra i capelli, e frugò nella borsetta in cerca delle chiavi di casa.

Artin scese e le andò incontro sulla porta: la nebbia si tagliava a fette, e il suo odore inumidiva il cervello; gli sembrava d’essere immerso in una nube di cotone bagnato.

- Finalmente! Mi stavo preoccupando! -

Alba distolse lo sguardo, come turbata da quell’accoglienza inattesa.

- Scusa. - disse – Pensavo di far prima. -

La foschia sfumava i loro volti, ma il rossore dei suoi occhi era ben visibile. Lui la osservò solo per un attimo: indossava un abito sbracciato da due soldi ma che la rendeva sexy, e scarpe col tacco che non le aveva più visto mettere dalla festa del diciottesimo compleanno. La prima cosa che pensò fu quanto freddo avesse sofferto ad uscire vestita così, la seconda, che quell'appuntamento doveva essere parecchio importante, la terza che non doveva essere andato bene, dato che il rimmel le colava dalle ciglia.

- Che è successo? -

Tutto ad un tratto la nebbia gli sembrò più fredda; ora era una coltre pesante e quel nodo alla gola, quel giorno, voleva proprio lasciarlo senza respiro: voleva veramente ucciderlo.

C’erano troppe cose che erano appena andate a posto nel modo sbagliato.

- Entriamo in casa. – disse lei, infilandosi nell'atrio.

- Alba… sei impazzita! -

La afferrò per il polso, e lei si voltò di scatto, rossa in viso.

- Dobbiamo proprio parlane in mezzo alle scale? Vuoi proprio che tutto il palazzo sappia i fatti miei? Possibile che tu riesca sempre a non capire un cazzo? -

Artin si bloccò in mezzo all'androne, paralizzato. Rimase lì del tempo, senza rendersene conto: quando rientrò in casa lei era già in pigiama, struccata, che cercava a fatica di togliere lo smalto alle unghie.

- Non mi fare la predica. – lo prevenne, prima che lui potesse aprire bocca - Tu non trovi lavoro da mesi; con le pulizie prendo cinque euro l'ora, e non riesco a farne più di quattro al giorno. Lui me ne ha dati cinquanta. È stato corretto e mi ha sempre presentato gente corretta, che non fa stronzate perché non vuole guai. Posso arrivare a più di mille al mese: è uno stipendio. Come pensi di campare, sennò? Andrea ha ragione: bisogna farsi furbi. -

Non aveva obiezioni da porre. Solo una parola che lo faceva sentire amato e che avrebbe voluto potesse essere anche il sentimento di lei.

- Ma la mamma… -

- Non tirare sempre in ballo la mamma, Artin! La mamma è morta, e sei l'unico che non lo vuole capire! Non puoi scegliere come vivere pensando a cosa deluderebbe o meno lei, non puoi pensare di toglierci da questa situazione e al tempo stesso restare sempre in pace con la tua coscienza, non puoi continuare a credere alla morale dei bempensanti che se ti comporti bene prima o poi verrai ricompensato! Andrea ha 14 anni ed è cresciuto prima di te! -

Artin si sentiva come svuotato: non voleva giudicarla, eppure sentiva che lo stava facendo, e si rendeva conto che insieme a lei aveva giudicato Andrea e giudicava se stesso. Si detestava.

La voce gli uscì atona e distante.

- Da quanto tempo succede? -

- Tre volte. L'ho fatto tre volte. Non è così tremendo. -

Ma mentre lo diceva, si mise a piangere.

Artin si sentì il vuoto sotto i piedi. La tirò a sé, la abbracciò.

- Non ci sarà la quarta. -

La voce di Alba si addolcì, ricambiò l'abbraccio e affondò la testa sulla sua spalla.

- Artin, ti prego… -

- Non ci sarà una quarta volta, lo giuro. Qualcosa farò. Qualcosa farò. Dammi l'ultima possibilità, ti prego. -

Lei gli carezzò la testa, abbozzando un fragile sorriso.

- Non sono io che ti nego una possibilità: è il mondo che ce la nega. -

- Allora io la cercherò meglio! -

1Nesli, La fine

  
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