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Autore: time_wings    28/02/2023    1 recensioni
[SakuAtsu]
I motivi del litigio tra i gemelli sono ignoti a tutti, nel giro delle corse di auto clandestine, a metà tra folklore e informazioni provenienti da fonti inaffidabili.
Con le sue modifiche, Atsumu è una leggenda, nel giro. Non c'è gara che lui e il suo gruppo non vincano.
Questo, almeno, finché un meccanico misterioso non inizia a tessere le vittorie del gruppo di Osamu dalla sua officina segreta.
Ad Atsumu non resterà che mettere l'orgoglio da parte (impossibile) e infiltrarsi nel garage del meccanico strano, spacciarsi per un incompetente, lasciarsi insegnare e, una volta conquistata la sua fiducia, scoprire tutti i suoi segreti, per impedire che Osamu lo batta ancora.
C'è solo un problema, però. Anzi due, se si tiene conto del fatto che questo meccanico sia semplicemente insopportabile.
La regola è che nessuno può entrare nell'officina di Sakusa.
Genere: Generale, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Kiyoomi Sakusa, Koutaro Bokuto, Osamu Miya
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Atto quarto_



“Non puoi restare qui.”
“Ascolta, per quanto mi piaccia da morire darti fastidio, vorrei anch’io che la mia moto partisse.”
“Non puoi comunque.”
“Mi presti una macchina?”
Sakusa si strinse nelle spalle e si morse l’interno della guancia. “Do un’occhiata alla tua moto.”
“No, no, non è necessario!”
Sakusa alzò gli occhi al cielo e mise già un piede nell’ascensore, ma Atsumu gli afferrò un braccio e voltò appena il viso per guardarlo.
“Ho detto che non è necessario.”
Omi si liberò dalla sua stretta e aggrottò la fronte. “Ci metto cinque minuti.”
“Non ci pensare neanche. L’ho portata nell’officina dall’altro lato dell’armadio per evitare che si bagnasse ulteriormente. Domani mattina sicuro riparte. La conosco.”
Si guardarono. Atsumu immaginò che qualcosa, nel suo sguardo, fosse appena cambiata, perché Sakusa aggrottò le sopracciglia – più un fremito che un’espressione – poi parlò cauto: “Come ti pare.” Riprese la via per l’ascensore e Atsumu lo seguì in silenzio, limitandosi a osservarlo chiudere la porta e pigiare il pulsante per salire. “Puoi dormire qui,” continuò poi, una volta che furono tornati nell’officina.
“Qui dove?”
Sakusa accartocciò la faccia come se Atsumu puzzasse, cosa probabile visto il grasso, il sudore e la pioggia delle ultime ore. “Come pensi che dorma quando resto qui la notte?”
“In piedi come i cavalli, Omi.”
“Sei un idiota,” commentò lui, dirigendosi verso il divano nell’angolo meno frequentato dell’officina e cominciando a liberarlo dagli aggeggi abbandonati sulla seduta.
“Pensavo che lo usassi come inventario.”
“No, lo riempio di cose ogni mattina per evitare che ti ci sieda sopra.” Questo era il genere di frasi di Sakusa che Atsumu non sapeva se interpretare letteralmente o sarcasticamente. Propese per la prima opzione, però, perché poi iniziò a sbucciare alcuni strati di plastica e tessuti, rivelando delle lenzuola e un cuscino, nella versione più simile a un letto a cui un divano potesse mai sperare di ambire.
“Che lusso!”
“Non farci l’abitudine.”
Atsumu ignorò l’ultimo avvertimento e si lasciò cadere sul divano con un grugnito, accoccolandosi contro il cuscino per massimizzare il fastidio provocato al suo nuovo compagno di stanza. “Dormi con me? C’è posto per entrambi.”
Sakusa fece la cosa più simile a una risata che Atsumu gli avesse mai sentito fare. Era un suono secco e sprezzante, come se stesse avendo a che fare con una creatura dall’intelligenza incerta… o come se un gatto avesse iniziato a strozzarsi lentamente con una palla di pelo. “Scordatelo, resto qui a lavorare, la prossima gara non è tra molto.”
Atsumu sbadigliò. La verità era che non dormiva con l’intenzione di riposarsi davvero da giorni. Dormire era una gentilezza che concedeva al suo corpo, ma si addormentava pensando a bulloni e carburante e si svegliava riacchiappando il filo dell’ultimo pensiero ossessivo con cui era scivolato nel sonno. “La prossima gara è tra una settimana, Omi.”
“Appunto.”
Atsumu avrebbe voluto rispondergli, dirgli che erano uno scoppiato lui, la sua lavagnetta, le sue mascherine, i suoi cibi confezionati e ora il suo divano, ma, prima ancora di decidere da che parte iniziare, si addormentò.
 

Si svegliò qualche ora dopo, con la pioggia che batteva incessante sul tetto dell’officina e Sakusa che a sua volta martellava qualcosa in un angolo. C’era qualcosa di confortante, in quella serie di silenzi ritmici. Atsumu ne rimase colpito. Era nell’officina di un matto che conosceva giusto da qualche settimana, era rimasto per via di un temporale, quel meccanico era il suo nemico giurato. Nulla, lì, avrebbe dovuto consentirgli di dormire sonni sereni, eppure erano settimane che non dormiva così bene.
Guardò Sakusa, concentrato sulla progettazione della prossima assurdità che avrebbe fatto disperare Atsumu nel futuro vicino, eppure non lo lasciò frustrato.
Aveva abbandonato la mascherina in un angolo e di tanto in tanto si passava la lingua sulle labbra e poi le mordeva, unendo le sopracciglia e poi rilassandole. Quando ridirezionò la luce, modificando l’angolo della lampada da scrivania, le ciglia gettarono ombre nuove sulle sue guance, a stento intravedeva l’inchiostro che rendeva pupille e iridi indistinguibili. Era bello nel modo ruvido con cui lo erano le cose difficili, simile all’aria gelida che scendeva nella gola quando correva sulla sua moto. C’era questo divieto costante, quasi naturale, nel modo in cui esisteva. Nessuno poteva entrare nel suo garage. Nessuno poteva parlargli. Nessuno poteva toccarlo. Nessuno poteva dargli da mangiare. Nessuno poteva aiutarlo. Forse nessuno poteva capirlo. Quella solitudine era molto triste o molto affascinante, gli piegava leggermente in basso gli angoli della bocca, gli lasciava le labbra screpolate. Atsumu aveva molti difetti, lo sapeva con la stessa certezza che mostrava quando lo negava, e uno di questi era che quando vedeva un divieto doveva violarlo.
Gli pareva che lo stesse facendo proprio in quel momento, mentre lo spiava in segreto, unicamente perché Sakusa non lo sapeva, non ne era cosciente, e quindi stava sfuggendo al suo controllo.
Atsumu stava iniziando a comprendere la natura dei cinque minuti di pausa che gli imponeva durante i suoi insegnamenti, qualcosa che forse aveva a che fare con lui e la presunta seccatura che costituiva molto meno di quanto pensasse. Qualcosa che aveva a che fare con una soglia di sopportazione di contatto umano che più che essere caratteristica di Sakusa in realtà lo imprigionava.
Alla fine, Atsumu sbadigliò platealmente, le braccia che lottavano contro i cuscini del divano per stiracchiarsi a dovere.
Sakusa alzò gli occhi dal suo tavolo da lavoro e strinse le labbra come se fosse stato molto dispiaciuto, molto deluso oppure sulla soglia di un sorriso. Impossibile dirlo, era un’espressione interrotta a metà. Tastò con le dita da qualche parte alla sua destra, senza guardare.
“È ancora notte,” disse solo, e Atsumu annuì. Poi, con un colpo di reni, si alzò a sedere sul divano e sbadigliò ancora. Omi sollevò la mascherina che aveva recuperato e se la legò solo a un orecchio.
Atsumu si guardò attorno per qualche secondo, come se cambiare punto di vista necessitasse di una ricalibrazione di sguardi. Poi si alzò e raggiunse Sakusa. Lui si tirò su la mascherina con un gesto stizzito. “Che ore sono?” domandò Atsumu, la voce meno oliata di quanto si aspettasse.
“Le quattro.”
Annuì, gli appoggiò le mani sulle spalle e percepì sia il sussulto di Sakusa, sia il modo in cui lo soffocò e lo contenne. “Le quattro,” gli fece eco. “Vai a letto tu.”
“Non ho sonno.”
Atsumu squadrò il suo tavolo da lavoro e fece schioccare la lingua. “Ti do il cambio, Omi, faccio io la guardia ai tuoi tesori.”
“Ci vorrebbe qualcuno che facesse da guardia alla tua guar…” Atsumu strinse un po’ la presa sulle sue spalle, come a incalzarlo ad alzarsi. “Toglimi le mani di dosso.”
Atsumu ridacchiò, mentre Sakusa tentava di scacciare le sue mani. “Mi fa paura che mi fissi mentre dormo.”
“Non ti stavo proprio dando retta,” ribatté distrattamente Sakusa, ancora perlopiù impegnato a divincolarsi dalla presa di Atsumu. Si alzò in piedi e girò su se stesso per sfuggirgli. Quando tornò a fronteggiarlo, scoprì che erano più vicini di quanto avesse previsto.
Atsumu pensò che se non avesse indossato la mascherina avrebbe sentito il soffio del suo respiro. Spostò lo sguardo sull’elastico che si tendeva fino alle orecchie, quello di Sakusa lo seguiva attento e sensibile a ogni più sottile spostamento, come un sensore particolarmente avanzato. Atsumu arricciò le labbra e sospirò, poi sollevò un dito e lo infilò nell’elastico, sganciandolo.
La mascherina cadde di lato, un sipario distrutto. D’un tratto Sakusa era molto meno macchia e molto più coetaneo. Atsumu si sporse in avanti, poi deviò di lato e gli sussurrò all’orecchio: “vai a letto.”
Omi deglutì, Atsumu seguì il percorso del suo pomo d’Adamo con la coda dell’occhio. Prese un respiro profondo e si allontanò. Profumava di qualcosa di profondo che si scontrava con qualcosa di più dolce prima che si riuscisse a investigare a dovere. Sakusa annuì e lo superò a testa bassa, raggiungendo il divano ad ampie falcate e sprofondandoci dentro un attimo dopo. Non aveva fatto commenti sulla sua eventuale sporcizia, si era solo infilato sotto al lenzuolo e gli aveva dato le spalle.
“Vieni qua.”
Atsumu aveva lasciato scorrere lo sguardo sul principio di genio abbandonato sul tavolo da lavoro, gli occhi che si riabituavano alla luce, ma si voltò di scatto nella direzione del divano, a quelle parole. Qualcosa nel suo collo schioccò. “Eh?”
Sakusa si girò appena. A suggerirgli quel movimento, nel buio, fu più il fruscio che quello che Atsumu vide. “Hai un aspetto orribile.”
“Ah, be’, grazie.”
“Si vede che non dormi da giorni,” continuò lui, ignorandolo. “Vieni.”
“Non ci credo, si preoccupa per me. Sapevo di averti conquistato, Omi.”
“Cinque, quattro…”
Atsumu si fiondò ridendo verso il divano. “Omi, sei sicuro? Perché non credo di riuscire a non toccarti se adesso mi metto qui…”
“Tre. Due.”
Atsumu si ritrovò in tempo record disteso accanto a Sakusa, un braccio piegato dietro la testa, a fissare un soffitto che sfumava gradualmente nel buio. Sporse l’altro braccio oltre il fianco del suo nuovo compagno di stanza, che gli dava le spalle, e tentò di recuperare l’elastico della mascherina che gli aveva slacciato.
“Che stai…”
Atsumu lo riacciuffò e gli cercò l’orecchio a tentoni, inciampando con le dita in un occhio.
“Scusa ma…” Sakusa si agitò, il che rese la ricerca più difficile.
“Ti sto rimettendo la mascherina, così ti senti più… stai fermo, Omi.”
Sakusa combatté contro la sua mano. Atsumu si oppose.
Alla fine Omi si mise a sedere e liberò anche l’altro orecchio dall’elastico della mascherina, mettendola da parte su un carrello lì vicino inondato da vecchi attrezzi. “Ma che ti prende?”
Atsumu incrociò anche l’altro braccio dietro la testa e si godé quel poco che riusciva a distinguere al buio della fronte aggrottata dall’irritazione del meccanico che era lì per spiare e distruggere. “Non lo so,” ridacchiò, forse aveva immaginato l’ombra della vena pulsante sulla fronte di Sakusa, “credevo fossi più a tuo agio.”
“Tu sei completamente pazzo,” commentò lui, tornando a sdraiarsi, questa volta anche lui a pancia in su.
“Disse quello che non fa entrare nessuno nella sua officina e mangia solo mochi confezionati.”
Per qualche minuto stettero in silenzio a fissare il soffitto.
“Atsumu.” Un fruscio. Sakusa non l’aveva mai chiamato per nome, non ne aveva mai avuto bisogno, non si era proprio mai rivolto a lui, ma era sempre solo inciampato nella sua presenza. Gli piaceva, per qualche ragione. Il suo nome, nella sua bocca, era ruvido come i sospiri che Atsumu ormai riusciva a riconoscere come una farsa, era granuloso come se si fosse appena svegliato con la gola secca e avesse bisogno di un minuto per riprendere a usare normalmente la voce. Fissò il soffitto. Sapeva che se si fosse voltato anche lui sarebbe successo qualcosa di devastante. Un’autentica catastrofe sarebbe esplosa a metà tra i loro respiri e l’onda d’urto avrebbe baciato le coste del Vietnam, dove l’acqua aveva un colore inspiegabile e il cielo era profondo come se avesse dovuto fare spazio a qualcosa: un dio, oppure un bacio. Avrebbe spazzato via suo fratello, Akaashi, la missione, la lealtà, le fazioni. Rimase con gli occhi spalancati contro il buio, chiedendosi quanti segreti svelati ci fossero in tutto quello che non stava guardando. Non voltarti. Quello di Orfeo era un gioco da ragazzi, a confronto. Non girarti.
“Sì?” Atsumu riscoprì la sua voce altrettanto ruvida.
“Lo sai perché voglio che non parli nei cinque minuti di pausa?”
Ormai credeva di saperlo. “Perché nessuno può entrare nella tua officina.” Perché le persone ti mettono a disagio e a volte non le reggi più. Perché più che essere schizzinoso sei terrorizzato.
Sakusa mormorò un assenso. Più Atsumu passava del tempo con lui, più imparava a capirlo. Eppure, per qualche assurda conformazione circolare del fenomeno, più imparava a capirlo, meno lo comprendeva. Per questa ragione, non aveva la più pallida idea del perché avesse deciso di dirglielo adesso, di quale geniale struttura ingegneristica gli fosse saltata in testa per giungere alla conclusione che quello fosse il momento delle confessioni. Perché era questa la differenza tra capire e comprendere qualcuno. Atsumu capiva che quello che succedeva era il risultato di un calcolo, ma non comprendeva quale. 
Aveva passato settimane a studiare dai suoi appunti, però, sapeva stare al gioco.
(Voleva.)
“Ho un fratello,” iniziò Atsumu. Si sentì un matto completo, un criminale svitato che tira fuori un telecomando con sopra un enorme bottone rosso in una piazza trafficata. Adesso lo premo. Allontanatevi tutti o lo premo e vi faccio saltare in aria. Si voltò verso Sakusa. Era tornato a fissare il buio, l’espressione vuota. Se avesse voluto che stesse zitto gliel’avrebbe detto, però. Con Omi bisognava interpretare i silenzi più che le parole. Poi Sakusa voltò appena il capo verso di lui, quel poco che bastava per un contatto visivo. Una scossa gli risalì rapida la spina dorsale e si poggiò sulla nuca. “Da piccoli eravamo inseparabili, anche se facevamo sempre a botte. In squadra insieme, però, eravamo imbattibili. Credevo che lo saremmo stati per sempre. Mi capisci, no? Quando un’auto è una scheggia non ha senso modificarla.”
“Non se scopri che si può fare di meglio.” Sakusa lo disse come se fosse stata la cosa più ovvia del mondo.
“Ci ha traditi, però. Me e il mio gruppo. Ha iniziato ad avere questo sogno, questa aspirazione strana, e non l’ha detto a nessuno. A cose fatte se n’è andato e basta.”
Sakusa sospirò e sistemò meglio il braccio che aveva sotto la testa. “Tu non l’hai presa bene e hai peggiorato la situazione,” finì per lui.
Atsumu non l’avrebbe messa in questi termini, ma era più o meno quello che era successo. Osamu avrebbe potuto benissimo ammettere di preferire la guida al tuning, invece un giorno si era presentato in officina e aveva detto a tutti che aveva conosciuto delle persone e che avrebbe gareggiato con un altro gruppo, per non doversela vedere con Bokuto. Quando erano tornati a casa, soli, Atsumu si era lasciato un po’ prendere dal momento e gli aveva giurato che lo avrebbe distrutto. Il silenzio aveva cementificato il risentimento e la faccenda aveva spianato la strada alla leggendaria guerra tra fratelli che ne sarebbe conseguita.
Il business di scommesse e passaparola del mondo delle gare clandestine metteva le radici in un litigio tra fratelli che aveva macerato ed era germogliato in un’ostilità ogni ora più marcia.
“Atsumu.”
Lui trattenne il fiato. Di nuovo, non si voltò, un’altra catastrofe era dietro l’angolo ed era proprio sul confine tra la pupilla e le ciglia di Sakusa.
“Sì, Omi?”
“Chi sei?”
La pioggia ticchettava sul tetto dell’officina. Un tuono esplose in lontananza, borbottando la sua irritazione nel cielo che lo circondava. Atsumu inspirò, attento a non fare troppo rumore. Non gli tremò il respiro, ma con queste cose era meglio non rischiare: ci sono interi segreti svelati in ritmi di questo tipo. Era una delle prime regole dei bugiardi. “La verità?”
Sakusa non rispose.
Ora glielo dico.
Ma il fatto era che non poteva dirglielo. E non per la missione e le scommesse e il gruppo e i soldi (‘fanculo tutto), ma perché c’erano delle volte in cui la verità gli si incastrava in gola e diventava fisicamente impossibile tossirla via.
“Il tuo peggior incubo, Omi,” ridacchiò.
Lui scosse la testa. E allora Atsumu lo guardò, le lancette si incepparono, il mondo trattenne il fiato. Non gli serviva neanche sporgersi, sarebbe bastato un impercettibile movimento del collo e l’avrebbe baciato.
Ma successe una cosa inaspettata.
Sakusa si mise a sedere, scavalcò le sue gambe e si alzò in piedi. “Vieni, ti faccio vedere una cosa.” La cosa inaspettata non era che si fosse alzato, era che gli avesse porto una mano.
“Dove…”
“Stai zitto, non fare domande e muoviti.”
Atsumu sgranò gli occhi, poi accettò la mano. Lo schiocco parve un sigillo. Rise e si alzò. “Sissignore.”
Per la prima volta dall’inizio della sua missione, si sentì un traditore.
“Prendi quella.” Sakusa indicò una torcia lì vicino, poi si diresse senza esitazione verso l’ascensore.
Era una di quelle torce a LED ad alta potenza che assomigliavano a una cassetta degli attrezzi. Atsumu se la rigirò confuso tra le mani. “Mi stai per uccidere in un posto losco? Possiamo farlo qui? Preferirei non bagnarmi di nuovo i capelli. Morire con stile rientra nelle mie priorità.”
Non aveva bisogno di vederli, per sapere che gli occhi di Omi si erano esibiti in un salto mortale. “Sono a tanto così dal cambiare idea.”
Lo raggiunse all’ascensore. “Sei anche una palla, Omi.”
 

Nelle settimane precedenti, Atsumu aveva immaginato quel momento. Lo aveva pianificato e aveva continuato a pianificarlo ogni volta che aveva fallito. Era diventato una priorità al punto che l’aveva addirittura sognato, in formato idillio e in formato incubo, a giorni alterni. Aveva parlato di quel momento con Akaashi, con Bokuto, con Kenma, col suo riflesso.
Ma ora che Sakusa aveva aperto il cofano dell’auto arancione delle meraviglie e quell’intreccio di ingranaggi gli si era mostrato in tutto il genio a cui aspirava con frustrazione, Atsumu non provava più niente, se non una distante e sorda delusione. Un’occhiata in quel cofano, in fondo, era un po’ come aprire sconfitti il quaderno di matematica del proprio rivale accademico.
Era così che si sentivano alcuni alpinisti, quando arrivavano sulla cima?
“Lì,” iniziò a indicare Sakusa, spiegandogli come un pezzo migliorasse le prestazioni quasi a costo zero, come un altro si adattasse perfettamente a una funzione che normalmente non avrebbe dovuto ricoprire. Atsumu non ne aveva bisogno. Nel momento stesso in cui Omi aveva aperto il cofano aveva capito tutto.
Per quanto odiasse ammetterlo, Sakusa aveva ragione su di lui: era sempre a un passo dalla svolta, per questo gli era bastato uno sguardo. Era come chiedere una lettera decisiva al gioco dell’impiccato e vedere la risposta corretta srotolarsi davanti agli occhi per banale conseguenza. Era la pagina di soluzioni sul retro del libro. “Quello cos’è?” domandò comunque, indicando un altro componente. Alle quattro e mezzo del mattino la maschera e la realtà si erano fuse al punto che Atsumu non sapeva quanta della sua farsa fosse ancora in piedi, ma forse era anche ora di giocare un po’ in difesa.
Sakusa rispose a ogni sua domanda, forse con una traccia appena rilevabile di irritazione, come se avesse saputo che era inutile, che lui sapeva, che non solo era competente, ma addirittura un fuoriclasse. Magari non era vero, però, magari Atsumu stava impazzendo e leggeva nei toni spenti del meccanico note che non esistevano.
“Perché me l’hai fatto vedere?”
Sakusa si strinse nelle spalle e si portò una mano al viso, poi sembrò ricordarsi che non aveva la mascherina e lasciò cadere di nuovo il braccio lungo i fianchi. La famosa sindrome della mascherina fantasma. “Qualcosa mi dice che questa è la nostra ultima lezione.”
Atsumu lo guardò, consapevole delle catastrofi e della dinamite. Le lasciò scoppiare.
Senza rompere il contatto visivo, Sakusa gli lanciò le chiavi della macchina.
“A fine corso regali auto a tutti i tuoi alunni o solo ai tuoi preferiti?”
Lui non rispose, si infilò nell’abitacolo e richiuse la portiera. Era entrato dal lato del passeggero.
“Questo è pazzo,” mormorò Atsumu, poi entrò in macchina.

 
Ma certo. Tornava tutto.
Non sapeva come avesse fatto a essere così ingenuo.
Il meccanico di suo fratello, che giurava di non aver mai visto il suo capo in faccia, aveva un garage segreto in cui non faceva entrare nessuno. Che fortuna! In qualche modo lui, Atsumu, il nemico giurato di Osamu, aveva tratto Sakusa in inganno e lo aveva costretto a insegnargli la sottile arte del tuning. Poi, con il buio come incentivo, gli aveva confessato l’intera storia della sua vita – tanto valeva dirgli anche il suo cognome. Il meccanico pazzo gli aveva detto che quella sarebbe stata la loro ultima lezione e aveva poi proceduto a rivelargli i segreti delle sue modifiche. Alla fine, Atsumu era salito volontariamente su un’auto e aveva guidato dritto nel boschetto isolato dietro l’officina. Andiamo, c’era davvero da sorprendersi se adesso aveva un’ascia da spacco piantata in petto? Il sangue che scorreva copioso a imbrattare la maglietta, il freddo che si faceva largo nelle ossa come se il dio dei ghiacci in persona gli stesse soffiando nelle viscere? Sakusa avrebbe potuto direttamente mostrargli il suo necrologio: ne danno il triste annuncio
“Che ti prende?”
Atsumu si riscosse e inchiodò silenzio del bosco sostituì il motore. “Fantasticavo su te che adesso prendi un’ascia e mi uccidi.”
Omi lo guardò per un momento, poi scosse la testa. “Non lo farei mai così. Ti avvelenerei.”
“Oh!” Atsumu tamburellò con le dita sul volante. “Questo sì che è rincuorante. Grazie.”
“Già, uhm…” Sakusa inspirò di scatto, poi sbuffò appena. “Perché dovrei ucciderti?”
Perché ti sto tradendo e perché mi dispiace. Atsumu ridacchiò. “È davvero una bella auto, lo sai?”
“Sì.”
“Dovresti venire almeno a una gara.”
“Non mi pia…”
“Anche solo per vedere come vince.” Il senso di colpa che non avrebbe neanche dovuto provare serpeggiò tra quelle parole come muschio nelle fughe. I suoi errori sarebbero stati dimezzati se Sakusa avesse scoperto chi era grazie a un suo assist, un suo invito? Se non in quantità, almeno in valore.
Sakusa rimase in silenzio.
“Andiaaaamo, è divertente!” Atsumu fece una cosa pazza. Si sporse di lato e gli diede una spallata amichevole. Scandalo! Contatto fisico non concesso. Errore. Errore!
Omi però non si irrigidì nemmeno, voltò solo il viso di lato – verso di lui – e sospirò, come se le vette di stupidità a cui era stato sottoposto avessero iniziato a risultargli troppo alte.
“Dai, Omi, ti assicuro che invece ti piacerà più di quanto…”
“Atsumu e basta?”
“Eh?” Atsumu alzò gli occhi nei suoi, era ancora accasciato su di lui e aveva approfittato della sua benevolenza per mettersi comodo con la testa sulla sua spalla. Comodo. Come se il freno a mano non gli stesse lentamente perforando il fegato.
“Atsumu e basta? Nessun cognome?”
Chiaro, aveva sentito anche la prima volta.
Continuò a guardarlo, le luci una serie di riflessi scartati dagli alberi, che partivano dai fari e rimbalzavano fino a raggiungerli in traiettorie irrintracciabili. Inclinò il viso su un lato, come se gli fosse arrivato per posta un pensiero, fece scattare lo sguardo in basso, sulle sue labbra.
Il bosco era tranquillo, contrariamente alle aspettative che uno si finiva per fare a furia di vedere tutti quei film americani. Non c’era nessuna musica di sottofondo dall’influenza più incalzante di quanto ci si rendesse conto, non c’erano sibili nascosti, occhi sbarrati tra i cespugli, battute sospese e grida acute.
Un ruscello correva da qualche parte lì vicino, seguendo una strada che conoscevano solo le lucciole e gli spiriti.
Non pioveva più.
Atsumu percepiva il respiro di Sakusa con più di un senso su cinque.
Con uno sforzo che non avrebbe affatto dovuto sperimentare, tornò di nuovo a guardarlo negli occhi. Inchiostro e notte non avevano lo stesso colore.
Per quanto odiasse lo sporco, l’ironia della sorte aveva fatto dell’esistenza di Omi un ossimoro. Sin dall’inizio era stato una macchia. Prima una macchia sul curriculum di Atsumu – il miglior tuner. Poi una macchia nella sua stessa officina, poi nella vita di Atsumu, che aveva smesso progressivamente di dormire. Ora era una macchia nella sua disillusione. Gli avrebbe infilato le dita negli occhi, se le sarebbe sporcate di olio per motori e inchiostro e ci avrebbe scritto giusto giusto una lettera di dimissioni – dalla vita, dalle colpe, dalle missioni che aveva così evidentemente fallito.
Sakusa non si muoveva, lo guardava come in attesa. Se implorasse, Atsumu non lo sapeva e, fosse stato anche il caso, non avrebbe saputo dire in che direzione. Non lo capiva, era frustrante almeno quanto era affascinante, era repellente almeno quanto era magnete.
Anche se in qualche modo pareva sempre fare la mossa giusta, con lui, salire un gradino alla volta la scala di una fiducia che non era mai stato lì per conquistare, Atsumu non aveva la più pallida idea di come facesse. Tirava un dado e a stento si preoccupava del risultato.Entrare nell’officina dai limiti invalicabili, conquistare le lezioni private, portare mochi, parole e seccature, guardare gli ingranaggi e gli attrezzi, abbassare mascherine fino a dimenticarle su un tavolo degli attrezzi e dormire sul divano… era un caso, mosse su una scacchiera che guardava al contrario.
Che me ne fotte, pensò Atsumu. Si sporse un po’ più in alto e lo baciò.
Ogni cosa faceva silenzio, come la terra prima di un’esplosione; più veloce del tempo che il suono ci impiega a rendersi conto della catastrofe. Sollevò una mano a cercare la sua. Quando la trovò, si rimise dritto – il fegato ringraziò – e intrecciò le loro dita. Di colpo gli sembrò che tutte le volte che si era soffermato a guardarlo armeggiare con pezzi di auto, cacciaviti e grasso avesse desiderato di fare questo.
Omi si spinse più verso di lui, il freno a mano divenne un suo problema. La sua mano restò immobile in quella di Atsumu, come eternamente diviso tra qualcosa che voleva e qualcosa che lo congelava. Qualunque tipo di riscatto stesse inseguendo, Atsumu glielo lasciò prendere. Non aveva nulla da perdere, in ogni caso. O meglio, aveva tutto da perdere, ma sarebbe successo lo stesso ormai. Era una cosa molto pericolosa da dare in mano ad Atsumu, questo genere di libertà. Era creativo abbastanza da organizzare un’esplosione, metodico il giusto per realizzarla. E adesso aveva un campo minato a sua completa disposizione. L’avrebbe sfruttato.
Gli spostò i capelli via dalla fronte per guardarlo. “Omi, Omi,” sussurrò. Non si era accorto di avere il fiato corto. Lui tentò di ignorarlo, ma Atsumu non glielo concesse. “Ti devo dire una cosa.”
I bugiardi avevano un codice d’onore: si giocava sporco solo finché si giocava ancora.
La verità. Non ricordava neanche se da bambino ci fosse riuscito, a essere la famosa bocca della verità. Premeva sulla lingua, ma si traduceva in nulla di più che un’esitazione o un verso mozzo.
“Non la voglio sapere.” Sakusa gli lasciò un bacio su una guancia. Atsumu chiuse gli occhi.
“No, veramente, devo…”
Omi lo baciò all’angolo della bocca, poi gli sussurrò sulle labbra: “Cinque minuti di pausa. Non puoi parlare.”
Atsumu rispettò la regola per la prima volta in vita sua.
Fuori, l’alba iniziò ad attaccare le chiome degli alberi con lance di luce.







 

 


NotEl: buoooon pomeriggio, le mie ultime parole famose sono state tipo: "il capitolo è corto, ma aggiorno prestissimo" e poi ci ho messo 20 giorni a scrivere un finale e duecento a postare questo capitolo.
Secondo me comunque la colpa non è mia, ma vostra perché vi siete fidati. Sicuro è così.
Comuuuunque grazie per aver atteso e poi per aver letto anche wow, almeno spero di essermi fatta perdonare. Ci vediamo presto (vedete voi come intenderla, questa)
El.

 


 
   
 
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