Storie originali > Storico
Segui la storia  |       
Autore: Adeia Di Elferas    15/03/2023    1 recensioni
Caterina Sforza, nota come la Leonessa di Romagna, venne alla luce a Milano, nel 1463. Si distinse fin da bambina per la sua propensione al comando e alle armi, dando prova di grande prontezza di spirito e di indomito coraggio.
Bella, istruita, intelligente, abile politica e fiera guerriera, Caterina passò alla storia non solo come grande donna, ma anche come madre di Giovanni dalle Bande Nere.
La sua vita fu così mirabolante e piena di azione che ella stessa - a quanto pare - sul letto di morte confessò ad un frate: "Se io potessi scrivere tutto, farei stupire il mondo..."
[STORIA NON ANCORA REVISIONATA]
Genere: Drammatico, Generale, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Contenuti forti, Tematiche delicate, Violenza | Contesto: Rinascimento
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
 

Cesare era ancora profondamente scosso. Aveva apprezzato moltissimo il modo in cui il suo Michelotto aveva fatto cadere nel giro di un paio di giorni Vicovaro, Bracciano, Palombara, Cerveteri e perfino la rocca di Ceri. Tutti quei trionfi quasi rendevano secondaria la strenua difesa che il castello di Bracciano si ostinava a portare avanti.

Tuttavia quanto accaduto quella mattina lo aveva sconvolto e, per quanto lucidamente dovesse dirsi grato agli uomini del Corella per avergli salvato la vita, non riusciva a perdonare proprio Miguel che, dopo avergli assicurato che il campo era libero e sgombro di pericoli, lo aveva convinto a passare proprio accanto alla rocca appena presa, rendendolo quasi vittima di un attentato mortale.

Il fante guascone che aveva cercato di colpirlo con una balestra era stato subito fermato e punito, ma il Valentino non poteva scordare il rumore sibilante del dardo che gli sfiorava il volto.

Anche in quel momento, mentre attendeva proprio l'arrivo di Michelotto, al sicuro, in una delle ali più protette della rocca appena conquistata, non riusciva a calmarsi. Era stato così vicino alla morte da poter sentire addosso le sue mani gelide.

Il Borja, che da quando aveva lasciato Roma tre giorni addietro era perseguitato da qualche brivido di febbre e da un senso di malavoglia che non gli dava pace, in quel momento si sentiva distintamente febbricitante e desideroso, solo, di un po' di vino e di un letto comodo su cui riposare.

Eppure, prima voleva fare una ramanzina ad hoc al suo Miguel che, con la scusa dell'essere il suo amico più stretto e fidato, quel giorno si era preso troppa libertà, mettendo a repentaglio la sua vita, mancando della prudenza necessaria.

Cesare attese e attese, ma alla fine Michelotto non si presentò. Al suo posto si palesò Ugo di Moncada, ancora sporco per la battaglia, a chiedergli se volesse raggiungerli tutti al desco, per festeggiare la vittoria.

Non avendo voglia di arrabbiarsi e sentendo lo stomaco vuoto, il Borja accettò e si presentò al banchetto come richiesto. A tavola, a parte alcuni condottieri che quasi non conosceva, c'erano Ludovico della Mirandola e il maestro Leonardo. Michelotto, seduto distante dall'unico scranno lasciato libero, finse di non vederlo nemmeno, così il Duca si sistemò proprio accanto al toscano, tenendosi sulla sinistra il Moncada che l'accompagnava.

Dopo canti e motti vari, tra il vino e il cibo, Cesare chiese a Leonardo, che sembrava molto infastidito dal clima goliardico che si era venuto a creare: “Voi avete conosciuto Caterina Sforza, di Milano?”

Prima che il vinciano potesse rispondere, però, il figlio del papa aveva già ricominciato a parlare, ricordando a voce alta quanto lui la conoscesse bene e di come, di recente, avesse avuto modo di parlare con la di lei figlia.

“Quella ragazzina – fece il Borja, staccando un pezzo di carne dal cosciotto di pollo che aveva in mano – vale ancor meno della madre...”

“Madonna Sforza è a Firenze, mi hanno detto...” fece Leonardo, guardando altrove, per non lasciarsi distrarre dall'immagine ferale del Valentino che masticava a bocca aperta, cacciando in gola il boccone con un sorso abbondante di vino.

“A proposito di Firenze!” sbottò il Duca, seguendo il filo invisibile dei suoi pensieri, mentre il suo eloquio si faceva sempre più impastato e la sua vista iniziava a sdoppiarsi: “Mi hanno mandato il nuovo ambasciatore, qualche settimana fa... Un certo Salviati. Un uomo insulso che sa solo dire sì e no tutto il tempo... Quasi preferivo quel gran cortigiano di Machiavelli...”

Leonardo fece un sorriso di prammatica, ma non disse nulla, mentre Ugo di Moncada, dall'altro fianco del Borja, commentò, aspro: “Firenze imparerà a far quel che deve fare solo quando marceremo in armi sull'Arno.”

Trattenendo a stento un improvviso conato di vomito, il Duca di Valentinois annuì, ma si alzò da tavola, scusandosi con tutti e mettendosi a camminare, ondivago, verso la porta. Non si orientava ancora in quella rocca, ma gli sembrava di aver imboccato la strada giusta per i suoi alloggi.

Dopo qualche passo, però, dovette fermarsi e appoggiarsi alla parete, per svuotare, almeno in parte, lo stomaco. Il rigurgito era stato tanto violento da fargli bruciare la gola e gli occhi, ma si sentiva più leggero.

Forse aveva esagerato con il cibo, oppure con il vino, o magari con entrambi... In un lampo, una strana idea lo colse, mentre si abbandonava di nuovo al vomito: qualcuno l'aveva avvelenato?

“Ti aiuto a tornare in camera...” la voce di Michelotto arrivò alle orecchie di Cesare come lontana e sconosciuta.

Si voltò a guardarlo e quasi non lo riconobbe. Si sentiva debole e tremante e aveva la sensazione che la febbricola di quei giorni non fosse nulla, rispetto al malessere che lo tormentava in quel momento.

Il Corella, con mossa fulminea, gli toccò la fronte ed esclamò: “Scotti!”

Il Borja scosse il capo: “Mi avete avvelenato... Mi avete avvelenato? Parlami... Mi avete...” ma prima che potesse finire, crollò in terra, scivolando sul suo stesso vomito, prima che l'amico potesse soccorrerlo.

Miguel, consapevole di quanto fosse importante non far vedere agli altri condottieri lo stato in cui verteva il Duca, lo sollevò di peso e lo portò, stando attento a non farsi notare troppo, fino alla camera che gli era stata destinata. Lo svestì con cura, lo ripulì come gli fu possibile, ignorando il suo bofonchiare sconnesso, e poi, capendo che più che l'ubriachezza o l'indigestione, il problema fosse la febbre, si apprestò a cercare un cerusico da cui farsi aiutare.

Nel giro di un paio d'ore al Borja vennero somministrati dei pestati di erbe, per farlo sfebbrare, e un paio di intrugli per fargli passare sia la nausea si l'inevitabile cefalea che avrebbe sicuramente avvertito a breve. Dalla ghiacciaia era stato recuperato ancora un po' di ghiaccio dell'inverno appena finito e con quello si erano coperti la fronte e i polsi del Valentino.

Stabilizzato dall'azione veloce messa in atto da Miguel, Cesare si era assopito, cadendo in sonno sordo, ma tranquillo.

Mentre lo guardava dormire, però, Michelotto non faceva altro che chiedersi angosciosamente come avesse potuto – anche se sotto le allucinazioni della febbre alta – il suo amico pensare che lui potesse in qualche modo volergli far del male o, addirittura, volerlo morto.

Con lentezza, dato che erano soli, gli accarezzò una guancia resa irregolare dalla barba incolta e dalle fini cicatrici che la deturpavano, e si domandò, con ancor più ansia, se ancora ci fosse, in quelle vestigia da condottiero vittorioso, il ragazzo vestito da porporato che gli chiedeva di passare assieme la notte e che, all'alba, gli sussurrava sempre qualche parola dolce, lasciandogli sperare che, alla fine, loro sarebbero stati più di due amici che, a volte, dividevano il letto. La risposta a quella domanda, però, lo spaventava e quindi, deglutendo, il Corella smise di porsi spinosi quesiti e si apprestò a vegliare per tutto il tempo necessario sul suo Cesare.

 

Il processo tra Caterina e Lorenzo continuava a tappe forzatamente lente e la donna iniziava a credere che non ne sarebbero mai giunti a capo.

Ogni udienza era per lei motivo di forte ansia e poi, quando arrivavano notizie da Firenze, l'ansia si stemperava di nuovo in frustrazione nel sentire come i giudici avevano richiesto ancora quel chiarimento o quell'altra precisazione, rinviando e rinviando ancora la chiusure del caso.

Fortunati continuava dirle che era un bene, che se il tribunale ancora non si era espresso apertamente a favore del Medici poteva solo significare che fosse a favore loro, ma la Tigre gli credeva solo in parte. Il modo in cui lei aveva amministrato per anni la giustizia era talmente differente da renderla molto diffidente riguardo ai metodi fiorentini, che le sembravano atti solo a ingarbugliare le carte e confondere tutti i partecipanti fino a renderli tutti dimentichi del motivo che aveva portato a imbastire un processo.

Anche Francesco, che pur non smetteva di esprimersi positivamente sulla questione, ultimamente aveva dovuto trascorrere molto tempo in Firenze, proprio al fine di discutere a fondo con il rappresentante legale della Sforza, al fine, soprattutto, di capire quali fossero le prospettive future.

Era un venerdì mattina quando alla villa – quasi lo facesse apposta per distrarre Caterina dai suoi pensieri più oziosi – si presentò Scipione Riario.

La Leonessa, proprio perché era desiderosa di avere qualcuno con cui parlare e distrarsi, lo accolse con calore e gli chiese subito di passare qualche tempo con lei in una delle sale più tranquille, per discutere di quello che stava succedendo in quei giorni in Italia.

Siccome Galeazzo era con la madre, all'arrivo del fratellastro, Caterina volle che anche lui fosse presente a quell'incontro e, quando versò il vino per sé e per Scipione, ne preparò anche un calice bello pieno per il suo quintogenito, in modo che si sentisse pienamente partecipe. Anche Bernardino aveva presenziato all'arrivo del Riario, ma la madre aveva preferito ordinargli di restare a curare Pier Maria, quasi che avesse paura che, nel sentire il giovane uomo parlare del mondo, il ragazzino di agitasse ancor più del suo solito, pretendendo poi di seguire il Riario a Firenze o chissà dove.

Scipione, una volta che furono nella saletta designata, provò a dire che non gli sarebbe spiaciuto se con loro ci fosse stato anche il Feo, ma Caterina liquidò la questione con un lapidario: “Lui ti ha già dato incomodi a sufficienza quando l'hai portato in città con te... Gli ho dato un incarico da eseguire e lo eseguirà... Stasera, se vorrete, potrete passare un po' di tempo assieme comunque. Adesso, però, parlami di quello che sta succedendo in Italia. Io, chiusa qui dentro, non posso rendermi conto d'altro se non della pioggia che cade o del sole che scalda i muri della villa...”

“Una settimana fa a Seminara c'è stata una dura battaglia, tra francesi e spagnoli...” iniziò a raccontare Scipione, invogliato dalla padrona di casa: “A guidare i francesi c'era l'Aubigny.”

Nel sentir nominare quel condottiero, che tanto peso aveva avuto durante il periodo della sua cattura e poi della reclusione presso i Borja, la Tigre dovette sorbire un paio di lunghi sorsi di vino, prima di riuscire a parlare: “Chi ha vinto?”

“Gli spagnoli.” rivelò il Riario, alzando le sopracciglia: “Ci sono stati anche molti prigionieri, tra i francesi... E alcuni, come Malherbe e Montauban sono stati uccisi...”

“L'Aubigny?” si informò Caterina, apparentemente impassibile.

“No, no, lui dopo la battaglia si è nascosto nella rocca di Francavilla Angitola, da dove poi si è arreso, ma da quello che so non l'hanno né catturato né ferito...” ammise il Riario.

“Raccontami tutti quello che sai.” lo incitò la donna.

Anche Galeazzo, che pur restava in silenzio, in piedi alle spalle della madre seduta in poltrona, ascoltava rapito le parole del fratellastro che raccontava – unendo ricostruzioni fatte da sé e chiacchiere sentite nelle osterie – quanto accaduto il 21 aprile a Seminara.

Scipione spiegò di come lo scontro fosse durato, di fatto, circa mezz'ora, con circa seimila uomini per parte spagnola, tra armigeri, cavalleggeri e fanti galiziani e asturiani, e nemmeno quattromila per parte francese, tra cavalleggeri, fanti svizzeri, balestrieri francesi e fanti italiani.

Il giovane illustrò come la retroguardia francese, perlopiù composta da italiani, si fosse data subito alla fuga, rompendo le righe di fanteria che avrebbero dovuto guardare le spalle ai cavalleggeri. I balestrieri, poi, si erano imboscati al primo segnale di battaglia, e così gli svizzeri, lasciati praticamente soli, erano stati assaliti frontalmente dalle fanterie galiziane e asturiane, venendo infine presi sui fianchi dalla cavalleria.

Gli svizzeri, disse, che avevano preso parte allo scontro si diceva fossero tutti morti e i cavalieri rimasti sul campo fossero stati tutti appiedati e o catturati o uccisi. L'Aubigny era riuscito a fuggire solo perché aveva abbandonato lo scontro prima del dovuto.

Sia Caterina, sia Galeazzo, avevano sorbito ogni parola come se fosse acqua fresca. Era palese, per il Riario, che la matrigna e il fratellastro anelassero quel genere di racconti, come se trattassero dell'unica vita degna di essere vissuta, una vita estremamente diversa da quella che erano costretti a subito chiusi tra quelle quattro mura.

La Sforza, in effetti, stava provando una profondissima nostalgia per la vita militare. Anche se era perfettamente cosciente di quanto la guerra fosse meschina e crudele, non poteva non guardare con malinconia agli anni passati a vivere quasi come un soldato, tra addestramenti e ronde sui camminamenti.

“L'Aubigny è un coniglio, come tutti gli altri...” commentò, più per rompere il silenzio, che non perché le importasse davvero la figura da codardo fatta dal francese.

Galeazzo, che era preso quanto la madre, ma con una sfumatura diversa, meno malinconica e molto più impaziente, fece un paio di domande al fratellastro, quasi che sapere dei dettagli in più fosse per lui fondamentale, un bisogno atavico, un qualcosa che l'avrebbe aiutato a immaginarsi meglio il tutto e quindi a placare almeno in parte la sua fame.

Il Riario l'accontentò subito, rispondendo in modo puntuale alle sue domande e, mentre lo faceva, i capelli castani lasciati un po' lunghi ondeggiavano senza sosta. Quell'immagine, assieme alle sue mani forti che mimavano certe azioni, diede alla Leonessa una strana scossa. Scipione era un uomo nella pienezza, giovane, ma con un qualcosa che gli conferiva una notevole maturità. La forza stessa della vita e delle virilità scorreva nelle sue vene e i suoi occhi erano illuminati dalla luce vivida dell'irruenza della sua età. Era così diverso da Ottaviano, che con la sua maliziosa mollezza aveva chiesto una volta di più alla madre, con la sua ultima lettera, dei soldi per mantenere il suo stile di vita dissoluto in Emilia...

Per una frazione di secondo, la Sforza si domandò se quella differenza tanto evidente nei due giovani, che grossomodo avevano circa la stessa età, non fosse da imputare alle differenti madri. In fondo entrambi erano sangue del sangue di Girolamo, ma Ottaviano era suo figlio, mentre Scipione era figlio di una donna che lei non aveva mai conosciuto...

“Se solo potessi unirmi a un esercito oggi stesso!” esclamò Galeazzo, distraendo la Leonessa dai suoi pensieri.

Resa scontrosa dalle sue stesse elucubrazioni, la donna si accigliò e, guardandolo torva, si trovò a dire: “Nessuno te lo vieta.” poi, alzandosi, guardò di sfuggita l'altro Riario e borbottò: “Ovviamente sei mio ospite per tutto il tempo che desideri. In questi giorni non c'è nemmeno Fortunati, quindi sentiti libero di restare quanto vuoi... Ora scusatemi tutti e due, ma ho bisogno di coricarmi un attimo...”

Non appena la milanese ebbe lasciato la sala, Scipione, che era rimasto colpito dal tono scostante con cui la donna si era rivolta al figlio prediletto, chiese a Galeazzo: “Tua madre sta bene?”

“Bene è una parola grossa...” commentò l'altro, appoggiando il calice di vino ancora mezzo pieno al tavolo e incrociando le braccia sul petto: “Da che è stata prigioniera a Roma, non è più la stessa...”

“Questo lo so, ma oggi mi è sembrata più...” il Riario più grande non seppe come concludere la frase, così scosse il capo e provò a dire: “Credo che le farebbe fare qualcosa... Distrarsi...”

“Non può fare nulla, finché siamo qui.” lo contraddisse all'istante il più giovane.

Scipione, a quel punto, si trovò a pensare a come la Sforza, a Forlì, avesse sempre qualche amante sottomano, e così domandò: “Sai se al momento ha qualcuno che... La consola?”

Galeazzo si morse il labbro carnoso e poi, quasi temendo che il fratellastro volesse proporsi come ripiego per la Leonessa, chiese: “Perché vuoi saperlo?”

“Non farti strane idee.” fece l'altro, intuendo i pensieri del fratellastro: “Stavo solo pensando che tutti sanno che gli Sforza sono grandi mangiatori, grandi guerrieri e grandi amatori... Il fatto che a lei, al momento, abbiano tolto tutto, tranne il cibo, mi fa pensare che un po' il suo stato d'animo sia dovuto a queste mancanze...”

A quel punto il Riario più giovane sollevò un sopracciglio, pensando al minestrone annacquato che era stato servito la sera prima a cena: “In effetti anche il cibo a volte qui lascia a desiderare...”

“Speriamo almeno di poter scendere presto in campo per recuperare Forlì...” soppesò allora Scipione: “Credo che la prospettiva di una campagna militare la farebbe stare di nuovo bene.”

“Io non vedo l'ora di poter brandire la spada per lei.” assicurò Galeazzo.

“Lo so.” fece il fratellastro: “Ed è anche per questo che voglio parlarti un po' di come vanno le cose al nord... Mentre ero in Emilia, ho avuto modo di parlare con tanta gente e ho cercato di capire come muoverci.”

Ben lungi dal rifiutare una chiacchierata che avesse la riconquista della Romagna come fulcro, Galeazzo riprese il calice di vino che aveva abbandonato poco prima e, sedendosi dinnanzi a Scipione, laddove prima stava la Tigre, lo incitò: “Spiegami tutto, fratello.”

 

Troilo aveva già firmato la delega il 17 aprile, e dunque non capiva come mai il mediatore incaricato continuasse a tormentarlo chiedendogli se davvero dovesse ritirare a nome suo la dote di Bianca. La cosa che poi lo irritava più di ogni altra era che, se da un lato Quartari gli metteva pressione, sostenendo che stesse già aspettando troppo per pretendere quanto gli spettava, dall'altro sembrava aver paura a dover rivolgersi alla Tigre di Forlì per riscuotere del denaro.

“Ve lo dico e ve lo ribadisco – fece Troilo, allargando appena le braccia – non ho alcuna fretta di incassare questo denaro... Quindi sì, vi ho dato la delega, quindi non chiedetemi più se è così o meno, ma no, non ritengo necessario che voi agiate immediatamente.”

Il Conte Battista Quartari sollevò un sopracciglio e, guardando il De Rossi per qualche secondo, commentò: “Se siete contento così... Ma per quanto mi riguarda, siete troppo indulgente. Avete consumato il matrimonio da qualche tempo, ormai: la dote vi spetta per diritto.”

“Non ho così tanto bisogno di soldi da accanirmi su una povera vedova quale è mia suocera Madonna Sforza.” ribatté, improvvisamente aspro, l'emiliano: “Mi basterà averli nell'arco dei prossimi due o tre anni, senza mettere alle strette nessuno...”

“Quindi questo mio compito è da intendersi...” iniziò a dire Battista.

“Come un compito da portare a termine, ma nel lungo periodo. Sì.” riassunse, estenuato, l'emiliano.

In realtà Troilo sapeva che non avrebbe visto quasi un soldo, di quella dote, e che parte della cifra sarebbe stata anticipata dal Cardinale Sansoni Riario, per poi entrare, come un flusso continuo, nelle casse di Caterina Sforza. Il giro da fare era notevole, ma era il modo più pulito e silenzioso per dare qualche denaro alla Leonessa di Romagna, facendo allo stesso tempo figurare una dote di tutto rispetto per Bianca.

Il De Rossi aveva incontrato Quartari a palazzo Riario – che al momento era al completo uso e consumo suo e della sua sposa, essendo il Cardinale ancora lontano da Roma – ma non aveva lasciato detto quasi a nessuno di quella visita, perciò, quando la Riario si presentò sulla porta, credendo di trovarlo solo, non poté trattenere un piccolo moto di sorpresa, nel trovarlo con un ospite.

“Il Conte se ne stava andando.” fece l'uomo, indicando con discrezione l'uscita a Battista che non si fece pregare e se ne andò subito.

“Era qui ancora per la storia della dote?” chiese la giovane, che ben conosceva l'identità di Quartari.

Il De Rossi annuì, senza parlare e poi, temendo come sempre che anche quel palazzo avesse occhi e orecchie, le chiese di andare nella loro camera da letto. Là, con Creobola fedelmente sulla porta come un cane da guardia, nessuno avrebbe osato né disturbarli, né spiarli.

“Hai più avuto notizie del Trivulzio?” chiese la Riario, non appena furono al sicuro, nella loro stanza, illuminati dalla luce tenera di fine aprile che entrava dalla grande finestra.

L'uomo scosse il capo, borbottando qualcosa sulla difficoltà di mettersi in contatto con Gian Giacomo per via dei suoi continui spostamenti.

“Notizie di San Secondo?” fece poi la ragazza, posandosi, involontariamente, una mano sul ventre, aggrottando un attimo la fronte e sedendosi sul letto.

“Stai bene?” domandò subito lui, apprensivo.

“Sì. Allora? Ci sono notizie di San Secondo?” insistette lei, non avendo alcuna voglia di parlare delle nausee che negli ultimi giorni l'avevano presa più spesso, assieme a qualche piccolo dolorino che da un lato la spaventava, ma dall'altro le ricordava anche la prima gravidanza che, in fondo, era finita egregiamente.

“Mia madre cerca di tenere le redini in pugno...” fece lui, con un'alzata di spalle: “Anche se non sempre riesce a tenere l'ordine... Mi ha anche chiesto di rientrare almeno qualche giorno, per far vedere alla popolazione che comando sempre io, ma non ho alcuna intenzione di andare e lasciarti qui da sola.”

“Portami con te.” propose la moglie, con un guizzo che aveva una punta di disperazione.

“Lo sai che per ora non si può.” la spense subito lui, andandosi a mettere accanto a lei, seduto sul letto.

“Il papa non può sempre obbligarci a...” provò a dire lei, ma il De Rossi scattò in piedi come un fulmine.

“Invece può!” la contraddisse, nervoso.

La Riario rimase impassibile, davanti a quella reazione improvvisa, e lasciò che il marito sbollisse da solo per qualche secondo, prima di dire: “Mi auguro che questa guerra finisca presto e quando questo papa morirà e ci sarà un Conclave e ci sarà un nuovo papa, stai sicuro che sarà un mio familiare, e allora nessuno potrà più dirci cosa dire e cosa fare. Saremo noi a dire agli altri cosa possono o non possono dire e fare...”

Colto da un dubbio atroce, nel sentire la freddezza con cui Bianca aveva parlato, il De Rossi si voltò a guardarla, trovando nel suo volto una donna ben più matura di quanto lasciasse pensare la sua giovane età, e le chiese: “Mi credi un uomo debole? Credi che non stia agendo come dovrei? Tu credi che dovrei oppormi apertamente al papa? Mi credi un uomo debole?” ripeté una volta di più, preda dell'ansia.

Sull'onda emotiva che l'aveva appena portata a parlare di nuovi conclavi e nuovi papi, la Riario fu tentata di dire che sì, lo riteneva un uomo debole, ma siccome non era la verità, chiuse un istante gli occhi e ammise: “No.”

Per qualche minuto, l'immagine sbiadita di Alessandro VI – che era partito per Ceri proprio quel giorno per raggiungere il convalescente figlio Cesare, colpito da una strana febbre un paio di settimane prima – e poi il De Rossi si sentì in dovere di sottolineare: “A volte si deve piegare la testa, per evitare di dover vivere in ginocchio per sempre.”

Bianca si alzò dal letto, lo raggiunse e gli strinse una mano nella sua: “Lo so.”

L'uomo sollevò gli occhi dorati verso quelli blu scuro di lei e, con serietà, le chiese: “Sei sicura di stare bene?”

La ragazza, che in effetti era pallida, annuì e abbassò lo sguardo verso il proprio ventre: “Anche con Pier Maria ho passato qualche giorno complicato, più o meno nello stesso periodo... Vedrai che andrà tutto bene.”

“Non preferiresti farti vedere da una levatrice?” chiese lui, guardingo.

“Equivarrebbe a dire a tutti che sono incinta e mi sembra un po' presto, intendo dire... Una levatrice penso capirebbe che il bambino non è stato concepito un mese fa, ma più di tre mesi fa...” obiettò lei.

“Messer Baccino dice di avere tra le sue amicizie una levatrice che farebbe al caso nostro, no?” si premurò di dire il De Rossi: “Chiamiamo lei.”

“Va bene.” accettò la giovane, in effetti desiderosa di sapere se tutto stesse andando bene davvero.

“In fondo è affidabile, questo Baccino, giusto?” chiese Troilo.

“Mia madre s'è sempre fidata di lui.” rispose la ragazza.

“Erano amanti?” la domanda era sorta spontanea sulle labbra dell'uomo, ma non appena le diede voce, strinse i denti, come se si fosse pentito di aver toccato l'argomento.

“Credo di sì.” fece Bianca, senza scomporsi, ma poi volle indagare, per togliersi la pulce che il Valentino stesso le aveva messo nell'orecchio una ventina di giorni addietro, a cena: “Per te è un problema, la fama che ha mia madre?”

Il De Rossi scosse il capo e ammise, con limpidezza: “No.”

“Io non sono come lei.” volle precisare la Riario, posando una mano sulla guancia – che quella mattina lei stessa aveva rasato alla perfezione – del marito: “Non credere che lo sia solo perché quando ci siamo conosciuti io avevo già avuto degli uomini...”

“Non lo credo, infatti.” ribatté lui, un po' infastidito: “E adesso basta, con questa storia, ne abbiamo già parlato. Io avevo un passato e anche tu avevi un passato. Anzi, come ti ho già detto, forse è stato un bene così. Altrimenti... Forse avrei avuto paura e mi sarei allontanato.”

“Paura di cosa?” insistette Bianca, benché, in effetti, l'emiliano le avesse già spiegato più volte il suo punto di vista.

“Di rovinarti, di comprometterti...” rispose lui, posando la sua grande mano su quella più delicata della sua sposa, che ancora indugiava sulla sua guancia: “Invece tu eri una donna libera e forte e queste sono cose che contano moltissimo, per me.”

“Quando all'inizio, in quella stalla, tu volevi rifiutarmi – ricordò la Riario – ho capito che non lo facevi per disinteresse nei miei confronti, ma perché sei un uomo gentile e dai sani principi, e questo conta moltissimo per me.”

A quel punto, vinto dalla vicinanza e dalla forza che la sua donna emanava, Troilo si chinò su di lei e la baciò: “Quando ce ne andremo da Roma – le promise, riecheggiando in parte le parole usate proprio da Bianca – nessuno potrà mai più dirci cosa fare e cosa dire, saremo noi a ordinare agli altri cosa fare e cosa dire.”

 

Caterina aveva aspettato con pazienza che scendesse il buio, lasciando che il fuoco che covava sotto la cenere della sua anima si ingrandisse sempre di più, pronto ad ardere tutto d'un colpo nel momento in cui avesse potuto liberarlo.

Il progetto era tutto sommato semplice, e reso meno rischioso dall'assenza alla villa di Fortunati, che, di norma, vegliava su di lei come la più severa delle sentinelle, impedendole quel genere di colpo di testa.

Scivolando per la villa come un fantasma, la donna, arrivò senza problemi a una delle uscite secondarie e si avviò nel buio della notte verso le stalle. C'era poca luna e qualche nuvola copriva la maggior parte delle stelle, eppure tanta era la voglia di sentirsi libera che nemmeno quell'intoppo l'avrebbe fermata.

Il giovane stalliere con cui aveva già avuto più di un diverbio riguardo le sue iniziative notturne, nel momento stesso in cui la vide si fece da parte, provando solo a sussurrare qualche breve frase di ammonimento, ma tacendo subito dopo.

La Tigre aveva già scelto la bestia da montare, la stessa giumenta che aveva utilizzato nel corso di un'altra sua fuga estemporanea, e aveva recuperato la sella e i finimenti, mentre il ragazzo ancora se ne stava nel suo angolo, friggendo all'idea di quello che rischiava, nel non opporsi in modo più fermo alla sua padrona.

La Sforza aveva già messo le briglie alla cavalla, quando dei passi alle sue spalle la congelarono. Si voltò lentamente, temendo di vedere chissà chi, magari una guardia francese o Lorenzo Medici in persona, e invece si sentì come sgonfiare, nel trovarsi dinnanzi Galeazzo.

“Vi ho vista uscire e ho preferito seguirvi.” spiegò lui, rosso in viso, ma con fare deciso: “Avevo paura che voleste fare qualcosa di azzardato...”

“Che male ci sarebbe, se mi facessi una cavalcata? In fondo non sarebbe la prima volta... Ho anche portato con me Bernardino, una volta...” fece lei, guardando il collo dell'animale, per non dover incrociare lo sguardo del figlio.

“Vostro cognato potrebbe venirlo a sapere e usare quest'episodio contro di voi in tribunale...” tentò di dissuaderla il Riario.

“Potrebbe anche sostenere che esco a cavallo tutte le notti, che sto radunando un esercito, che gli sto avvelenando il cibo... Chi testimonierebbe il contrario?” sbuffò lei: “Quindi tanto vale...”

Galeazzo, però, lo sguardo basso e le guance in fiamme, non sentì ragioni e, senza dire nulla, raggiunse la cavalla, prese la sella e la mise da parte, poi le tolse le redini e la richiuse nel suo cubicolo, senza che Caterina trovasse la forza di fermarlo.

Il figlio aveva le spalle larghe, era più alto di lei e, probabilmente, ormai era anche più forte di lei.

Non le faceva paura, ma incuteva in lei uno strano senso di soggezione che la portò a restare immobile a guardarlo mentre vanificava il suo tentativo di fuga.

“Come hai fatto a vedere che stavo uscendo?” chiese la Leonessa, stizzita: “Ho aspettato che fosse tardi proprio per...”

“Siete molto più nervosa, quando messer Fortunati è a Firenze...” spiegò il Riario: “E oggi, quando parlavamo con Scipione, mi siete sembrata... Ho... Per sicurezza ho preferito tenervi d'occhio.”

“Dovresti avere altri impegni, a quest'ora della notte...” lo rimbrottò la Tigre, colta nel vivo: “A dicembre farai diciotto anni... I ragazzi della tua età passano le loro notti a rincorrere sottane, non a curarsi di cosa facciano le loro vecchie madri...”

“Non tutti hanno a cuore le loro vecchie madri.” fece eco lui, inamovibile.

A quel punto, con un sospiro, la donna si rivolse allo stalliere, sempre immobile nel suo angolino, e gli intimò: “Sistema tutto. Non esco più, per stanotte.”

Il Riario, allora, si avviò all'uscita della stalla e la madre lo seguì, improvvisamente docile. Ancora porpora in viso, ma decisamente sollevato, Galeazzo si permise di tornare a respirare.

“Perdonami per quello che ho detto prima, sui ragazzi della tua età e sulle sottane da inseguire...” si permise di dire la Leonessa: “Non volevo metterti in imbarazzo.”

“Sono stato io il primo a essere indelicato.” la corresse lui: “Non avrei dovuto insinuare che tra voi e messer Fortunati ci sia qualcosa.”

“In ogni caso... Pensi che sarebbe un male?” indagò la Sforza, mentre la villa si avvicinava inesorabile, come una montagna scura nel buio della notte, come una prigione silenziosa ed elegante, ma da cui era impossibile evadere.

“No.” ribatté subito lui, per poi schiarirsi la voce e precisare: “Messer Fortunati è un uomo buono e ci ha sempre protetti. Credo che abbia un'influenza positiva, su di voi.”

La milanese annuì e non toccò più l'argomento. Camminarono in silenzio fino alla porta della camera di Galeazzo e lì la donna lo salutò augurandogli una buona notte.

“Andrete anche voi a dormire, adesso?” si informò il Riario.

Per un breve istante, la Leonessa credette che il giovane temesse che lei, invece di ritirarsi per riposare, si sarebbe messa a cercare compagnia per la notte, come aveva fatto centinaia di volte nella sua rocca, a Forlì, scegliendo questa volta tra i servi invece che tra i soldati.

Sia per fargli capire che aveva capito il suo dubbio, sia per tranquillizzarlo, sorrise e rispose: “Per forza mi tocca andare a dormire... In questa villa ci sono solo o dei vecchi come Frate Lauro, o dei ragazzini come lo stalliere...”

Galeazzo ricambiò il sorriso, pensando comunque che in quella villa c'era anche il De Marzi e che, comunque, lo stalliere non era poi così giovane, visti i gusti che sua madre aveva dimostrato, in primis con la scelta di Giacomo Feo.

La Tigre si accontentò di quel sorriso un po' timido e, con un buffetto sulla spalla, lo salutò una volta di più e andò verso la sua stanza. Si sedette sul letto e attese qualche minuto che il fuoco che aveva dentro si spegnesse, frustrato da quella mancata fuga nei boschi.

Le bastò poco, invece, per capire che il fuoco avrebbe arso tutta notte e, sapendo di non aver modo di spegnerlo, né di tenerlo molto a bada, si rassegnò a lasciarsi riardere e a non dormire. Con un sospiro, lasciò la sua camera e andò nella sala delle letture.

Con pazienza accese il camino, per farsi luce, prese un libro di cui non le importava nulla, e provò a leggere.

Perse subito il filo del discorso, ma trovò un'altra occupazione per tenere la mente imbrigliata in pensieri che non la portassero di nuovo a tormentarsi per l'assenza del piovano – l'unico amante che, dopo quanto aveva subito per colpa del Borja, fosse al momento pronta ad accettare – o a voler evadere, anche se solo per qualche ora: pensò a Galeazzo. Ragionò sul suo passato, sul suo presente e sul suo futuro e, quando arrivò la prima luce dell'alba, in lei c'era sempre un fuoco tumultuoso, ma anche la ferma volontà di fare per il suo figlio prediletto tutto quello che avrebbe potuto per permettergli di scegliere la strada per lui migliore e per farlo diventare l'uomo che meritava di essere.

   
 
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Storico / Vai alla pagina dell'autore: Adeia Di Elferas