Anime & Manga > Lady Oscar
Segui la storia  |       
Autore: settembre17    26/03/2023    17 recensioni
Si parte dalla liberazione dei soldati, ma si torna anche un po’ indietro e si va avanti. Fino a che punto? Si vedrà. L’avvertimento è uno solo: tutto quello che troverete forzato è spudoratamente e volutamente forzato!
“E sento di essere un uomo. Penso che un uomo sia una cosa molto importante, forse più importante di una stella. Questa non è teologia. Non mi sento portato agli dèi. Ma provo un nuovo amore per quello scintillante strumento che è l’anima umana. È una cosa bella e unica nell’universo”.
(J. Steinbeck, La Valle dell’Eden)
Genere: Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Alain de Soisson, Altri, André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<  
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Perdonatemi, il capitolo è davvero molto lungo, ma non lo voglio spezzare. Ho messo gli asterischi, così potete tenere il segno e decidere voi se, quando e dove interrompere la lettura. E sì, so che il tricolore il 14 luglio è una forzatura, ma io l’avevo detto che avrei forzato.
E, verso la fine, c’è un bellissimo dono di Galla, generosa, talentuosa e sempre affettuosa amica.
 

14 luglio 1789

 
Strizzò con uno spasmo incontrollato la mano che era nella sua, la mano di André addormentato al suo fianco nel loro letto di Saint-Eustache. Le ore della notte erano spaventose. E quella pioggia battente non aiutava, incupiva i pensieri, faceva aleggiare foschi presentimenti, faceva immaginare dolore e morte. Alzarsi e vedere le stelle, vedere la luna. Forse questo le avrebbe concesso una sorta di conforto. Invece solo scrosci di pioggia. Le venne da tossire ma si trattenne per non svegliare André. L’odore della polvere da sparo e della terra che aveva respirato le grattavano il fondo della gola.
Immobile, supina nel letto. Lui immobile, supino nel letto.
Il pensiero di loro due, supini in due bare vicine.
O, peggio, di uno solo di loro due, supino in una bara.
Le mancò il fiato e si mise la mano libera sul petto, facendo uscire piano l’aria dalle labbra. L’oppressione che sentiva era troppo violenta.
Dormire era impossibile, la testa girava frenetica tra mille pensieri che si sovrapponevano ai ricordi della sera prima.
Quando era caduta a terra e aveva sentito il cuore frantumarsi e aveva creduto di vedersi morire. E invece non era morta e non era nemmeno ferita. E aveva premuto i palmi delle mani a terra per rialzarsi e non aveva visto sangue e non aveva sentito dolore sul corpo. Ma aveva capito perché era caduta: era caduta perché il dolore era nel cuore, quello sparo alle sue spalle, quel proiettile che l’aveva solo sfiorata – solo sfiorata! – aveva abbattuto la sua corsa esattamente quando il volto bianco e privo di sensi di André aveva raggiunto i suoi occhi. E lei non aveva retto, non aveva retto al dolore.
Si sentiva così fragile di fronte alla potenza dei suoi sentimenti. Non era abituata a sentirsi così. Le sofferenze che aveva provato anni prima per il conte svedese e che lei aveva attribuito all’amore non si affacciarono nemmeno all’anticamera della sua coscienza come metro di paragone.
Il pensiero di André che si allontana nel buio della morte.
Sentì che le lacrime rotolavano in silenzio sulle sue guance e bagnavano il lenzuolo. Fissò la piega del cotone bianco sul suo petto e in un attimo fu travolta dal ricordo di quel lenzuolo non piegato ma attorcigliato su di loro, di quel lenzuolo abbandonato sulle loro teste per nascondere i loro baci, perché nessuno li veda, perché nessuno possa invidiarli, quei baci, vede quel lenzuolo dove si sono rotolati ridendo, vede quel lenzuolo sul quale ha imparato, in una notte che è paradiso nel ricordo, che cosa il suo corpo può fare, che cosa il suo corpo può sentire. Ma non c’è niente da fare, non c’è niente da sentire, se con lei non c’è quell’uomo che ora dorme profondamente al suo fianco.
 
Stringe ancora la mano di André e assapora il calore di quella mano viva. Viva per un miracolo, viva per le cure di Iatroux.
Rivede il corpo di André, la camicia ormai rossa di sangue, che viene calato dal cavallo di Alain, vede Alain che corre via in cerca di un dottore alla barricata. Si sforza di non ascoltare di nuovo le grida della nonna, sente di nuovo i tonfi del suo cuore e il respiro sincopato di André che si è riscosso nei movimenti necessari a trasportarlo in casa.
Vorrebbe girarsi a guardare il profilo del suo André che dorme, ma non ci riesce.
E allora torna a quelle parole di Iatroux – è solo la spalla, è solo la spalla – che risuonano in lei come una promessa a cui è meglio non credere, come una speranza elargita da un dio crudele che poi si porterà via tutto, e non si concede di sorridere perché tutto va male, tutto va troppo male. E mentre Iatroux, le mani ferme, senza traccia di delirium tremens, si dà da fare intorno ad André – André che non le parla, André che non la guarda, André che ha un corpo che non si muove – lei si appoggia alla parete con gli occhi sbarrati e il fiato trattenuto.
Ma poi era venuto davanti a lei, quel medico greco che ormai le pare il dio della medicina in persona, che ormai le pare l’angelo salvatore dell’uomo che lei ama, e le aveva detto: Ho estratto la pallottola, medicato la ferita. Domani, se è un uomo come intendo io un uomo, sarà come nuovo. E poi aveva riso, quella faccia che sembrava un libro di geometria, con i suoi spigoli, con i suoi angoli, con quei dannati accenti circonflessi al posto delle sopracciglia.
Si mise sul fianco e si guardò tutto il suo André che era ancora lì con lei. I capelli scuri si allungavano sul cuscino, la ciocca che di solito gli copriva l’occhio era spostata di lato e lei nel buio intuiva la cicatrice. Desiderò baciarla, ma lo fece solo con gli occhi.
Quella cicatrice… i problemi alla vista… le parole di Alain: André si è paralizzato nel mezzo della nostra fuga verso Saint-Eustache, a un certo punto ho visto che il suo cavallo invece che procedere indietreggiava e lui si teneva la testa, bianco come un cencio, tremava e aveva l’occhio sbarrato e appena ho capito sono tornato indietro, comandante, ma non sono riuscito, non sono riuscito, maledizione, a proteggerlo! A fargli abbassare la schiena prima che quel soldato gli sparasse, non ci sono riuscito! E lei l’aveva visto piangere, Alain. Come l’aveva visto piangere per Diane. Ho già perso una sorella, non posso perdere anche un fratello, le aveva detto.
E non l’aveva perso, pensò lei guardando il profilo del naso, il profilo delle labbra di André.
Il suo André che era ancora lì con lei, il suo André che prima di crollare nel sonno profondo che nasce dalla sofferenza e dallo stordimento le aveva sussurrato ti amo, non avere paura, il suo André che aveva trovato la forza per abbracciarla con il braccio non ferito, perché lui lo sapeva quanto lei volesse quell’abbraccio.
E quando la pioggia cessò, finalmente, quando il primo chiarore dell’alba iniziò a invadere la stanza e lei realizzò che erano in una città in guerra, una nuova paura la investì violenta: Cosa succederà oggi? Come sopravviveremo a oggi?
Era sufficiente tenersi per mano per non avere paura?
 
***
 
Marcel dormiva e nel sonno vagava nel suo quartiere, proprio come aveva fatto la sera prima. In quelle immagini sconnesse del sogno, abbassando lo sguardo su di sé vedeva solo il blu della coccarda vicino al collo, la camicia bianca che si apriva sul petto, la cintura dei pantaloni. Poi scorgeva le sue gambe svelte che percorrevano strade e vicoli e i suoi piedi nudi che calpestavano zolle d’erba e infine sentiva l’odore stantio di fiori diversi che avevano tutti lo stesso profumo di cimitero e poi vedeva un angelo su cui si arrampicava dell’edera e poi sentiva la sua voce che diceva Ciao mamma e poi sentiva una specie di calore umido sulle guance e vedeva le sue dita, le unghie sporche di fango e polvere, che si appoggiavano a quella esile spalla d’angelo come per trovare un appiglio e poi lui che diceva Ho paura, Joss. E in effetti non era più di fronte a quell’angelo, ora, ma era su quel gradino dove lui e Joss passavano le sere a chiacchierare e a darsi baci e lui le teneva entrambe le mani, c’erano sempre quelle unghie sporche di fango e di polvere, e lei gli stava parlando in una strana lingua sconosciuta che lui non capiva, allora lui le diceva Amore, amore, io non ti capisco e lei gli sorrideva scoprendo i denti bianchissimi e faceva sgusciare una mano dalla sua e gli apriva la camicia sul petto e con l’indice gli mostrava il tatuaggio, i due cuori uniti da una catena, e sorrideva e in una strana lingua che Marcel non conosceva diceva qualcosa di molto dolce.
 
Marcel aprì gli occhi sul soffitto della casa di Crochet. Un attimo prima i suoi occhi erano sigillati dal sonno, ora erano spalancati. Teneva la testa ferma sul cuscino e il corpo immobile, ma gli occhi erano sbarrati. Il movimento delle palpebre impedito da uno stato di attesa, il respiro trattenuto per una ignota paura. Lentamente e poi sempre più distintamente giunsero alle sue orecchie i suoni della strada.
C’era gente che urlava, là fuori.
Spari.
Porte che venivano sbattute.
Pianti di bambini.
“Ma che succede?”, Marcel in un balzo fu fuori dal letto; si vestì e uscì.
 
***
 
Marie finì di medicare e di fasciare la spalla di André mentre Oscar, gli occhi cerchiati e stanchi ma lo sguardo affilato e attento, squadrava l’espressione del volto dell’uomo che amava. La forza di volontà di André le parve grande come una montagna di cui non si vede la cima: come riusciva a mostrarsi così forte dopo quella ferita? Come riusciva a nascondere la paura? Come era riuscito, appena si era alzato dal letto, ad abbracciarla e a rassicurarla e a confortarla? Non avrebbe dovuto farlo lei?
 
Avevano deciso di andare tutti alla barricata di Bernard, nessuno si sentiva più tranquillo lì. Giravano voci di case depredate, di bande di disperati che, approfittando della situazione nelle strade, entravano a svaligiare appartamenti, a devastare stanze, a rubare qualunque cosa, fosse anche un pezzo di pane.
“Non ci possiamo difendere se non ci siete voi, siamo troppo deboli”, aveva sentenziato con la voce stanca e rassegnata Monsieur Dunant.
“Sì, non abbiamo scelta”, aveva convenuto Lucille stringendosi nervosamente le mani in grembo.
“Ho preparato una borsa con il necessario per tutti”, aveva aggiunto Marie con tono grave.
 
Uscirono in strada e si accorsero subito che quella era la mattina di un giorno diverso da qualunque altro giorno. Gente correva verso ovest – Agli Invalides!, urlavano quelli -, altri verso est – Alla Bastiglia!, urlavano gli altri – e tutti correvano, incuranti di quello che travolgevano nella loro corsa. Lucille faceva il possibile per reggere il passo stentato di suo padre, Oscar aveva il cuore in gola e contava i passi che separavano il loro piccolo gruppo dalla barricata. Vedeva André, pallido pallido, che cercava di fare spazio alla nonna in mezzo alla folla mentre con una mano si reggeva la spalla ferita. Ma lei non riusciva a parlare, riusciva solo a camminare, a contare i passi, a scrutare l’orizzonte pregando che quella barricata comparisse il prima possibile ai suoi occhi.
Quando arrivarono alla piazza davanti al vicolo barricato, si concesse di respirare e di abbozzare un piccolo sorriso che le morì sulle labbra non appena si accorse che, alla sua destra, un gruppo di uomini armati si stava avventando su un drappello di soldati a piedi. Sentì sparare alle sue spalle, ma non avrebbe saputo dire chi avesse sparato, se i soldati o quegli uomini.
Allora gridò:
“Presto! Correte!”
Sentì una gragnola di colpi che si abbatteva dietro di loro.
Con la coda dell’occhio vide la schiena di André che si curvava sulla nonna per proteggere la sua corsa e gli si accostò per aiutarlo. Correvano, loro due, le mani strette convulsamente sulla schiena di Marie, il sudore della paura che bagnava la pelle tra le labbra e il naso.
E quando arrivarono al riparo di uno dei vicoli e si voltarono videro che lo scontro era finito ma che nessuno correva dietro di loro.
Marie si coprì la bocca con le mani tremanti.
Oscar iniziò a scuotere il capo come a dire “no” mentre guardava il corpo a terra di Lucille.
André corse verso quel corpo e vide, appoggiata sulle ginocchia di Monsieur Dunant, la testa di Lucille, i capelli che uscivano dalla crocchia e che le accarezzavano il viso, immobile con gli occhi aperti sul niente.
Monsieur Dunant tremava. Tremava di dolore e di incredulità e riusciva solo a respirare come respira una bestia ferita a morte, con le mani che non arrivavano a sfiorare il viso di sua figlia ma stavano lì, a mezz’aria, e lui non era in grado nemmeno di sbattere le palpebre asciutte e alla fine, quando André lo guardò e gli disse piano “Henry…”, lui fece un respiro profondo che a metà si spezzò, insieme alla sua vita.
E il capo di Monsieur Dunant crollò sul volto bianco di sua figlia.
 
***
 
Sgusciando tra la folla che invadeva la strada e che procedeva come avesse un unico passo verso l’Hôtel des Invalides, Marcel riuscì a capire che stavano tutti andando là per procurarsi armi e che quelle armi non le avrebbero chieste, se le sarebbero prese con la forza. Pareva di camminare in mezzo a degli spiritati, persone che hanno smesso di essere persone e si sono trasformate in un corpo solo, guidato da un unico pensiero, da un unico scopo. Al bordo della strada vide la carcassa di una cagna appena calpestata. In braccio a una donna un bambino di tre o quattro anni, muto e fermo come un bambino di quell’età non dovrebbe essere. Aggrappati a giovani braccia, vecchi che imprecavano per avere anche loro un fucile.
Marcel si fermò contro un muro rientrante nei pressi dell’abbazia per riordinare i pensieri e sottrarsi a quel fiume in piena. Era sbigottito e faticava a prendeva consapevolezza di quello che stava vivendo a tal punto che la memoria lo riportò, così, senza senso, a quando era bambino e quelle strade, nel periodo di Pasqua, si riempivano di gente per la fiera di Saint-Germain. Sua madre lo portava a vedere il teatro dei burattini e lui era felice.
Fece ancora qualche passo per raggiungere una delle strade secondarie che si diramavano poco più avanti.
D’improvviso, però, Marcel ebbe un sussulto: in mezzo al fiume di gente che procedeva verso gli Invalides e dal quale lui si era appena sfilato trovando riparo in un vicolo alla sua sinistra, vide con la coda dell’occhio che una ragazza si stava gettando con il suo corpo su quello di una donna anziana caduta a terra. Quel viluppo di corpi si fece immobile in mezzo alla folla che lo lambiva da ogni lato e che sicuramente l’avrebbe a breve schiacciato. Ma la cosa che, in un istante, il tempo di un battito di ciglia, stupì Marcel era che quel groppo di ossa, carne e stracci non si muoveva: la ragazza copriva il corpo sotto, come in attesa di una percossa ineluttabile, di un colpo mortale che le avrebbe spazzate via entrambe.
Allora Marcel, facendosi largo contro corrente, si precipitò a raccoglierle, fece alzare la ragazza e le indicò il vicolo vicino, si caricò sulle spalle la donna anziana e la seguì.
“Ora tu e tua nonna siete al sicuro”, disse Marcel facendo sedere la donna su un gradino, “ma non è stata una buona idea uscire di casa oggi. Dovete mettervi al riparo, hai capito?”
La ragazza alzò lo sguardo su di lui e con voce assente disse:
“Non è mia nonna. È mia madre. È molto malata, vedi? Non ha più i denti, è tutta pelle e ossa… hai sentito come è leggera? Credo che non abbia ancora quarant’anni. I suoi capelli sono tutti bianchi, hai visto? Ha solo me…”
“Tu… stai parlando di lei come se non fosse qui… come se non ti sentisse…”
La ragazza accarezzò la fronte della donna e poi le tenne la mano tra le sue:
“Ormai non capisce più… non sa nemmeno che io sono sua figlia… il prete dell’estrema unzione dice che sono le febbri del cervello… ma io non so…”, gli piantò gli occhi in faccia, “tu pensi che sia importante che io lo sappia?”
Marcel la guardava e non trovava parole da dirle. La folla alle sue spalle continuava a sciamare e a gridare e a imprecare e a lui all’improvviso importava solo di quelle due sconosciute, di quella ragazza e della sua piccola storia di miseria.
“Ma dove stavate andando?” chiese dandosi dello stupido per quella domanda così pratica e banale.
“Alle panchine de La Charité. Andiamo sempre lì a prendere il fresco la mattina”.
“Ma ti sei accorta di che cosa sta succedendo? È pericoloso! Dovete tornare a casa, subito!”
“Ascoltami bene, ragazzino”, gli soffiò in faccia in tutta risposta quella giovane donna tutta pelle e ossa, “non c’è differenza tra questa vita e la morte, ti pare? A mia madre piace la panchina de La Charité e io, caschi il mondo, la porto su quella panchina. Non possiamo permetterci nient’altro: la nostra casa è una stanza ammuffita sottoterra, abbiamo smesso di usare le parole “colazione” e “cena” tre anni fa, ora usiamo solo la parola “pane”, ogni tanto e se qualcuno è caritatevole con noi. Quindi spostati, io ora porterò mia madre su quella stramaledetta panchina, a costo di arrivarci e poi morire. Ti è chiaro?”
Marcel sentì una specie di furore montargli alla testa e in tutta risposta si caricò la donna sulle spalle e si incamminò verso la strada principale.
“Ehi, che fai?”
“La porto a quella stramaledetta panchina”, gridò lui senza voltarsi, “e faresti bene a seguirmi anche tu, ragazzina”.
Arrivarono alla panchina remando contro corrente e stando allacciati in mezzo alla folla che fendevano protendendo la testa in avanti, Marcel con il suo carico sulle spalle, la ragazza con la mano tesa e sempre appoggiata alla schiena di sua madre, il palmo aperto sulla stoffa ingrigita della veste di quella donna del tutto inconsapevole del mondo intorno a sé. La donna fu fatta sedere con cura da entrambi sulla panchina e poi la figlia le sistemò le rade ciocche di capelli dietro le orecchie rassicurandola, “Siamo arrivate, mamma, vedi?”, mentre Marcel si guardava intorno per decidere se quel posto fosse sufficientemente riparato.
“Ascoltami, dovete trovare un posto dove mettervi al sicuro. La città si è svegliata molto nervosa, te ne accorgi, vero? State rischiando la vita voi due”.
“E tu? dove vai?”
“Devo raggiungere i miei compagni, ci sarà da combattere oggi e io devo fare la mia parte”.
“Non cerchi un posto dove metterti al sicuro? La città si è svegliata molto nervosa, oggi” disse lei facendogli il verso ma senza ironia, con brusca sollecitudine, piuttosto.
Lui le sorrise e le fu riconoscente per quella premura.
“Ragazzina, io farò il mio dovere, tu fai il tuo. Domani mattina vengo ad aiutarti di nuovo a portare qui tua madre”, e le voltò le spalle.
Ma lei lo fermò:
“Aspetta!”
Estrasse dalla tasca una corona di rosario fatta di piccoli grani di legno scuro e la stese tra le mani guardando Marcel. Lui si avvicinò e chinò la testa bionda davanti a lei. Allora la ragazza infilò la corona sulla testa di Marcel e la sistemò al suo collo facendo uscire i capelli che gli coprivano la nuca. La corona scese sul petto di Marcel che appoggiò il palmo aperto della sua mano su quel dono inatteso.
“Grazie”, disse solo.
Lei gli sorrise e poi si sedette vicino a sua madre prendendole la mano:
“Hai visto che bel sole, mamma? Non piove più”.
 
***
 
I corpi di Lucille e di Monsieur Dunant furono portati nella piccola chiesa sulla piazza, dove già erano stati composti i corpi dei caduti del giorno precedente. Sul sagrato alcuni falegnami avevano ammucchiato bare messe insieme con quello che avevano trovato, ante di armadi, mensole, piani di tavoli. Lei fissava quel mucchio senza riuscire a distogliere lo sguardo.
“Vi state chiedendo chi di noi entrerà in quelle casse oggi?” chiese Crochet a bassa voce. Era appena arrivato o era sempre stato lì?
“Mi sto chiedendo per quale sorte né io né André siamo dentro una di quelle bare”, disse piano.
“Capisco. Ma non torturatevi, è un pensiero che non vi porterà a nulla, datemi retta. Finché si è vivi bisogna vivere, non serve chiedersi perché non si è morti. Non sta a noi saperlo”.
“La morte porta via tutto. I sogni, le speranze…”
“Avete ragione, sì”, Crochet si abbassò sui talloni e guardò giù e avanti, come se volesse scrutare qualcosa di incastrato tra un ciottolo e l’altro del sagrato, “Io però non penso più a sogni e speranze. Sono vecchio, il mio orizzonte è limitato. La morte di quelli che amo mi porterebbe via una risata a fine giornata, un bicchiere di vino insieme in quel momento dopo pranzo in cui ti viene sonno, aprire la porta e sapere che come tutte le mattine vedrai un amico indaffarato alla sua scrivania, due mani simili alle tue che insieme alle tue reggono un cuoio gocciolante”, la sua voce era così dolente e così malinconica e graffiava e accarezzava insieme.
“Sì… le piccole cose… Finché si è vivi bisogna vivere, è così?”, mormorò lei sovrappensiero, “Grazie, Crochet”, aggiunse appoggiandogli una mano sulla spalla. Poi con urgenza scappò via, verso la taverna.
Entrò e gettò lo sguardo nella penombra a cercare la sola persona che voleva e lo vide mentre parlava con Bernard e, alle loro spalle, la nonna e Rosalie facevano scaldare del caffè e qualche pezzo di pane secco. Non le importava niente di quello che stavano facendo, di quello che si stavano dicendo. André non fece in tempo a girarsi e a pronunciare il suo nome, lei l’aveva già trascinato in un angolo del sottoscala. E mentre gli altri li guardavano, com’era ovvio visto che tutto era stato così improvviso, lei si arrampicò con le sue labbra su quelle di André e chiuse forte gli occhi, fino quasi a sentire male, schiacciò le labbra su quelle di lui spingendogli indietro la testa e appoggiò le mani sul suo petto. E lui rispose a quel bacio con una spinta opposta e le prese la testa tra le mani e la costrinse ad aprire le labbra sulle sue e la assaporò tutta, davanti a chiunque li stesse guardando, senza frenare il bisogno e il desiderio di vita che li attraversava e li scuoteva in quella mattina del 14 luglio.
 
***
 
Poi.
Poi ci furono delle voci, delle grida concitate.
Poi ci fu una corsa affannosa verso la barricata.
Poi ci fu Alain che si arrampicò con l’agilità di un felino e lo sguardo di un assassino sui mobili accatastati fino alla sommità della barricata.
Poi la sentinella urlò “Marceeel!”
Poi a Iatroux cadde di mano una tazza.
Poi gli spari e il battere velocissimo degli zoccoli dei cavalli.
Poi Oscar si inerpicò sulla barricata vicino ad Alain.
Poi André, indifferente al dolore alla spalla, si arrampicò sulla scala del balcone e raggiunse la postazione della sentinella.
Poi Roger, retto da Crochet, iniziò la sua scalata e, una volta in cima, abbracciato alla gamba di un tavolo rovesciato, vide.
Tutti videro.
 
Videro Marcel che galoppava verso di loro inseguito da un gruppo di soldati a cavallo con i fucili spiegati. E quei soldati spararono, spararono. Ancora e ancora. Allora anche dalla barricata iniziarono a sparare all’impazzata contro gli inseguitori di Marcel. Marcel teneva le briglie arrotolate al polso sinistro per accorciare le redini e manovrare con decisione il suo cavallo e con l’altra mano reggeva il fucile. Ma gli spari nemici trovarono alla fine un bersaglio e, proprio sotto la barricata, il cavallo di Marcel stramazzò al suolo sul fianco facendo cadere Marcel e schiacciandolo sotto il suo peso. E loro dall’alto videro in un istante Marcel, il fucile lontano a terra, che si dimenava per liberarsi dal peso del cavallo, ma quelle briglie arrotolate al suo polso lo stringevano e più lui tirava più stringevano e lui, dannazione, non riusciva a liberarsi e vedeva le sue mani, le sue dita, le sue unghie sporche di fango e di polvere, e sul suo volto congestionato lo videro tutti il terrore. E dietro a Marcel sentivano rumore di spari e di cavalli al galoppo ma non si vedeva niente in mezzo a quel polverone. Allora Alain smise di sparare ed estrasse dallo stivale il suo coltello e lo lanciò sotto a Marcel, “Taglia! taglia quelle redini, Marcel!”, e Marcel con la mano libera l’aveva afferrato quel coltello benedetto e si dava da fare ma non ne veniva a capo, ogni movimento finiva a vuoto, come mosso da una mano insicura. “Concentrati, Marcel! non tremare, non avere paura!” gli gridava Alain, così forte che avrebbe potuto sputare fuori i polmoni insieme alle parole, mentre tutti, dalla barricata e dalla piazza sparavano, ma davvero c’era troppa polvere si vedeva pochissimo e i colpi andavano a vuoto e Roger tratteneva il respiro e sembrava scosso da un tremito senza fine. E Alain aveva avuto l’istinto di precipitarsi in strada da lui, ma una certezza che non voleva ammettere lo inchiodava lì con gli occhi fissi su Marcel, la certezza che se fosse sceso da quella barricata, se fosse corso in strada, se fosse arrivato fino a Marcel, sarebbe stato troppo tardi. Perché tutto si decideva in quella manciata di secondi che non sarebbero bastati a coprire la distanza dalla barricata alla piazza, quei secondi che si esaurivano uno dopo l’altro strisciando su di loro come un veleno che inesorabile dagli arti risale al cuore. “Taglia, Marcel, maledizione!” gridò André nel vedere l’ennesimo tentativo a vuoto di Marcel, e, prima di imbracciare anche lui il fucile per cercare di abbattere i soldati che si confondevano nell’aria polverosa, volse lo sguardo verso di lei che stava dicendo qualcosa e aveva gli occhi sgranati e il colore terreo di chi vede la fine di ogni speranza, e lei stava dicendo qualcosa, anzi continuava a ripetere qualcosa, ma cosa?, e così André lesse sulle sue labbra quello che lei stava dicendo e stava dicendo: “è mancino, è mancino, è mancino”. E non aveva ancora finito di dirlo che uno di quei soldati sbucò da quella nebbia giallastra, si avvicinò a Marcel e - tutti sentirono quel rumore osceno - gli conficcò la baionetta nel cuore.
 
Poi furono solo le grida di dolore di Roger.
Gli spari degli uomini della barricata che alla fine ammazzarono quei soldati, tutti.
I corpi riversi a terra, su quella piazza insanguinata.
E Marcel, con la schiena a terra e le braccia spalancate sul selciato, con la camicia aperta sul suo petto sul quale il sangue si mescolava ai grani di un rosario e a due cuori uniti da una catena, morì guardando il cielo azzurro e muovendo le labbra per riuscire a dire Joséphine, ma riuscì solo a dire Jos.
 
***
 
“I cannoni della Bastiglia!” urlò uno affacciandosi alla porta della taverna.
“Che succede?” saltò su Bernard.
“Sono puntati sulla città! Faranno fuoco sulla città!”
“Dobbiamo andare alla Bastiglia, subito!” disse Bernard.
Lei fece di no con la testa. Era seduta su una cassa nel vicolo e sentiva solo il bisogno di fermarsi, no, il bisogno che tutto si fermasse, che tutto finisse. Invece non c’era mai fine, non c’era mai fine. Tutti i grandi ideali finivano in quel dolore, in quella carneficina, nelle lacrime di Crochet, nello sbigottimento di Iatroux le cui mani tremavano ma non per il delirium tremens, nella bocca senza voce di Roger - che, lui non lo sapeva, non avrebbe parlato mai più fino al giorno in cui la morte lo raggiunse esattamente un anno dopo nel magazzino della sua pelleria -, nel corpo di Marcel bianco e sempre più freddo.
 
“Comandante, dobbiamo andare alla Bastiglia”
“Non ne ho la forza, Alain”
“Sì che avete la forza. Il popolo ha bisogno di noi, siamo soldati e dobbiamo combattere, comandante. Senza di voi non si muoverà nessuno, lo sapete”
“Starò qui con André”
“Anche André verrà alla Bastiglia, comandante. È la battaglia per la libertà. Volete davvero rinunciare, volete davvero che vincano loro, che tutto torni come prima?”
Lei lo guardò negli occhi e vide la sua stanchezza ma anche la sua determinazione. In quel momento André superò Alain e si mise esattamente davanti a lui e di fronte a lei e le disse:
“Tutti quelli che hanno un’arma, un’arma qualunque, stanno andando alla Bastiglia, Oscar. Andiamo, c’è bisogno anche di noi”. Le tese la mano.
 
Dammi la mano e combatti con me, amore mio.
Dammi la mano e non avrò paura.
Dammi la mano e viviamo insieme anche questo.
Dammi la mano e scendiamo all’inferno insieme.
Dammi la mano e insieme usciremo da questo inferno.
Dammi la mano e non sentirò mai la solitudine.
Dammi la mano e combatti con me, amore mio.
Amore mio.
 
***
 
I cannoni del popolo, disposti in modo da formare un ampio semicerchio sui lati della piazza di fronte alla fortezza della Bastiglia, parevano relitti abbandonati da un esercito in fuga, colombi si sistemavano sulle ruote e sulle bocche come spettatori curiosi ai balconi di una piazza in cui sta per andare in scena una giostra di cavalieri.
“Nessuno di noi sa come si usano” disse allargando le braccia un ragazzone che teneva tra le mani una grande bandiera issata su un’asta più alta di lui.
“Ci pensiamo noi” rispose lei, “mi serve quella bandiera”.
 
E a un suo cenno alcuni dei soldati si posizionarono a gruppi di tre dietro i cannoni e li manovrarono con precisione perché le bocche fossero puntate contro la parte alta della fortezza.
Intanto lei dava gli ordini agli altri soldati:
“Che nessuno occupi lo spazio davanti ai cannoni! Deve restare libero! Disponetevi in formazione di tiro lungo il perimetro della piazza e non fate passare nessuno qui in mezzo, mi sono spiegata? Il nemico cercherà di colpirci e questo spiazzo tra poco sarà il posto più pericoloso di Parigi. Tenete lontano il popolo da qui e puntate i fucili sulle feritoie della Bastiglia. I fucilieri faranno fuoco contro di noi da lassù”.
E con un balzo, senza nemmeno aspettare la risposta “agli ordini, comandante!”, si era già messa sull’attenti dietro ai cannoni, al centro dello schieramento, alle spalle di tutti, con la bandiera alta tra le mani.
Alain e André, accucciati alle ruote del cannone più vicino, la fissarono sospesi. Infine, quando lei ebbe controllato che anche gli altri fossero pronti e che la stessero guardando, allora fece un respiro profondo, aprì e chiuse le mani sul legno ruvido sul quale era issata la bandiera che nella sua caduta verticale le accarezzava il volto con i lembi rossi e blu, e, con un movimento secco che tagliò l’aria e l’attesa, si vide quel pezzo di stoffa arrotolata su sé stessa aprirsi in un tricolore che tagliò il cielo con un semicerchio che infine si abbatté sul selciato al centro dei cannoni mentre lei gridava:
 
“Fuoco!”
I giardini di Versailles avvolti nel chiarore del pomeriggio, acque cristalline e fiori sempre in boccio perché nessuno possa vederli sfiorire, arie di violini trasportate dalla brezza primaverile su su, fino alle sommità degli alberi dove uccellini beati sembrano godere di quella musica nata per il diletto di pochi. Campagne allagate e grano marcito, contadini stremati che nel pomeriggio sentono stringersi la gola per l’angoscia di non avere niente da mettere sulla tavola a cena, il muggito lento di mucche scheletriche che raggiunge la tana di una lepre che preferisce nascondersi sotto la terra.
 
Di nuovo la bandiera sul selciato:
“Fuoco!”
Gilbert Sugane che dovrà morire perché non ci sono soldi per portarlo da un medico. Il piccolo Joseph che, circondato di medici, muore lo stesso. Il padre di Gilbert che per salvare suo figlio deve vendere una mucca. Il padre di Joseph che per pagare i funerali di suo figlio deve vendere l’argenteria.
 
Ancora la bandiera sul selciato:
“Fuoco!”
Jeanne Valois che è disposta a tutto pur di vivere i privilegi della nobiltà e poi non ha altra scelta che morire e trascinare nella morte l’uomo che ama. Rosalie che ancora bambina batte un marciapiede. Charlotte che ancora bambina viene promessa a un duca depravato. Diane che si uccide perché è troppo povera per essere amata. Maria Antonietta che a quindici anni deve entrare nel letto di un principe goffo. Oscar François de Jarjayes che è una bambina ma non può essere una bambina.
 
Ancora la bandiera giù, contro la terra e le pietre:
“Fuoco!”
Marcel che le racconta una storia sconcia e la fa ridere. Marcel che la provoca nella piazza d’armi e la fa arrabbiare. Marcel che non saluta suo padre. Marcel che nasconde una ferita nel cuore. Marcel che è mancino. Marcel che li porta da Crochet e da Iatroux. Marcel di spalle, la faccia rivolta al muro. Marcel che ride con i suoi denti grandi e bianchi e i capelli biondi che si sollevano al vento. Marcel che ha un tatuaggio sul costato e una ferita nel petto. Marcel che non riderà più. Marcel morto.
 
Ancora, la bandiera:
“Fuoco!”
L’amore. L’amore di una regina che non ama il suo re. L’amore che non bisogna provare. L’amore che trascina in una guerra al di là dell’oceano. L’amore di due ragazzi divisi dall’oceano. L’amore che ti fa a pezzi. L’amore che rimane. L’amore contro lo spazio e contro il tempo. L’amore che fa perdere la vista. L’amore che fa perdere la ragione. L’amore che silenzioso aspetta. L’amore che nemmeno sapevi di provare. L’amore per un servo, l’amore di un servo. L’amore di un uomo, l’amore di una donna.
 
Basta, non c’era più bisogno di sparare.
 
Il 14 luglio 1789 Oscar e André videro, davanti ai loro occhi, l’impensabile. Un’ora dopo il loro arrivo in quella piazza, il ponte si abbassava. La Bastiglia si arrendeva. Le teste di de Launay e delle guardie della Bastiglia furono staccate dai corpi e infilzate su pali e picche. La gente le portava per la città in una euforia che pareva parente prossima della ferocia.
 
Bandiere a tre colori sventolavano ovunque, grida di trionfo e canti che parlavano di un giorno di gloria si levavano in ogni strada.
Ma quale giorno di gloria? Quale?, pensò lei sgomenta, solo un incosciente può definire questi giorni “giorni di gloria”! che idiozia! Giorni di lotta, di sacrosanta lotta, sì. Ma dove sarebbe la gloria? La gloria non innalza teste sulle picche, la gloria non spara e non distrugge, non fa violenza, non uccide, la gloria non vuole vendetta, la gloria non si accanisce sui vinti, la gloria non pretende altra violenza domani, la gloria non imbratta le strade di sangue, la gloria non strazia il cuore di chi ha visto morire i propri cari, la gloria non sorride sulla bara di Marcel.
La gloria è solo nella purezza, pensò lei.
E all’improvviso, mentre lo pensava, mentre si alzava una folata di vento che le smosse la camicia sul petto e sulle braccia, si vide galoppare su César, in riva al mare, e sentì sulla sua schiena appoggiarsi il petto di André e vide loro due nella purezza del mattino, le mani intrecciate sulle briglie sciolte, le camicie bianche che si confondono nel chiarore, le cosce che, vicine, stringono i fianchi del cavallo, i capelli che si mescolano nel vento, la pelle che si cerca, le labbra di André a un soffio dalle sue.
 
Poi, di fronte ai cadaveri che venivano trasportati a braccia, di fronte alle rovine della città bombardata e sfregiata, quell’immagine venne inghiottita dal buio.
 
***
 
Ritornarono a Saint-Eustache con i passi stanchi, gli occhi pieni di orrore, le orecchie che ronzavano per gli spari e le grida, il cuore spezzato dal dolore.
Nell’arrivare all’androne si sforzarono di non guardare le cassette di gerani di Monsieur Dunant, di non pensare alla mensola con la collezione di campanelli e di non immaginare il sorriso di Lucille dietro i vetri, e imboccarono le scale verso il primo piano.
“Ma…!”, esclamò Marie con dolore fissando i gradini.
“Che succede, nonna?”
“Sono entrati! Sono entrati in casa!” disse lei tra le lacrime e la rabbia indicando per terra le impronte di scarpe sulla pietra dei gradini e avviandosi decisa verso la porta dell’appartamento.
La trovarono spalancata, il segno di un’ascia al centro di uno dei due battenti.
Dentro era la devastazione di ogni cosa amata, lo scempio insensato – perché strappare le tende? perché rovesciare a terra piatti e bicchieri? perché incidere oscenità sul piano del tavolo? -, la presenza non voluta che si svela nelle impronte fangose sul pavimento, nelle impronte grigie delle mani vicino agli stipiti delle porte, nelle impronte concave lasciate sul copriletto.
Lei rabbrividì.
Si accucciò nel salotto vicino al tavolino rovesciato a terra e aprì il cassettino, cercò nel doppiofondo:
“Non c’è più niente, André. Hanno preso tutto”, non riusciva nemmeno a piangere.
Lui sollevò l’asse di legno sulla soglia ed estrasse i risparmi che aveva nascosto lì.
“Abbiamo ancora qualcosa, guarda”.
Poi andò in camera da letto e quando tornò le sorrise:
“Ho trovato i miei quaderni, vedi?”, allungò la mano sul pavimento e sollevò il lembo del tappeto del salotto, “e c’è anche questo”. Le mostrò la loro copia, un po’ gualcita ma ancora intera, de I dolori del giovane Werther, quella con la bruciatura sull’angolo della quarta di copertina.
Le sorrise ancora.
Ma lei stava in equilibrio senza appoggiarsi a nulla, sentendosi estranea in casa sua, cercando di recuperare i suoi spazi, gli spazi suoi e di André. E sentì che non ci riusciva.
“È solo una casa, Oscar”, lui appoggiò il libro e i quaderni per terra, si avvicinò e la cinse con le braccia.
“È la nostra casa, André! Lo sai che cosa significa!”, gli batté i pugni sul petto con furore.
Uscì di corsa coprendosi il volto con le mani. Ma lui la seguì, scese le scale dietro di lei e, sotto l’arco dell’androne, l’afferrò per il polso e la tirò contro di sé:
“Certo che lo so! Ma è solo una casa: mura, mobili, oggetti. Siamo noi due a rendere questa casa o qualunque casa diversa da quella che era, Oscar. Siamo noi due. E noi due siamo ancora vivi, capisci?”, la teneva e le parlava tra i capelli, sull’orecchio, sulla tempia. Con dolore, ma con fermezza.
“Che cosa stai dicendo?”
“Sto dicendo che non me ne farei niente di questa casa senza di te. Che possiamo averne un’altra di casa. Ovunque vogliamo. Che io e te siamo vivi, vivi! Ascoltami: vuoi vivere a Parigi? Vuoi vivere in mezzo a tutto questo?”, la guardò in fondo agli occhi.
“No. Non voglio. Non voglio questa devastazione. Voglio solo noi, André”, le labbra sul collo, il cuore che pare uscire dal petto.
“Alain andrà nel paese dove ha sepolto sua mamma e sua sorella, in Normandia. Potremmo vivere anche noi laggiù, non pensi? E porteremo con noi la nonna. Abbiamo sempre amato la Normandia. Guarda, qualche giorno fa ho chiesto un favore a Bernard. Mi ha procurato questi”, estrasse dalla tasca dei fogli piegati.
“Che cosa sono… documenti? Monsieur André VertèreMademoiselle Françoise Lotte…”
“Me li sono fatti preparare da Monsieur Dunant, Bernard li ha fatti vidimare tramite un suo amico, vedi il bollo? Possiamo andare via, nessuno ci verrà a cercare. Bernard metterà in giro la voce che André Grandier e Oscar François de Jarjayes sono morti oggi combattendo alla Bastiglia da rivoltosi e che i nostri corpi sono stati sepolti per nostro volere nelle fosse comuni o che sono dispersi, deciderà lui. Basta che tu acconsenta. Ma se tu vuoi stare qui, se pensi che…”
“Andiamo via, André. Promettimi che alla prima piccola chiesa di campagna mi sposerai con una semplice cerimonia. Poi io e te vivremo in Normandia. Solo io e te. Cielo, terra e mare. E vento”.

 


 
EPILOGO
 
15 luglio 1789
 
E c’era una reggia – tutta d’oro, marmi, stucchi e specchi – dove i sovrani vivevano l’indomani di un giorno orribile che un giorno avrebbero ricordato come ancora felice.
E c’era una città dove cittadini festeggiavano nelle piazze per la libertà conquistata senza sapere che di lì a poco in quelle stesse piazze avrebbero festeggiato per delle teste mozzate dalla ghigliottina.
 
E c’era una panchina a La Charité dove una ragazza aspettava un ragazzo biondo.
E c’era una pelleria lungo la Senna dove un padre piangeva tenendo una parrucca e un rosario tra le mani.
 
 
Ma c’è un’isola lontana - il suo nome, dicono alcuni, è Martinica -, dove gli innamorati si ritrovano e ridono mentre le loro labbra si baciano.
 
FINE
 
Tu sei stanca,
(Credo)
Dell’eterno puzzle di vivere e agire;
Anch’io.

Vieni con me, allora,
E andiamocene molto lontano —
(Io e te soli, capito!)

Hai giocato,
(Credo)
E hai rotto i tuoi giocattoli più cari,
E ora sei un po’ stanca;
Stanca di cose che si rompono —
Solo stanca.
Anch’io.

Ma vengo con un sogno negli occhi stasera,
E busso con una rosa alla porta del tuo cuore disperato —
Aprimi!
Ti mostrerò luoghi che Nessuno conosce
E, se vuoi,
I posti perfetti per dormire.

Ah, vieni con me!
Soffierò quella bolla meravigliosa, la luna,
Che galleggia sempre e un giorno
Ti canterò la canzone giacinto
Delle stelle probabili;
Mi avventurerò per le tranquille steppe del sogno,
Fino a trovare l’Unico Fiore,
che serba (credo) il tuo piccolo fiore
Quando la luna sorge dal mare.

e.e. cummings
 
 
 
Jours de Gloire finisce qui.
Questo piccolo, anzi, microscopico, spazio è per i saluti e i ringraziamenti a tutti voi che avete voluto bene a questa storia. L’autrice si defila e si nasconde a bere un bicchiere di bollicine all’ora del tramonto, perché quello che conta nella scrittura è sempre e solo la storia. E se questi Jours de gloire sono riusciti a emozionarvi o a parlare al vostro cuore, credetemi, questo è il dono più bello per chi scrive.
Vi abbraccio e vi ringrazio con tutto il cuore per l’affetto che mi avete dato.
Settembre17
   
 
Leggi le 17 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<  
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Lady Oscar / Vai alla pagina dell'autore: settembre17