Capitolo 61
Sogno ad occhi aperti
“Amo ciò che non ho. Tu sei così distante.
La mia noia combatte con i lenti crepuscoli.
Ma la notte giunge e incomincia a cantarmi.
La luna fa girare la sua pellicola di sogno.
Le stelle più grandi mi guardano con i tuoi occhi.
E poiché io ti amo, i pini nel vento
vogliono cantare il tuo nome con le loro foglie di
filo metallico.”
Pablo Neruda, Qui ti amo
Immagine dal film “L’amore oltre la guerra”
Unisono
al brusio della gente immersa in un’atmosfera attonita di calici sospesi a
mezz’aria, di Else riusciva a udire il battito accelerato del cuore e gli
pareva di vederne il petto ansante di rabbia.
Il
tempo s’era fermato e, in quegli attimi dilatati e ovattati, taceva nella mente
il pensiero, mentre l’animo si empiva di tormento.
Di
coloro che aveva innanzi, eleganti maschere in abiti lunghi e smoking che
nascondevano, neanche tanto velatamente, divise macchiate del sangue innocente,
non temeva il giudizio e da essi si estraniò definitivamente, quasi sentendone
lo strappo, ripudiando in toto il suo passato, suo padre, sua madre, dei quali
aveva finanche dimenticato la presenza nella sala.
Piuttosto
si tormentava domandandosi come Sarah lo avesse giudicato in quella situazione
ch’egli valutò essere di tradimento.
“Sei
solo un vigliacco, traditore della patria, amico degli ebrei”, continuò a
inveire Else, ridestandolo già alla prima battuta.
Con
il sottofondo delle sue parole urlate invano a ripetizione, impotenti di
scalfirlo, Hermann riprese a scendere le scale a muso duro, come a sfidare,
ignorandoli, gli sguardi e le labbra socchiuse ai bisbigli della gente senza
più volto riconoscibile, mentre pensava a quanto avesse bisogno di Sarah per
essere un uomo migliore.
Giù
dalla scalinata, con il suo incedere disinvolto, si fece spazio tra l’incredulità
della gente, da taluni ostentata, finché qualcuno non lo afferrò per il bavero
della giacca, tirandolo a sé e, incrociandone gli occhi ch’erano uguali ai suoi,
nei lineamenti deformati dalla rabbia, riconobbe il volto di suo padre.
Un
luccichio di sbigottimento balenò nei suoi occhi, mentr’egli,
strattonandolo, gli chiedeva a denti stretti: “Ma cosa diavolo hai combinato?”
Immaginava,
infatti, considerata l’evidenza, che, con Else, suo figlio fosse andato ben
oltre un semplice diverbio ideologico.
Cristalli
impenetrabili, i suoi occhi lo guardarono con un’espressione indecifrabile, un
misto di rassegnazione e stupore, come se fosse stato colto da una rivelazione
e, deviando subito dopo lo sguardo nel vuoto, con voce inespressiva, gli disse:
“è ora che io me ne vada.”
Via
da lì, da Berlino, da se stesso. Lo capì anche suo
padre che s’arrese, rassegnandosi a tale volontà.
I
pugni chiusi a stringergli la giacca lentamente s’aprirono per lasciarlo andar
via e i loro occhi s’incrociarono un’ultima volta, quella definitiva. Lo
avrebbe poi rivisto esanime, rimpatriato grazie alla compassionevole empatia di
chi, come lui, padre era stato.
Napoli,
7 maggio 1947
Aveva
pianto Davide nel pronunciare il voto nuziale, commosso, forse, più che durante
la celebrazione delle sue prime nozze, senza remore né adolescenziale paura dei
giudizi altrui, con la gratitudine di chi, sopravvissuto, guardava agli eventi
della vita come un dono, consapevole della reale portata del sacramento del
matrimonio in virtù dell’età della maturità raggiunta e della conversione al
cristianesimo ora veramente avvenuta.
I
suoi occhi ancora rilucevano, mentre a tavola conversava col suo consueto modo
pacato con uno dei figli del signor Gennaro al quale aveva fatto seguito tutta
la famiglia, nuore e nipoti annessi. Del più piccino fermò il giocoso
andirivieni, afferrandolo scherzosamente e facendogli il solletico, prima di
rivolgere l’attenzione alla sua sposa che per l’intimo banchetto aveva scelto
di svestire l’abito bianco per indossare un più serioso tailleur color avana
chiaro con grossi bottoni e tasche e corredato di cappello Borsalino in stile Ilsa Lund di Casablanca.
Ed
essi s’esibirono in un tu per tu di vicendevoli sguardi e parole sussurrate che
scavò in Sarah un vuoto più grande. Nella sua solitudine si rinchiuse,
incrociando le braccia sul petto e così stringendosi nel vestito a fiori giallo
che, rievocante l’esultanza della primavera, nascondeva l’inverno del suo
cuore. Matteo non era lì e lei, tra tutte quelle coppie riunite attorno al
tavolo, era l’unica non accompagnata.
Sulla
sua assenza aveva mentito giustificandola per motivi di lavoro, ma Sarah non
era brava a dire bugie e la tradì il sorriso di tenera commiserazione verso di
sé che vide riflesso sul volto degli altri e ne provò umiliazione.
Non
le aveva impedito di partecipare alle nozze Matteo, eppure era riuscito, in un
certo qual modo, ad allontanarla dagli amici, giacché, a causa delle sue
manchevolezze, s’intensificava verso di loro il latente, raggelante sentimento
d’invidia.
Quanto
più si allontanava dagli affetti della sua vita presente, tanto più si
riavvicinava al ricordo di Hermann, romanticizzando il passato.
Fu
in quel momento, dinanzi al romantico e sensuale parlarsi bocca a bocca degli
sposi, circondata, quasi soffocata dall’affiatamento delle altre coppie, sul
sottofondo dei gridolini festosi dei bambini e del rumore dei loro celeri
piedini, che, chiedendosi come si fosse comportato in tale circostanza, iniziò
a immaginarlo al suo fianco.
Figlio
della moderna Berlino, non si sarebbe scandalizzato per quella unione e,
partecipando con lei al ricevimento nuziale, da uomo acculturato qual era,
avrebbe saputo sostenere una conversazione con Davide e il figlio del signor
Gennaro avvocato.
Affidando
all’immaginazione la volontà di sopravvivere al senso di solitudine e
abbandono, egli divenne così reale tanto da percepirlo seduto accanto a sé,
dapprima sentendone il profumo dalle inconfondibili note di ambra e muschio,
poi guardandolo di sottecchi in abiti civili, ovvero con indosso uno smoking
chiaro, nel gesto di accendersi una sigaretta.
Fece
per versarle il vino nel bicchiere, ma Sarah dissentì, sollevando una mano.
“No, grazie. Lo sai benissimo che sono astemia”, gli disse e udì la propria
voce ovattata.
Nube
sfocata di sogno ad occhi aperti essa svanì al
tocco gentile di una mano sulla spalla e si ritrovò innanzi il volto
preoccupato di una delle nuore del signor Gennaro che, con un’intonazione di stupore,
le chiedeva: “Tutto bene, Sarah?”
D’imbarazzo
ella impallidì e, pronunciando un flebile, inattendibile «sì», distolse lo
sguardo nel vuoto, il cuore verso i ricordi.
Da
allora, fece di Hermann il pensiero che le strappava un sorriso nella monotonia
dei giorni e, da languido sussurro, il suo nome divenne grido nelle notti di
sonno inquieto.
“Ma sono vivo
e sono qui
e vengo dentro a prenderti.
Da solo disarmato, innamorato,
tu devi arrenderti.
Ci sono io e sono qui
con la pazzia di stringerti.
Mi hai perquisito gli occhi
e sai sono pulito,
non posso ucciderti mai più.”
Claudio Baglioni, Io sono qui