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Autore: time_wings    30/04/2023    0 recensioni
[AtsuHina]
In una città schiacciata dal silenzio e dal suo grigio, basta una sola nota per accendere un colore. Casualità e forza di volontà si scontrano e forse, se si presta attenzione, si riescono a udire le crepe nel muro.
Una storia in cui, alla fine, il silenzio conta tanto quanto la musica.
Nel mezzo si incontrano frigoriferi quasi-parlanti, errori di numerazione, consegne noiosissime, fotografie, cactus, muraglie cinesi, saggi in incognito, soglie da spazzare e spuma di mare.
Hinata suona il violino e Atsumu fotografa solo quello che gli piace.
Genere: Commedia, Introspettivo, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Atsumu Miya, Osamu Miya, Shouyou Hinata, Yachi Hitoka
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Fase 5 - accettazione


Diffidate da chi dice che marzo è un po’ pazzo, il vero matto sarà sempre aprile.
Era aprile, quindi, qualche giorno dopo la sua metà e Shouyou si svegliò a un orario improponibile tipo le nove del mattino (per la maggior parte di voi sarà proponibile, ma il bioritmo di Shouyou prendeva ispirazione da quello dei galli). Si alzò a sedere nel letto e, un attimo prima di andare a sbattere per la milionesima volta con la testa contro il soffitto, si tirò giù come un ninja. Alzò le mani di riflesso, come se fosse stato pronto a combatterlo. Il muro, sì.
Poi prese coscienza del mondo che lo circondava, sgusciò via dal futon e scese dal soppalco.
Insomma, quella mattina pioveva, contrariamente al sole spaccapietre dei giorni precedenti. La pioggia faceva un baccano allucinante, tanto che gli altoparlanti non erano riusciti a svegliarlo.
L’atmosfera era un po’ deprimente, se proprio volete conoscere l’opinione di Hinata, però lui si era svegliato con una nuova consapevolezza.
Il fatto che si fosse verificata una cosa del genere – la venuta di una consapevolezza – era in sé un fatto straordinario. Perché, nel caso in cui non vi fosse chiaro, Shouyou le cose le faceva così.
Incappava nel funerale di uno con cui aveva fatto sesso e restava, così. Vedeva l’immagine di un violino da un fisioterapista e ne faceva la sua nuova ragione di vita, così. Un pazzo per strada gli diceva di comprare una pianta e lui lo ascoltava perché l’aveva preso per sacerdote del tempio della saggezza, così. Non che questo facesse di lui un cattivo osservatore, tutto il contrario.
Semplicemente osservava, notava, comprendeva e poi eh, vabbè, e sia.
Capirete che dormire sopra alle cose era uno spreco di tempo, per lui, però quella volta l’aveva fatto.
In pigiama, le palpebre che si incollavano ancora tra loro ogni volta che le batteva, Shouyou recuperò il violino dalla custodia, si avvicinò al muro destro del suo appartamento e, per qualche ragione che resterà sconosciuta a tutti, suonò un tango.
A dire il vero suonò solo le prime note di un tango, poi tirò l’archetto verso il basso, velocissimo, e attese in silenzio che il muro rispondesse.
Tara-ra-ra-raaaa.
Nel caso in cui non fosse ovvio per tutti, era La Cumparsita, nota ai più come taratta-ta-tà tara-ra-ra-raaaa
Hinata sorrise e forse il responsabile dell’umore ballerino di aprile era lui, perché tornò il sole.

***
 
Il frigorifero era un po’ sciocco e Atsumu avrebbe ucciso per una birra. Ah, comunque sciocco era un modo stupido per dire che era vuoto e avrebbe ucciso non era un’iperbole.
Voi non lo sapete, ma Atsumu ci teneva a fare il tipo romantico. Non che gli servisse (non gli serviva, ovviamente non gli serviva neanche un po’, ma neanche per idea), però tanto per sicurezza essere romantici non guastava mai. Diceva il saggio: ‘non è vero ma ci credo’.
Pensò di regalare a Shouyou un fiore.
In mancanza di altri fiori, pensò che fosse un bene prelevare quello in cima al cactus, quindi gli chiese scusa mentalmente, si avvicinò alla mensola che ospitava la pianta e mise le mani nel cactus per staccare il fiore.
Voi potreste tranquillamente essere la versione più stupida di essere umano mai concepita da Madre Natura, ma state pur certi che ci sarà sempre qualcuno migliore di voi. In questo caso, anche più stupido. Quel qualcuno era Atsumu Miya.
“Porca puttana!” gridò al silenzio ovattato di una gabbia d’appartamento. La tecnica di protezione più antica del mondo sono le spine delle piante e si dà il caso che il cactus sia anche la sua versione meno discreta. Nessuno, proprio nessuno, si metterebbe mai in testa di derubare i cactus dei loro fiori. Come prevedibile, Atsumu non ottenne quello che voleva.
Al contrario, spostò le mani veloce dagli aghi e trascinò il vaso con sé. Questo fece un volo di due metri e si spaccò tra la scrivania e la sedia. Il cactus si smembrò in tre grandi pezzi e, udite udite, Atsumu ottenne il suo fiore.
Guardò l’intruglio di ceramica, terriccio e cactus sul suo pavimento e realizzò che, tra mura dipinte e cadaveri di cactus, non doveva essere l’inquilino migliore della storia. Raccolse la carcassa stando attento a non pungersi e ripose il cactus in un barattolo, ricomponendolo con lo scotch.
Ricomponendolo con lo scotch.
Lo scotch.
Senza un pensiero al mondo, Atsumu si diresse in bagno e si diede un’ultima occhiata prima di lasciare casa. Poi si trovò davanti alla porta anonima del fu violinista misterioso.
Respirò il silenzio pre-bomba a cui era tanto abituato e forse qualcosa, da qualche parte, fischiò. Era un trucco delle orecchie, una menzogna, una forma di illusione, però aveva un significato diverso.
Non era grigia, non era sorda, era anticipazione. Era il fiato sospeso che precedeva un concerto.
Non era oppressione, era possibilità.
E, per quanto a volte sembri un nemico, non c’è alleato più permissivo del silenzio, per accompagnare una sinfonia. Non c’è altro modo di udire, se tutt’attorno non v’è vuoto.
Alzò un pugno chiuso, le nocche pateticamente bianche. Iniziò a contare i suoi confortanti dieci secondi.
Invece Shouyou spalancò la porta proprio davanti al suo naso.
“Perché diavolo aprite tutti al nono secondo?” disse lui, forse parlò al cielo.
Hinata inclinò il viso su un lato. “Eh?”
“Niente, ho…” Atsumu scosse la testa. “Che coincidenza, eh?"
Si era dimenticato il fiore di cactus.

 
No, in realtà Shouyou era rimasto con l’orecchio appiccicato alla porta d’ingresso con aria da 007, di modo da non poter fare né troppo presto né troppo tardi.
Il vicino dal dubbio ruolo pallavolistico abbassò lo sguardo sulle sue mani piene. Shouyou si sentì in dovere di dare spiegazioni… e di cogliere le occasioni al volo. “Io ho da mangiare!” dichiarò. Così, senza aggiungere altro.
“Lo vedo.”
Incapace di fornire una risposta più eloquente, Shouyou sollevò la scatola di cartone con i manici che reggeva. “No, intendo che… magari questa volta invertiamo i ruoli. Ti offro da mangiare io!” Avete visto che piano? Che incredibile struttura ingegneristica? Mica pizza e fichi. “È l’occasione che aspettavi di indossare gli occhiali.”
Il ragazzo annuì. “Prova a dirmi che non hanno funzionato.”
Hinata ridacchiò e, con la coda dell’occhio, lo vide arricciare il naso sotto la mascherina. “Senti, posso sapere come ti chiami?”
Capite, gli mancava proprio un pezzo.
“Atsumu Miya” e sembrava un biglietto da visita.
Hinata aveva creduto che, parlandoci, ogni dubbio si sarebbe sciolto, invece la sua testa continuava a saltare da schiacciatore laterale ad alzatore senza che riuscisse a isolare il momento dello scambio. Più si concentrava, più gli pareva di perderlo. “Va bene, Atsumu Miya,” Shouyou imitò il suo tono solenne.
“Non chiamarmi co…”
“Allora ci stai? Mangi con me?”
Atsumu annuì una volta, molto lentamente, poi altre quattro, cinque di fila. Come la prima volta che l’aveva visto, Hinata pensò che fosse troooppo carino e che aveva voglia di stracciarlo, a qualunque gioco stesse giocando.
Atsumu si levò gli occhiali e lo considerò pensieroso. “Oh, allora se tu porti da mangiare io vado a prendere il mio violino.”
“Hai un violino?” Shouyou sgranò gli occhi come se la possibilità fosse stata semplicemente succulenta. “Posso insegnarti!”
Ora, contro ogni regola del buon cantastorie, dobbiamo effettuare un salto di cervello, perché il livello è semplicemente troppo basso per non essere riconosciuto. Atsumu era pronto a sfotterlo, davvero, aveva proprio la battuta in canna. Mira e spara. Ma non fece fuoco proprio per niente, perché, a essere sinceri e cristallini, il coronavirus era l’alleato numero uno delle seghe e premiava ogni settimana la fantasia erotica più creativa. Quindi Atsumu pensò alle dita di Shouyou che guidavano le sue sulla tastiera, un’impugnatura condivisa dell’archetto, i ciuffi color carota che si mischiavano ai suoi, mentre gli mostrava come poggiare il viso sul mentoniere. Dunque soffocò sulla sua battuta, perché gli era appena venuta una voglia matta di strofinare la guancia contro quella di Shouyou e scoprire quant’era soffice. Se i suoi occhi avevano un’iride, la lasciarono impigliata alla porta di casa.
“No, non ho un violino, ma puoi insegnarmi.” Atsumu gli fece l’occhiolino e mai in vita sua gli era parso di fare un occhiolino che sembrasse tanto una paresi. In sua difesa, era un occhiolino normalissimo.
Shouyou reagì separando appena le labbra, come preso in contropiede.
Ecco qua, pensò Atsumu, specchiandosi nella sua perplessità, hai fatto la cazzata. Ora ti prende per maniaco.
Invece l’attimo di stallo passò e Shouyou liberò una risata a metà tra l’imbarazzo e la spavalderia. Atsumu pregò ogni divinità mai concepita nella storia, perché se la sua faccia si accordava al suo stato d’animo doveva essere uno spettacolo patetico, dopo quel suono venuto direttamente dal paradiso.
“Allora ti insegno!” Atsumu annuì. “Credo si possa partire da un fiiiii, poi vediamo se hai orecchio. Hai orecchio?”
Atsumu, nel corso di questa storia, è stato più volte bistrattato, ma c’è da dargli qualche merito. Non capiva niente di musica, a stento sapeva cosa volesse dire avere orecchio, ma a uno che barava così bene non serviva avere orecchio, bastava costruire una fotografia, bastava leggere una tavolozza. “Sì, ho orecchio eccome, un sacco” rispose, serio in viso e vagamente arrogante. “Anche più di uno. Ne ho ben due, tu?”
Shouyou arricciò il naso, Atsumu avrebbe voluto mangiarlo. Poi Hinata rise e Atsumu ne registrò ancora una volta la gradazione e sperò che suonare gli permettesse di riprodurla. “Allora ci vediamo…” Shouyou guardò in alto, come se avesse potuto contare il tempo studiando l’ombra del sole che non vedeva. “Tra venti minuti, prendo un dolce,” decretò. La testa di Atsumu vagava un po’ nella melma, in quel momento, eppure riuscì a riconoscere che era un orario tirato fuori a caso da un cappello metaforico. “Porta entrambe le orecchie… e non solo!” Poi sparì nel suo appartamento.
Atsumu rimase a fissare il 7 inciso sulla targhetta della porta, inforcò nuovamente gli occhiali da sole – a quanto pare questo sole sul pianerottolo lo vedevano solo loro – e aggrottò le sopracciglia.
Preparatevi, perché state per assistere al tracollo di una colonia di neuroni e questa riflessione illuminante potrebbe mettere in pericolo anche i vostri.
E non solo, aveva detto Shouyou. Atsumu rimase lì confuso a chiedersi se gli stesse suggerendo di portare anche il suo cazzo o anche la sua testa. Sperò fosse il cazzo, in tutta onestà, perché per la testa non c’era molto da fare. In ogni caso Shouyou si era rivelato un vero paraculo, perché o l’aveva battuto al gioco dei doppi sensi – nessuno, nessuno, sfidava Atsumu Miya su quel campo – o l’aveva appena insultato sul suo intelletto.
Comunque sospirò, diede un’occhiata agli appartamenti di fronte, attraverso il filtro stupido dei suoi occhiali, e poi tornò in casa anche lui, lambiccandosi il cervello svuotato, perché, come dire?, se Shouyou avesse portato cibo e musica e lui orecchie e cazzo la situazione non sarebbe stata del tutto equilibrata.

 
***
 
Nel posto in cui non era né spuma di mare né anima effervescente, nel ricciolo dell’onda più bassa di tutte, quella che non sembrava star capitolando, Atsumu si acquietò. Contro ogni insegnamento che lasciava intendere che le vie di mezzo erano chiamate tali perché erano transitorie, lui ci vide invece un compromesso. Nel disaccordo universale tra quello che Atsumu era fuori la porta di casa e quello che diventava quando si sfilava il cappotto, Shouyou offrì una risoluzione.
Questo è un modo molto elaborato di dire che erano andati a consumare il pasto di Hinata sul tetto del condominio, perché, cotte e musiche a parte, questa è una storia troppo poco importante per esonerare i suoi personaggi dalle restrizioni del virus.
L’antipatia delle settimane precedenti era dissipata in favore di un incastro intramontabile, infatti Shouyou sembrava studiarlo a un livello tale da rasentare la radiografia e Atsumu, a dispetto di quanto detto finora in questo ingiustificabilmente lungo trattato sui perché e i percome della sua personalità, amava essere guardato. Categoricamente a livello superficiale.
“E lavori per lui?” gli domandò Hinata, sull’onda di un morso enorme alla sua fetta di cena.
Atsumu abbassò prima gli occhi sul suo contenitore. Erano separati perché da qualche mese a quella parte lo era tutto: le cene, le case, le persone. Poi lasciò scorrere lo sguardo sul tramonto. Tinte infuocate si miscelavano ai toni indaco e tenui delle sere di primavera, in una sinfonia che pareva indecisa tra tenori e fischi. Tutta Tokyo non si poteva vedere, perché non erano abbastanza in alto per una città così grande e non erano abbastanza in centro per i ciliegi in fiore, ma le cime smunte e scolorite dei palazzi si intercalavano ad alberi dalle foglie verde brillante e forse andava bene così, forse suggeriva una promessa. Atsumu guardò Shouyou e scrollò le spalle. “Gli faccio un piacere.”
Lui gli rivolse un’occhiata come a dire, sì, certo, un piacere. Era una supposizione corretta, ma guai a dirlo ad Atsumu.
“Tu?”
Shouyou lo guardò un attimo di troppo, gli occhi di nuovo fuori fase come se avesse avuto il cervello spezzato in due: una parte concentrata sulla loro conversazione, l’altra chissà. “Io? Lavoravo part-time in un negozio di musica, prima che…” mosse vagamente la mano a sottintendere l’arrivo della pandemia. Sembrava che stesse dando la colpa alle vaschette con la cena, però.
“E la musica?”
“Studio!”
Atsumu si cacciò del riso in bocca e annuì mentre deglutiva. “Anche tanto.”
Shouyou inarcò un sopracciglio, come se avesse sentito un brutto odore. Stava per ribattere, forse chiedendogli con irritazione se gli desse fastidio, ma Atsumu lo anticipò.
“È affascinante.”
Lui sembrò rilassarsi. Gli sorrise, poi lasciò vagare lo sguardo ancora su quella fettina di città che il buio non aveva ancora mangiato. Atsumu lo guardò. In sé, l’azione era banale. Come i raggi di sole che volevano baciarlo all’inizio di una storia, come la gradualità dei suoi cambiamenti, come i comodini che non montava, come la fame dei felici. Ma non come il suo frigo, perché non era uno sguardo vuoto.
“Non l’hai portato?”
“Cosa?” Shouyou si voltò e la luce calante gli bagnò il viso come se vi si stesse aggrappando mentre scivolava nell’oscurità. Il mondo dipendeva da quegli istanti e da quanto saldamente fossero sospesi.
“Il violino, mi hai chiesto se ho orecchio.”
Shouyou sgranò gli occhi e lasciò cadere le spalle. “Me ne sono dimenticato.” Il prezzo del dolce.
Atsumu però conosceva gli spartiti dei colori e, nei giorni migliori, li sapeva anche leggere. Scosse la testa e gli sorrise. Contrariamente all’opinione che avete di lui, alla fine non aveva portato orecchie e cazzo, sul tetto del palazzo. Aveva portato la macchina fotografica. E forse anche il cazzo, ma quello perché non poteva staccarselo. “Posso scattarti una foto? È per un progetto.”
Il gamberetto lo fissò, immobile come un cervo in mezzo a una strada, poi annuì molto lentamente e ad Atsumu venne voglia di sussurrare una postilla.
“Prima che il tramonto finisca.”
Si avvicinò a lui, la spuma si attenuò. Non aveva senso che si attenuasse, perché la spuma era uno spettacolo tutto per gli altri e Atsumu voleva impressionare Shouyou. Anche se quando l’aveva visto l’aveva preso per un mandarino. Anche se quando il violinista misterioso era arrivato aveva deciso che gli avrebbe reso la vita un inferno. Anche se aveva insultato i suoi occhiali da sole (non stavolta, fino a quel momento). Forse solo perché mandarino e violinista erano la stessa cosa almeno quanto lo erano un colore e una nota. E questo perché erano onde: i suoni come i colori come le spume di mare.
“Posso?” gli domandò, una mano sospesa sopra la sua testa, con l’intenzione di mettergli in ordine i capelli. Era una scusa, l’asso nella manica dei fotografi veri che volevano rimorchiare.
Shouyou annuì in silenzio e si lasciò toccare.
Di sotto, scie grigie di suoni di risacche arrancavano dietro le loro macchine, ma non erano decise abbastanza da impedire che l’atmosfera si ovattasse, si inumidisse al crescere gentile del buio.
“Che progetto?”
I capelli di Hinata erano soffici, fili sottili di vento. “Mh?”
“Che progetto?” ripeté lui, un sorriso gli strisciò sulle labbra e Atsumu lo intercettò e si allontanò.
“Uno che spaccherà i culi.”
Perché oltre tutta questa pretenziosa accozzaglia di figure retoriche, Atsumu Miya era uno zotico.
Shouyou sorrise. Una cosa enorme e invincibile e al suo fotografo bastò guardarlo fuori fuoco solo per un attimo per capire cosa voleva.
Si allontanò di scatto, sgranò gli occhi perché non riusciva a credere che il mondo che gli aveva sbattuto in faccia il coronavirus fosse lo stesso che ora gli stava regalando quello scatto. Si accovacciò, guardando da un’angolazione che non era né allineata né di profilo al suo soggetto.
“Suona il violino,” gli ordinò e Shouyou lo guardò come se fosse impazzito.
“Eh?”
“La prima nota di YMCA.”
Shouyou posizionò le dita sospese nell’aria, anni di studio che dovevano aiutarlo a rendere quella posizione il più accurata possibile. Atsumu chiuse un occhio e sbirciò attraverso il mirino, le costole chiesero pietà, contò tre secondi e scattò.
Guardò la foto in anteprima, lasciandosi cadere a terra, seduto.
Nella foto, il cielo era di un colore che intanto aveva già perso, la luce angolata si gettava a capofitto su alcuni palazzi sullo sfondo. Shouyou sedeva in penombra, la luce ancora troppo protagonista per renderlo silhouette, quindi si distinguevano alcuni contorni delle pieghe dei vestiti, del naso, dei capelli in tinta col tramonto, delle ciglia. Tra le mani, a imitare un violino, reggeva una nuvola rosa e arancione in prospettiva.
“CHE FORTE!” gridò Shouyou, piegato a dare un’occhiata alle sue spalle. Atsumu non si era accorto che si era mosso. Quando rise, gli venne da arricciare il naso, nello stesso modo in cui un odore faceva partire uno starnuto. La risata di Shouyou aveva i colori incandescenti del tramonto e di tutti i pezzi al violino che avevano mangiato i suoi silenzi. Starete pensando che è impossibile e infatti può darsi che fosse un inganno dell’infatuazione. “Sto suonando una nuvola!”
Atsumu lo guardò da lì, un sorriso storto in parte spavaldo in parte genuino. Nessuno ha detto che le parti fossero divise equamente e al lettore spetterà l’intuizione su quale predominasse. “Qualche secondo fa pensavi fossi pazzo.”
“Perché non avevo visto la nuvola,” si difese lui, alzando le mani. Era simile a quando l’aveva accusato di aver rubato la sua bicicletta rossa sgangherata.
Ad Atsumu, come quella volta, venne voglia di distruggerlo. Quindi si sporse in su e lo baciò. Se fosse stato in piedi si sarebbe detto che fosse in punta di piedi, ma poiché era seduto forse era in punta di culo.
Shouyou si rannicchiò per andargli incontro.
Il mare si bloccò.
Le onde si cristallizzarono in una fotografia, nessun granello di sabbia si piegò alla casualità della sua stessa caduta. Tokyo pulsava in un silenzio al neon spento, come nelle mattine che succedevano le serate più intense. Gli altoparlanti non osarono rammentare a nessuno che c’era una violazione di legge in quel contatto. Ma, se permettete, la legge più grave violata era quella della spuma di mare. Atsumu aveva fame e c’era silenzio e tutto si ridusse a un punto piccolissimo nell’universo sconfinato dei palazzi, dove in ogni finestra si intuiva un frigorifero e ogni frigorifero se la passava diversamente. Quel punto piccolissimo era il punto di contatto dei loro respiri. Gli infilò una mano nei capelli, senza la scusa del fotografo vero, e capì una cosa incredibile.
Il segreto non stava nel montare il comodino, infatti. Non c’era nessun incastro simbolico nel modo in cui tre pezzi di legno si offrivano di reggergli la sveglia. Voi l’avevate capito subito, ma è facile quando una storia ve la impacchettano così, in una serie di scorci tutti utili per forza, prima o poi, a sbrogliare un arcano.
La compatibilità era altro, altrimenti nessuno avrebbe perso tempo a piangere per i trapianti.
Shouyou interruppe quel contatto solo per instaurarne uno più intimo. Poggiò la fronte contro quella di Atsumu e chiuse gli occhi come se respirare il suo respiro fosse stato un atto sacro. Strano, perché sicuro l’alito non gli profumava dopo la cena. “Sei un alzatore, vero?”
Perché non vi dovete dimenticare che assistere alla follia nella testa di Atsumu non annulla quella nella testa di Shouyou.
“Eh?”
Shouyou rise, gli occhi ancora chiusi, le ciglia che gli accarezzavano le guance. Ancora tramonto e pezzi al violino. “Niente,” disse, e lo baciò di nuovo.
Non mangiarono il dolce.


 
・・・

 
 
Inizio.
Svolgimento.
Fine.
Scrivete una storia e sarà facile vedere che il primo è un trattino, il secondo una linea e il terzo un punto. Con la geometria il discorso include le dimensioni. Con la vita è facile solo su larga scala. L’inizio è la nascita, la fine la morte e lo svolgimento tutto ciò che c’è nel mezzo. Su questo convengono più o meno tutti, tranne forse i teologi. Ma su scala minore si incappa in un grattacapo, perché l’inizio è irriconoscibile nel presente ed è opinione di chi racconta una vicenda a posteriori, nonché soggetto a variazioni se la storia va raccontata ‘riassumendo…’ o per intero o a tratti o a interruzioni, se all’improvviso suona un telefono. Lo svolgimento si sovrappone agli svolgimenti di mille altre storie e la fine è sempre incerta. Si passano vite intere a credere di aver chiuso un libro per poi trovarsi con l’indice intrappolato tra le pagine di metà storia.
A chi sa raccontare storie di vita di solito regalano premi.
Quindi forse ora vi verrà più facile capire perché Atsumu fosse stato premiato ed è importante metterlo in chiaro subito perché lui, ad oggi, dice che è perché è impossibile guardarlo in faccia e pensare di non volergli dare il mondo.
Il premio era questo: miglior fotografo emergente del 2022, per una raccolta di fotografie divise in tre gruppi: inizio, svolgimento e fine, dal titolo ‘sinonimi di vuoto’. Secondo le riviste e i critici, era la raccolta che meglio catturava l’isolamento del 2020 in ogni suo stadio. Era una cosa da capogiro, perché non aveva studiato, non usciva da qualche accademia, non sfoggiava sul curriculum il nome di nessuna scuola famosa. Era solo un tizio a caso con un progetto.
Atsumu osservò le cinque foto del gruppo iniziale, alcune le aveva scattate quando non aveva avuto neanche l’idea.
“Complimenti, è impressionante!” gli disse una donna, passando di là. Gli strinse il braccio come se fosse stato l’amichetto di suo figlio. Lui le regalò il suo sorriso più seducente. Non lo faceva apposta, era proprio fatto così.
Il ramo rado con l’acqua che gocciolava sulle foglioline, il fiume Sumida incorniciato dell’acero giapponese, l’uomo buio che portava la spesa nella città delle luci, la parete dipinta, Shouyou che suonava un violino di nuvola.
Sotto, ai piedi di una scritta ‘Fine’, erano esposte altre cinque foto, simili a quelle del primo gruppo, ma non uguali. Perché erano sinonimi. Il ramo era un ciliegio in fiore, le persone fuori fuoco sullo sfondo indossavano abiti sgargianti. Il fiume Sumida era immortalato di notte, su un tappeto di luci di città e la chioma di un albero incorniciava in ombra quelle lucciole. L’uomo che reggeva le buste della spesa era l’unico soggetto al centro di una strada sterrata e secca; aveva scattato la fotografia in Australia, quando il mondo aveva ripreso a soffiare in cielo gli aeroplani. La parete non era dipinta, era quella di una casa diversa ed era tappezzata di fotografie: erano tutte quelle del secondo gruppo, svolgimento, e qualche altra. L’ultima era Shouyou che suonava un violino vero, circondato da un’orchestra.
Hinata gli afferrò una spalla e lo costrinse a inclinarsi di lato, per ricevere un bacio sulle labbra.
Svolgimento era tutto quello che era successo nel mezzo. C’erano fotografie di comodini e di famiglie. Di onigiri, di campi di segale e alte quote. Di Australia e di Kansai. Di bare e di papaveri. Di matrimoni, di supereroi e di serate in compagnia. Di frigoriferi e piantine con e senza fiori. C’era una sezione tutta di colori, componevano uno spartito per sinestetici.
“Congratulazioni!” gli arrivò all’orecchio la scia verde di un commento.
“Hai visto i bagni? Sono super di lusso,” disse Atsumu a Shouyou.
Lui rise. Era tramonto e pezzi al violino, il colore di cui si dipingeva il cielo quando il mare era calmo e non schiumava. “Lusso? A me sembrano normali. Forse un po’ più puliti della media.”
“No, ma hanno un ripiano sul lavandino, ci sono degli oli essenziali.”
“Sì, vabbè, ma…”
“E si chiude a chiave anche la porta dell’anticamera, non solo la cabina col gabinetto.”
Shouyou abbandonò il cipiglio confuso, poi sbuffò e sorrise.
Ormai si spera che abbiate imparato a conoscere Atsumu e la sua inappropriatezza.
“È la tua mostra.” Era una menzogna, Hinata stava già sorridendo come un folletto pestifero. “Sta anche arrivando tuo fratello.”
“Osamu lo sa che faccio tardi.”
Le consapevolezze di Osamu parvero bastare. Atsumu riuscì a trascinare con successo Shouyou nei bagni.
Perché a un certo punto aveva rischiato.
E meno male.
Perché altrimenti si sarebbe cacciato in guai seri, ignaro com’era di quell’anima che si portava attaccata alle spalle così sottile, ma così sottile, che sarebbe stata capace di infilarsi nelle fessure delle tapparelle e lasciarsi andar via, soffiare come l’autunno che moriva e lasciarsi dietro solo la spuma di mare.







 
NotEl: Buonasera, eccoci giunti dopo tutte le peripezie del mondo alla fine di questa storia. Salve :)
Niente, questa storia è stata un esperimento sotto vari aspetti (mi ritrovo a dirlo per la seconda storia di fila, forse sarebbe il caso di smetterla di fare gli scienziati???), credo che lo stile sia quello più lampante. 
È stato strano trovarsi a dover trovare una voce al narratore, ma è stato molto divertente e super soddisfacente prendere tutte le regole del bravo scrittore (quelle proprio che tutti fanno "MAI. MAAAAAAAI. FARE COSA X") e violarle. Se esistono un motivo c'è e non so se le violazioni siano state tutte appropriate come speravo, ma è stato divertente fare il mostriciattolo caotico e dagli errori si impara, ma l'esperienza è sempre tesoro!
Il motivo per cui la storia non era mai stata finita è che le mancava un finale e noi possiamo raccontarci che è perché quando l'ho iniziata il 2022 non era ancora arrivato e non avrei potuto prevedere questo finale....... oppure possiamo anche dirci qualcosa che suoni meno come una giustifica e cioè che boh, l'ho semplicemente sospesa.
In realtà nella parte finale ci sono vari indizi su alcune storie e dinamiche, e infatti so che poteva durare di più ed essere più approfondito, ma sono nella mia era implicita, let me be.
Dunque vi lascio a scovarli e vi ringrazio un sacco per aver letto e, se venite dal 2021, per aver atteso <3 <3
El.

 
   
 
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