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Autore: _Agrifoglio_    01/05/2023    15 recensioni
Una missione segreta, un’imboscata vicino al confine austriaco e il corso degli eventi cambia. Il senso di prostrazione dovuto al fallimento, il dubbio atroce di avere sbagliato tutto, un allontanamento che sembra, ormai, inesorabile, ma è proprio quando si tocca il fondo che nasce, prepotente, il desiderio di risorgere. Un incontro giusto, un’enorme forza di volontà e, quando tutto sembrava perduto, ci si rimette in gioco, con nuove prospettive.
Un’iniziativa poco ponderata della Regina sarà all’origine di sviluppi inaspettati da cui si dipanerà la trama di questa storia ricca di colpi di scena, che vi stupirà in più di un’occasione e vi parlerà di amore, di amicizia, di rapporti genitori-figli, di passaggio alla maturità, di lotta fra concretezza e velleitarismo, fra ragione e sogno e della difficoltà di demarcarne i confini, di avventura, di duelli, di guerra, di epos, di spirito di sacrificio, di fedeltà, di lealtà, di generosità e di senso dell’onore.
Sullo sfondo, una Francia ferita, fra sussulti e speranze.
Davanti a tutti, un’eroica, grande protagonista: la leonessa di Francia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: André Grandier, Nuovo Personaggio, Oscar François de Jarjayes, Quasi tutti
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Napoleone-a-Gr-noble

Μολὼν λαβέ
 
Liguria, marzo 1815
 
Era sbarcato sulla terra ferma il primo giorno di marzo e aveva diretto la marcia verso la sua ex capitale. Il volo dell’aquila era iniziato e, di campanile in campanile, sarebbe continuato fino alle guglie del Duomo di Milano.
Napoleone era rimasto per dieci mesi nell’isola d’Elba, dove gli abitanti lo avevano accolto benissimo e dove si era dedicato a opere di ristrutturazione e di ammodernamento, trasformando, in breve tempo, la piccola comunità nel centro culturale d’Europa.
Fra un progetto edilizio e una festa da ballo, tuttavia, l’idea del ritorno lo aveva più volte sfiorato e si era progressivamente radicata in lui, fino a diventare un piano concreto e ben congegnato.
Si era trovato ben presto a corto di denaro, perché la rendita che gli avevano promesso non gli era stata corrisposta e, come se non bastasse, dal Congresso di Vienna, gli era giunta notizia che gli inglesi e i prussiani avrebbero voluto deportarlo fuori dall’Europa, nelle Isole Azzorre o a Sant’Elena e che qualcuno stava addirittura meditando di assassinarlo. Era venuto a sapere che il Congresso di Vienna non procedeva e che i popoli erano scontenti del ritorno dei vecchi Sovrani nei territori da lui, un tempo, conquistati.
Il terreno era, quindi, propizio per un immediato rientro. Come aveva sempre fatto, si era deciso a giocare di anticipo, prima di finire del tutto i soldi e di vedersi deportato in qualche remoto angolo della Terra. Si era consultato con la madre ed ella aveva convenuto che il figlio non avrebbe potuto concludere i suoi giorni in un riposo indegno di lui.
Come un altro grande condottiero tanti secoli prima, aveva tratto il dado ed era partito.
Marciava per le campagne liguri e i contadini lo acclamavano mentre le autorità civili e religiose gli prestavano giuramento. A tutti si mostrava forte e sicuro di sé, pieno di quel carisma che fa sembrare possibili le imprese irrealizzabili. Gli esseri umani amano la forza e odiano la debolezza e ciò fa sì che non siano i buoni, gli onesti, gli intelligenti o gli istruiti a conquistarsi il favore delle folle, ma soprattutto coloro che sono capaci di infondere sicurezza e che si presentano come quelli che risolvono i problemi e non li creano.
Un giorno, avvenne l’inevitabile.
Un reggimento marciò verso i soldati guidati dall’aquila imperiale, con l’intento di catturare il criminale evaso e di consegnarlo alla giustizia. Lo videro muoversi in lontananza, fra luccichii di lame e nuvole di polvere e se lo trovarono, in meno di un’ora, faccia a faccia.
Molti fra i soldati di quel reggimento, quasi tutti, provenivano dalle fila del vecchio esercito napoleonico. Vari ex compagni d’arme si riconobbero, soltanto che, ora, non combattevano più fianco a fianco, ma erano armati gli uni contro gli altri.
I due schieramenti si fronteggiarono in un silenzio irreale, finché Napoleone non si staccò dalle sue truppe e, avanzando verso chi era venuto a catturarlo, senza imbracciare il fucile né brandire la spada, disse:
– Chi vuole sparare al suo Imperatore è libero di farlo!
Al silenzio, frutto della sorpresa, seguì un boato e gli uomini venuti a catturarlo gettarono a terra le armi e in molti si buttarono a terra pure loro, in ginocchio. Lanciavano in alto i cappelli e lo acclamavano, già nostalgici dell’epoca della grandeur, quando, per una manciata di anni, erano stati qualcuno o si erano illusi di esserlo. I vecchi compagni d’armi si abbracciarono e tornarono a essere un solo esercito.
L’Imperatore continuava a marciare e, ogni volta che incontrava un reggimento inviato contro di lui per fermarlo, le scene si ripetevano sempre uguali.
 
Napoleone-sbarcato

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Vienna, marzo 1815
 
Alla notizia della fuga di Napoleone dall’isola d’Elba, a Vienna, si era verificato un enorme scompiglio. Scene di grande nervosismo o addirittura di panico si erano susseguite e, per qualche giorno, i ricevimenti si erano interrotti.
Oscar aveva notato che il Vescovo de Talleyrand e il Principe von Metternich sembravano meno agitati degli altri e si ripromise di approfondire la questione anche se sospettava che non sarebbe mai arrivata a capo di alcunché.
Il Duca di Wellington – che, nel febbraio del 1815, era subentrato nel ruolo di rappresentante del Regno Unito al Ministro degli Esteri, il Visconte Castlereagh – aveva lasciato il posto al Conte di Clancarty per assumere il comando dell’esercito britannico e altrettanto aveva deciso di fare Oscar. Insieme a Oscar e André, sarebbe ripartita per la Francia anche la Regina Maria Antonietta che non voleva lasciare solo il figlio in un frangente del genere.
– Te la senti di metterti a capo dell’armata francese e di marciare contro il condottiero più geniale che mai l’umanità abbia avuto, Oscar? – domandò André, con un velo di stanchezza e di preoccupazione nella voce.
– Sì, André, me la sento – rispose Oscar, con tono determinato – Napoleone è il più grande condottiero che la storia abbia mai conosciuto, ma è un uomo anche lui e ha già dimostrato di essere fallibile.
– Egli è più esperto di campi di battaglia, è più determinato, è mille volte più aggressivo ed è anche più giovane di te… di noi – ribatté André che, quel giorno, non era affatto tranquillo.
– La mia gioventù è definitivamente tramontata, ma il giuramento di fedeltà che prestai al Re e alla Francia non ha termini di durata. Se non fermeremo Napoleone per tempo, questa volta, invaderà pure noi e, allora, non ci resterebbe che sbarcare il lunario come maestri d’armi in giro per il mondo, alla nostra età non più verde.
Oscar sottolineò le ultime parole con un tono ironicamente provocatorio ed entrambi scoppiarono a ridere, di una risata che, però, nulla aveva della freschezza e della spensieratezza della gioventù.
 
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Lombardia, 18 marzo 1815
 
Gli avevano inviato contro anche il Maresciallo Ney, uno che aveva fatto fortuna sotto di lui e che era cresciuto militarmente all’ombra dell’insegna dell’aquila.
Subito dopo la partenza di lui per l’Elba, Ney era tornato in Francia e, contro il parere di Oscar, era stato reintegrato dal Re nell’esercito. Ora, in esecuzione di un mandato di cattura internazionale, era andato in Lombardia a fermarlo, dopo avere promesso, a Re e plenipotenziari del Congresso di Vienna, che lo avrebbe riportato con sé in una gabbia di ferro.
Come già tante altre volte aveva fatto, alla vista del suo ex esercito che marciava contro di lui, Napoleone, che cavalcava alla testa di un’armata che si ingrandiva di giorno in giorno come una valanga o una marea, si staccò dagli uomini che comandava e, procedendo a piedi e disarmato, guardando fieramente negli occhi gli uomini che, a ogni nuovo passo, esitavano sempre più davanti a lui, urlò:
– Volete sparare contro il vostro Imperatore?
E, aprendo le braccia con enfasi teatrale, ingiunse:
– Fatelo!
Secondo un copione portato in scena innumerevoli altre volte, gli uomini avevano deposto le armi e il tentativo di cattura si era tramutato in un ricongiungimento, sottolineato dal tripudio collettivo.
Evidentemente sulle spine, Ney, in groppa al suo cavallo, guardò Napoleone con disagio crescente.
– Vi siete comportato da tiranno! – lo accusò.
– Mi avete tradito! – fu la risposta di colui che era di nuovo Imperatore.
Sopraffatto dalle circostanze, Ney estrasse la spada dal fodero e la gettò ai piedi di Napoleone, scendendo, subito dopo, da cavallo. Un Aiutante di Campo la raccolse e la consegnò all’Imperatore che, senza pensarci un attimo, si diresse verso il Maresciallo e gliela riconsegnò.
I due uomini si strinsero in un lungo abbraccio.
 
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Versailles, Palazzo Jarjayes, maggio 1815
 
Stavano vivendo, in patria, momenti febbrili, segnati da preparativi estenuanti e ordini concitati. L’esercito stava acquistando cavalli e muli e Oscar aveva frequenti riunioni col suo Stato Maggiore. Quando non era così impegnata, doveva passare in rassegna le truppe, valutare le reclute e verificare che i cannoni e gli altri pezzi d’artiglieria nuovi di fabbrica fossero esenti da difetti di costruzione.
Il Generale de Jarjayes non faceva che dare consigli alla figlia, alternando orgoglio paterno a funesti pensieri. Dentro di sé, sapeva che Oscar era nata per grandi cose, ma non riusciva a evitare i tristi presagi e le notti insonni di cui, recuperata la lucidità, incolpava la vecchiaia.
La famiglia si era ulteriormente ingrandita, perché, tre settimane dopo la nascita del primo figlio di Honoré, Antigone aveva partorito una bambina bella come il sole che era stata chiamata Hélène. Tutti concordavano sul fatto che la piccola fosse più bella di Antigone e anche di Oscar e già l’avevano soprannominata la bella Hélène. Il Generale de Jarjayes aveva notato che piangeva forte e aveva presagito per lei un avvenire non comune.
In quei giorni, a Hélène era nato un fratellino, Victor Clément de Girodel e anche Honoré stava per diventare padre una seconda volta.
Bernadette e il Marchese de Saint Quentin si erano fidanzati ufficialmente e avevano deciso di sposarsi quando le acque si fossero calmate.
– E’ maggio e le tue rose bianche sono in fiore – disse André, una sera, alla moglie, rompendo il silenzio e mormorando la prima cosa che gli era venuta in mente.
Oscar notò la preoccupazione che, ormai da mesi, affliggeva il marito e tentò di sdrammatizzare con una battuta.
– In genere, preferisco non reciderle e vederle sfiorire sui loro steli, ma, se qualcosa dovesse andare storto, ti autorizzo a portarle sulla mia tomba. E puoi avere la mia trottola e il mio coltellino dal manico rosso!
La battuta, però, non sortì l’effetto sperato e ad André scivolò una lacrima sulla guancia.
– Ti prego, Oscar, non scherzare, il mio cuore non regge più queste cose.
– Desideri che non parta, André?
– Non ti chiederei mai una cosa che andasse contro i tuoi principi e la tua natura, Oscar e, malgrado il passare del tempo, il fuoco della battaglia non si è mai spento in te, ma, al contrario, arde più vivo che mai. Soltanto, ti prego, abbi giudizio… e, fra due vie ugualmente percorribili, ti chiedo di seguire sempre la più saggia e prudente…
 
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Milano, maggio 1815
 
Reinsediatosi a Milano dopo che il Monarca ripristinato dal Congresso di Vienna ne era fuggito, Napoleone aveva deciso di ammorbidire il suo piglio, per dimostrare al mondo il proprio cambiamento e la sua trasformazione in un agnellino innocente. Aveva ampliato le libertà individuali, promulgando una nuova Costituzione e aveva spedito delle lettere ai suoi “fratelli” Sovrani d’Europa, dichiarando di essere tornato in pace, pago dei confini esistenti prima di Austerlitz.
Sfortunatamente per lui, quei proclami erano stati del tutto ignorati e il Principe Reggente del Regno Unito, il futuro Giorgio IV, aveva rifiutato di aprire la lettera e l’aveva rispedita al mittente ancora sigillata. Napoleone era stato dichiarato criminale internazionale evaso, nemico pubblico e perturbatore della pace universale.
Gli inglesi, i prussiani, i francesi di Luigi XVII, i russi, gli austriaci, i belgi e gli olandesi si erano uniti e avevano formato la Settima Coalizione.
Comprendendo che sarebbe stato presto invaso, Napoleone, in meno di cento giorni, aveva messo insieme un’armata di centomila uomini, più grande e potente di ciascuno degli eserciti nemici, ma molto più piccola dell’insieme delle armate coalizzate. Come sempre, aveva deciso di giocare d’anticipo, sorprendendo i nemici con la velocità e la rapidità di esecuzione.
I francesi di Oscar, i prussiani del Feldmaresciallo von Blücher e un’accolita eterogenea e raccogliticcia di inglesi, belgi e olandesi agli ordini del Duca di Wellington stavano marciando contro di lui per invaderlo. Gli austriaci si trovavano all’interno dei loro confini e i russi erano ancora molto lontani, ma, se avesse esitato, sarebbero giunti anche loro.
Sarebbe arrivato per primo e si sarebbe incuneato fra gli eserciti nemici, impedendone il ricongiungimento e battendoli uno alla volta. Diversamente, se si fossero uniti, sarebbe stato schiacciato dalla loro superiorità numerica.
 
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Belgio, 16 giugno 1815
 
Inglesi, prussiani e francesi erano sparsi nel territorio belga, ospiti, gli ufficiali, delle famiglie nobili e, i soldati semplici, dei contadini. Erano completamente scollegati gli uni dagli altri e non pensavano che Napoleone avrebbe attaccato per primo e, soprattutto, così rapidamente. Essendo questo lo stato delle cose, quando l’Imperatore partì da Charleroi con l’Armée du Nord e attraversò la Sambre, colse gli avversari del tutto impreparati.
Per compensare lo svantaggio numerico, Napoleone adottò la strategia della posizione centrale, così da dividere gli avversari. Il sedici giugno, combatté contro i prussiani a Ligny e, dal suo posto di comando nel mulino di Naveau, costruì dal nulla una schiacciante vittoria. Ordinò, quindi, al Maresciallo de Grouchy di inseguire i prussiani sconfitti per sgominarli e per impedire che si riorganizzassero e si unissero alle truppe di Wellington e ai francesi di Oscar, ma de Grouchy sbagliò completamente l’inseguimento, non essendo riuscito a prevedere dove il grosso dell’esercito nemico si sarebbe diretto.


Battaglia-di-Ligny

Il Maresciallo Ney, invece, non riuscì a sconfiggere Wellington e Oscar a Quatre Bras e ci rimediò un aspro rimprovero da parte dell’Imperatore. Pur non essendo stato sconfitto, Wellington, non volendo affrontare Napoleone senza i prussiani, si ritirò a Mont Saint Jean, circa due chilometri a sud del villaggio di Waterloo, dopo avere sollecitato von Blücher a sostenerlo. Oscar seguì il Duca e Napoleone decise di inseguire entrambi, desideroso di sconfiggerli prima che i prussiani avessero avuto il tempo di riorganizzarsi e di raggiungerli.
 
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Belgio, qualche miglio a sud di Waterloo, 17 giugno 1815
 
Una delle colline che sorgevano nei pressi di Mont Saint Jean ospitava un piccolo gruppo di spettatori. Giornalisti, agenti di vari Governi, spie, inviati della Compagnia delle Indie, delle Borse e di altre organizzazioni, pittori e semplici curiosi, avendo saputo che il Duca di Wellington si era schierato davanti alla foresta di Soinges e che Napoleone lo aveva inseguito e lo avrebbe attaccato al più presto, avevano deciso di assistere alla battaglia da una distanza di sicurezza.
Del gruppo degli spettatori, faceva parte anche André, accompagnato da Lisimba, l’africano che lui e Oscar avevano salvato dalla schiavitù, in una brumosa mattina di dieci anni prima. Oscar era andata a trovarlo per congedarsi da lui, prima di prendere posto a difesa del Castello di Hougoumont.
Pioveva abbondantemente e, all’orizzonte, dei cupi nuvoloni, carichi d’acqua, preannunciavano un rovescio ancora peggiore durante la notte. In molti dubitavano che la battaglia si sarebbe potuta combattere, nonostante tutta la determinazione di Bonaparte.
Il panorama si allargava in ampie distese di campi non ancora mietuti, coltivati a frumento o a foraggio, in gran parte calpestati dal passaggio delle truppe. In alcuni punti, tuttavia, il grano era ancora alto e dei soldati si vedevano soltanto i busti, le teste o addirittura le baionette. Diversi terreni, a causa dei copiosi rovesci, erano ridotti ad acquitrini e riflettevano il cielo in ampie pozze d’acqua.
Un poco defilati, Oscar e André parlavano, a volte sussurravano, non volevano dirsi addio, ma il pensiero sfiorava sempre l’eventualità peggiore.
– Sei sicura di non volermi al tuo fianco, Oscar? – le domandò André, stringendo, fra le sue, le mani fredde di lei.
– André, sei molto caro, ma mi sento più tranquilla nel saperti qui… Non potrei comandare le truppe e pensare anche alla tua sicurezza…
Non voleva dirgli che qualunque posto valeva l’altro per morire, ma che lei non aveva mai preso in considerazione l’idea che tutto potesse finire in una giornata di pioggia, in terra straniera, lontano dalla Francia e che le sarebbe stato intollerabile vederlo perire davanti ai propri occhi, raggiunto da una pallottola vagante, magari diretta a lei. E, se la morte avesse ghermito lei, avrebbe dovuto farlo al riparo dagli occhi di lui, affinché la ricordasse sempre viva e felice.
Parlarono del più e del meno, ma tacquero sul fatto che quella battaglia si preannunciava molto più pericolosa e letale di quella di Lipsia, dove le forze in campo contro il tiranno erano state più numerose e il ruolo giocato da lei meno rischioso. Se le truppe napoleoniche avessero attaccato in massa Hougoumont, Oscar avrebbe rischiato di restare in trappola e di fare la fine del topo.
Non volevano dirsi addio, ma sapevano che quegli istanti insieme sarebbero potuti essere gli ultimi.
– Presto, le aquile imperiali conosceranno gli artigli dei leoni di Casa Jarjayes… – disse André.
– Comunque vadano le cose, sappi che ti ho sempre amato – rispose Oscar, in un sussurro.
 
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Belgio, qualche miglio a sud di Waterloo, 18 giugno 1815
 
Per tutta la notte a cavallo fra il diciassette e il diciotto giugno, era piovuto copiosamente e le campagne della Vallonia erano diventate un immenso pantano fangoso. Gli uomini di entrambi gli schieramenti non avevano potuto riposare adeguatamente, essendosi ritrovati bagnati e infreddoliti come se fosse stato inverno. Gli inglesi se l’erano passata peggio di tutti, perché un violento tuono si era abbattuto in prossimità del loro accampamento e aveva terrorizzato i cavalli che si erano dati alla fuga, seminando panico e scompiglio nei bivacchi.
Gli ufficiali più vicini all’Imperatore gli avevano detto che, con quel tempo, non sarebbe stato possibile combattere al mattino, perché il terreno fangoso avrebbe reso impossibile muovere le batterie e usare l’artiglieria.
Napoleone, però, era più che determinato a dare inizio alle ostilità. Aveva, infatti, bisogno di una vittoria veloce e decisiva che placasse gli animi a Milano e che impedisse il ricongiungimento degli inglesi e dei francesi ai prussiani e, successivamente, l’allargarsi delle fila dei nemici con l’arrivo degli austriaci e dei russi. Trovandosi in condizioni di inferiorità numerica, doveva colpire velocemente e inesorabilmente.
Passò, quindi, l’intera notte a studiare meticolosamente le mappe e a predisporre lo schieramento tattico del suo esercito.
Il piano dell’Imperatore era semplice e teoricamente foriero di successo: fare una manovra diversiva sull’ala destra avversaria, per indurre il nemico a sguarnire il centro e, poi, attaccare pesantemente il centro stesso per occupare Mont Saint Jean, frantumare lo schieramento nemico e sbaragliare l’avversario. Napoleone escluse, invece, sia di attaccare l’ala sinistra britannica, già debole e sguarnita, onde evitare la concentrazione di truppe in quel settore dove, presumibilmente, ci sarebbe stato il ricongiungimento con von Blücher sia di effettuare complesse manovre di aggiramento, ardue da realizzare in condizioni di inferiorità numerica.
All’alba, la pioggia diminuì di intensità. Poco dopo le otto del mattino, cessò del tutto e il sole si affacciò fra le nubi, asciugando e consolidando il terreno.
Gli uomini si misero ad asciugare e a controllare le armi e a cuocere le zuppe mentre il pane era distribuito ai soldati.
Napoleone fu sollevato nell’apprendere che gli ufficiali di artiglieria ritenevano, ora, possibile muovere le batterie. Dall’apice di un piccolo dosso, in groppa a Marengo, arringò gli uomini con voce stentorea, facendo appello al sentimento nazionale e al ricordo delle glorie del passato.
– Amici, il nemico ha avuto l’ardire di sfidarci, ma noi siamo più forti e lo sbaraglieremo prima che sia sera. Vi ricordate il sole di Austerlitz? Anche allora, gli elementi ci erano avversi, ma, poi, il sole squarciò le nubi, disperse la nebbia e ci guidò verso la vittoria. Anche oggi, il sole ha vinto, asciugherà il terreno e ci mostrerà la via del trionfo!
Un coro di acclamazioni attraversò l’esercito, facendo sussultare gli animi dei veterani e delle giovani reclute. L’Imperatore, infatti, godeva ancora di un prestigio indiscusso fra i soldati e sapeva bene come incitarli, parlando ai loro cuori.
Il punto debole, invece, era costituito, oltre che dall’inferiorità numerica, anche dalla divisione fra lealisti radicali e voltagabbana riaccolti. I Marescialli e i Generali che erano rimasti fedeli all’Imperatore accusavano di tradimento quelli che, l’anno prima, erano passati dalla parte del nemico e gli stessi malumori serpeggiavano fra le truppe. Le accuse di tradimento rimbalzavano fra le fila dei soldati e non giovavano alla serenità degli animi e all’unità dell’esercito. Il morale, poi, pur essendo in genere alto, non era stabile. Gli uomini risentivano degli umori del momento e, se si infervoravano velocemente, con altrettanta rapidità si scoraggiavano.
All’inizio della giornata, tuttavia, l’ottimismo era predominante fra i soldati napoleonici e, quando si parlò del ballo organizzato dalla Duchessa di Richmond, il quindici giugno, a Bruxelles, al quale aveva partecipato il Duca di Wellington, il Maresciallo Soult disse: “Il ballo è oggi”.


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Prima che i cannoni iniziassero a tuonare, Napoleone, in groppa a Marengo, ispezionò ancora una volta il terreno e passò in rivista il suo schieramento.
L’Imperatore non temeva gli avversari e pensava che, attenendosi con scrupolosità al suo piano, avrebbe facilmente e rapidamente portato a casa la vittoria. Considerava Wellington lento e passivo, troppo prudente, prevedibile ed egoista mentre reputava von Blücher un mediocre tattico, ottuso e avventato. Nel complesso, stimava Oscar militarmente al di sopra degli altri, ma non alla propria altezza. Le riconosceva preparazione, ardimento, visione, abilità tattica, rapidità di movimento e di esecuzione e, cosa che stimava molto nelle persone, una grande onestà. Le attribuiva anche un certo genio, ma non equiparabile al proprio. Di lei sapeva che eccelleva nel combattimento all’arma bianca, ma ciò non lo spaventava, perché considerava la spada antiquata, la piuma di pavone dei nobili mentre le battaglie si vincono con l’artiglieria. Soprattutto, secondo lui, il Comandante de Jarjayes mancava di esperienza, avendo passato la vita al guinzaglio del Re anziché sui campi di battaglia.


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Anche il Duca di Wellington, in sella a Copenaghen, si recò in prima linea a ispezionare le truppe. Malgrado la sicurezza che sempre ostentava, era incerto a causa delle condizioni climatiche e temeva la presenza dell’Imperatore sul campo di battaglia.
Seduta sul suo cavallo bianco, anche Oscar guardava l’immensa distesa di campi bagnati e mille pensieri le attraversavano la mente. Dentro di sé, era consapevole che quel giorno avrebbe scritto la parola fine su quasi venti anni di ostilità fra lei e Napoleone Bonaparte. Comunque fosse andata, ci sarebbe stato il redde rationem e una carriera quasi cinquantennale sarebbe giunta a compimento.
Ripensò alle giornate che avevano preceduto la scelta di indossare la bianca uniforme di Capitano delle Guardie Reali, in un mondo ormai lontano di cui poco era rimasto. Ripensò alla durezza del padre che l’aveva scaraventata giù dalla scalinata principale del palazzo, alla scazzottata piena di rabbia e di passione con André e al duello con una persona che da tempo non c’era più. Ripensò al primo incontro con Maria Antonietta, fanciulla allegra e irresponsabile che tanto sarebbe cambiata nel corso degli anni e alle mille avventure che aveva vissuto al comando delle Guardie Reali. Ricordò il suo ingresso fra le Guardie Metropolitane, il loro ruvido approccio, l’ostilità iniziale e la fiducia quasi fanciullesca che quegli uomini semplici le avevano tributato, una volta conquistati. Ricordò il suo ritorno nelle Guardie Reali, il senso di sollievo nell’apprendere di non essere afflitta da un male incurabile, il matrimonio e la nascita dei figli. Ripensò alla sconfitta di Robespierre e di Saint Just, morti suicidi perché incapaci di sopravvivere alla deriva dei loro fanatici ideali e meditò su quanto fosse paurosamente semplice perdere la strada e confondere la meta. Ripensò all’incontro col più temibile, completo ed eclettico dei suoi avversari e rabbrividì al pensiero di quanto sconvolgimento un solo uomo potesse arrecare al mondo intero e di quanti fossero i loro punti in comune.
D’un tratto, sul crinale di un’altra collina, scorse un’inconfondibile figura, in sella a un cavallo chiaro come quello su cui stava montando. La foggia semplice della divisa e la sagoma del bicorno le tolsero ogni residuo dubbio sull’identità del cavaliere. Fu questione di un attimo ed ebbe la sensazione che anche l’altro la stesse fissando con i suoi occhi chiari, freddi come il ghiaccio e duri come l’acciaio. Avvertì, fra loro, l’ombra di un vecchio amico, inghiottito dalla voracità del tempo, che li guardava e reclamava giustizia.
Guardò verso la collina su cui stazionavano i civili spettatori e rivolse il suo pensiero ad André che la stava aspettando e tenendo d’occhio da lontano.
Ti prego – pensò la donna, in una muta supplica rivolta al marito – Parla di noi ai nostri figli, ai nostri nipoti e a tutti coloro che verranno. Di’ loro chi siamo stati, in cosa abbiamo creduto e per cosa abbiamo combattuto. Non permettere che ciò che abbiamo fatto si perda nelle pieghe del tempo, perché, fintanto che qualcuno saprà per cosa ci siamo battuti, non saremo vissuti e morti invano.
 
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Belgio, Castello di Hougoumont, 18 giugno 1815
 
Malgrado la fretta di Napoleone di cominciare la battaglia, principalmente per scongiurare il rischio dell’arrivo dei prussiani di von Blücher, a causa delle avverse condizioni climatiche, i combattimenti non iniziarono che alle undici e trenta del mattino.
Udito il primo cannone sparare, il Generale napoleonico Reille diede il via all’assedio del castello di Hougoumont, una fattoria fortificata circondata da un muraglione alto circa un metro e ottanta centimetri e costeggiata, sul lato orientale, da un frutteto e, su quello meridionale, da un bosco. La fortezza era difesa da Oscar, a capo di poco più di duemila uomini.
Il castello di Hougoumont si trovava a sud ovest di Mont Saint Jean e della foresta di Soinges, davanti ai quali era schierato Wellington. Napoleone sperava che, sferrando lì un attacco, avrebbe indotto Lord Arthur a spostare a destra parte delle truppe, col duplice risultato di sguarnire il centro e di evitare il più possibile il ricongiungimento a sinistra con le milizie di von Blücher. Conquistando il castello di Hougoumont, poi, Napoleone avrebbe potuto attaccare gli inglesi sia dal centro sia da destra, frantumando il fronte avversario.
Per la verità, all’inizio, Reille neppure sapeva se il castello fosse presidiato da qualcuno e inviò sul posto quattro reggimenti e un battaglione di cavalleria. Oscar e i soldati da lei comandati, però, erano più che presenti e, nascosti nel bosco che costeggiava il castello, iniziarono a respingere con forza e determinazione i soldati napoleonici.
I mortai tuonavano da una parte e dall’altra e, sotto una pioggia di fuoco che striava il cielo di rosso e di fumo, i soldati di Napoleone tentavano di avanzare mentre i francesi sbarravano loro la strada. I militari sparavano protetti dagli alberi o sdraiati dietro grossi tronchi riversi al suolo e non era raro assistere a dei corpo a corpo fra le fronde e le foglie che, cadute copiosamente a causa delle piogge, formavano con la terra bagnata un vero e proprio pantano nel quale gli stivali degli uomini, gli zoccoli dei cavalli e le ruote degli affusti di cannone sprofondavano.
Per due volte, i francesi respinsero gli assalti dei soldati napoleonici, con Oscar che urlava i suoi ordini fra le radici di una quercia o arrampicata su un ramo dove si era issata per avere una visione d’insieme. Alla fine, il sopraggiungere di sempre nuovi reggimenti e la carica della cavalleria costrinsero i francesi ad arretrare fino agli edifici del castello e al limitrofo frutteto.
– Da ora in poi, non possiamo più indietreggiare! – tuonò Oscar, rivolta alle poche centinaia di uomini che la stavano ad ascoltare – Siamo circondati, ma difenderemo il castello a costo delle nostre vite!
Un boato di approvazione uscì vigoroso dalle gole degli uomini mentre le bombe fischiavano ed esplodevano e i nemici attaccavano.
Come aveva detto Oscar, i soldati napoleonici assediavano da tre lati su quattro, ma i francesi fecero quadrato, si asserragliarono fra gli alberi e gli edifici e, dopo diverse ore di combattimento, le truppe dell’Imperatore riuscirono a impossessarsi soltanto di una parte del frutteto, a prezzo di enormi perdite.
La situazione, però, era estremamente instabile e poteva capovolgersi da un momento all’altro. Conscia di questo, Oscar comandava e incitava all’attacco da una parte all’altra, brandendo la spada come Ercole la clava e urlando come una Furia.
D’un tratto, da nord, un manipolo di soldati napoleonici del primo reggimento leggero della brigata del Generale Soye, guidati dall’erculeo Sottotenente Legros che si faceva largo a colpi di scure, riuscirono a penetrare nel cortile del castello. Grande fu lo stupore dei francesi che sudarono freddo, paventando la fine.
Oscar ordinò l’immediato contrattacco, giungendo sul posto in sella al suo cavallo. Sprezzante del pericolo, iniziò a sparare mentre nel cortile infuriava una mischia sempre più disordinata.
– Chiudete il portone! – urlò la donna – Chiudete quel dannato portone!
Poiché parevano non udirla, scesa da cavallo, corse lei stessa verso la porta e, con l’aiuto di due soldati, sbarrò le pesanti ante di legno, con il risultato di separare dal resto dei nemici i soldati entrati nel cortile che rimasero chiusi all’interno.
Una decina di uomini rimasti intrappolati, fra cui il colossale Sottotenente Legros, si difesero strenuamente, come diavoli urlanti nei gironi dell’inferno. Legros, in particolare, aveva il fuoco nelle vene e la ferocia negli occhi e attaccava a colpi di scure, con la rabbia di un dannato.
– Non sparate su di lui, è soltanto un bambino! – urlò Oscar, riferendosi a un tamburino in età preadolescenziale che, mentre i nemici francesi lo catturavano, non sapeva se risentirsi per essere stato trattato da marmocchio o tirare un sospiro di sollievo per avere avuto salva la vita.
Dopo un lasso di tempo incalcolabile, tutti i soldati rimasti intrappolati nel cortile furono uccisi, con le sole eccezioni del tamburino fatto prigioniero e di Legros che, seppur ferito ripetutamente, continuava a battagliare con la forza della disperazione. Alla fine, l’aitante Sottotenente napoleonico trovò rifugio nella cappella del castello, situata nel cortile e, lì asserragliato, si difese fieramente da solo finché un colpo di fucile non lo raggiunse, privandolo della rabbia e della vita.
 
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Belgio, Fattoria de La Haye Sainte e crinale di Mont Saint Jean, 18 giugno 1815
 
Charge-of-the-French-Cuirassiers-at-Waterloo

Mentre i combattimenti, a Hougoumont, infuriavano, intorno a mezzogiorno, lo Stato Maggiore dell’esercito napoleonico avvistò, tra la vegetazione a nord est, delle truppe che avanzavano. Napoleone inviò uno dei suoi Aiutanti di Campo a prendere informazioni e questi tornò con pessime notizie. Si trattava dell’avanguardia dei prussiani mentre del Maresciallo de Grouchy non c’era alcuna traccia.
Napoleone non si perse d’animo e scartò a priori la possibilità di ritirarsi per riunirsi a de Grouchy. La battaglia andava combattuta e conclusa al più presto, per evitare il ricongiungimento degli eserciti avversari e il diffondersi del disfattismo a Milano. I prussiani non erano arrivati, gli austriaci non si erano ancora mossi dai loro territori e i russi erano lontanissimi. Se avesse indugiato, però, si sarebbe trovato contro tutte le truppe delle Settima Coalizione e sarebbe stato sconfitto. Doveva attaccare immediatamente, senza perdere un solo minuto. Doveva sfondare il centro dell’esercito di Wellington, conquistando la fattoria de La Haye Sainte e sferrando, da lì, l’attacco conclusivo a Mont Saint Jean.
Le batterie iniziarono a sparare, creando in cielo una densa cappa di fumo, ma i risultati furono deludenti. L’artiglieria era troppo lontana per colpire efficacemente il nemico e soltanto l’avanguardia subì delle perdite mentre il grosso delle truppe di Wellington era al sicuro, dietro la cresta del colle. Come se ciò non bastasse, il terreno ancora umido impediva il tiro di rimbalzo ovverosia le palle di cannone sprofondavano nel fango anziché rimbalzare, provocando più danni.
Fu a quel punto che, fra l’una e mezza e le due del pomeriggio, entrò in azione la fanteria napoleonica che cinse d’assedio La Haye Sainte. I combattimenti si svolsero nell’edificio, nel frutteto e nel vicino orto mentre una limitrofa cava di ghiaia passò di mano più volte. Il Maresciallo Ney, però, commise l’errore di non affiancare l’artiglieria alla fanteria, così che i combattimenti si protrassero a lungo, senza che lo smantellamento della fattoria si fosse reso possibile.
Parallelamente, altri reggimenti di fanteria, guidati dal Generale d’Erlon, risalirono il crinale per cingere d’assedio le truppe di Wellington. Raggiunta la cresta e oltrepassata la siepe che bordeggiava la strada infossata del chemin d’Ohain, si diressero spediti contro il nemico che, fino a quel momento, aveva opposto una resistenza debole tanto che, di fronte agli attacchi, varie brigate si erano disgregate.
La situazione della linea centrale dello schieramento di Wellington, intorno alle due del pomeriggio, stava diventando molto critica, così che il Generale Picton, per evitare lo sfondamento, decise di fare intervenire le brigate Kempt e Pack che aprirono il fuoco contro la fanteria napoleonica. Dopo un primo momento di sbandamento, i soldati dell’Imperatore risposero al fuoco con precisione ed efficacia, tanto che i reggimenti scozzesi della brigata Pack furono fermati e attaccati e lo stesso Picton fu raggiunto al capo da un proiettile e ucciso.
A dare supporto alla fanteria in difficoltà, il Generale Henry Paget inviò due brigate di cavalleria pesante, la Household Brigade e la Union Brigade, così chiamata perché composta da inglesi, irlandesi e scozzesi (passati alla storia come Scots Greys).
La Household Brigade caricò giù dalla collina i nemici, mettendo in fuga i cavalieri e attaccando da due direzioni diverse i corazzieri della brigata Travers. Questi soldati, anche se scarsamente preparati, erano entusiasti e combattivi e montavano in sella a cavalli possenti e veloci. Grande fu l’impeto della loro carica, tanto che gran parte dei corazzieri napoleonici finì scaraventata nella profonda scarpata della strada maestra. I superstiti tentarono di dare battaglia, ma, alla fine, dovettero ritirarsi.
Non paga di questi successi, la Household Brigade continuò incautamente la carica fino a valle, dove fu inesorabilmente bloccata e dispersa dai soldati napoleonici che si erano organizzati con dei quadrati difensivi.


Scotland-Forever

Anche la Union Brigade registrò un buon successo iniziale, distruggendo varie brigate nemiche e conquistando le aquile dei reggimenti sconfitti. Gli Scots Greys, in particolare, andarono in soccorso agli scozzesi della brigata Pack e si scagliarono contro l’artiglieria napoleonica, seminando il panico fra i soldati e mettendo temporaneamente fuori uso alcuni cannoni.
Alla fine, però, pure la Union Brigade, prode, ma disorganizzata, esaurì la sua forza d’urto e, contrattaccata dalla cavalleria nemica, dovette cedere le posizioni conquistate agli avversari che rimisero in funzione gran parte dei cannoni.


Carica-lancieri-francesi

Vista la malaparata, Napoleone inviò i corazzieri e i temibili lancieri contro le due brigate di cavalleria pesante. Due reggimenti di lancieri colpirono sul fianco gli Scots Greys che furono distrutti anche grazie al contributo dei corazzieri. Il loro Colonnello, James Hamilton, venne ucciso insieme alla maggior parte degli uomini e anche il Comandante della Union Brigade, William Ponsonby, intralciato dal terreno fangoso, fu raggiunto e disarcionato da un lanciere napoleonico e finito con un colpo di lancia in pieno petto.
In questo modo, la cavalleria pesante britannica fu falciata e definitivamente indebolita e sul campo rimase la sola cavalleria leggera. Il sacrificio della cavalleria pesante, tuttavia, non fu vano, perché arginò l’attacco iniziale del primo corpo di d’Erlon, disgregando la fanteria napoleonica e consentendo ai britannici di guadagnare tempo fino all’arrivo dei prussiani.
Intorno alle tre del pomeriggio, Napoleone ricevette un messaggio dal Maresciallo de Grouchy, dal quale apprese che egli non sarebbe arrivato che il giorno seguente. Ora più che mai, l’Imperatore stabilì che l’unico modo per uscire vittorioso era quello di annientare il nemico al più presto, prima dell’arrivo di von Blücher. Comandò, pertanto, di intensificare gli attacchi contro La Haye Sainte, in modo di impadronirsi di quel caposaldo e di sferrare, da lì, l’assalto decisivo a Wellington, ma nessuna nuova invettiva otteneva il risultato sperato.
A un certo punto, il Maresciallo Ney decise, di sua iniziativa, di fare caricare i nemici dalla cavalleria pesante, ma si trattò di una mossa prematura, disorganizzata e priva del sostegno della fanteria.
La cavalleria pesante francese risalì il declivio di Mont Saint Jean a trotto lento, sotto il tiro dell’artiglieria nemica e ostacolata dal terreno ancora melmoso.
Wellington schierò venti battaglioni in formazione difensiva, a quadrato, creando una scacchiera sul campo di battaglia. Ogni quadrato era organizzato su tre ranghi, con i soldati della prima fila in ginocchio, quelli della seconda in piedi e quelli della terza a cavallo. All’interno di ogni quadrato, gli ufficiali superiori tenevano sotto controllo la situazione e impartivano gli ordini. Ciascun soldato brandiva una baionetta, così che il quadrato appariva all’esterno come un grande istrice irto di aculei d’acciaio.
L’artiglieria inglese contrastò la cavalleria napoleonica per tutta la faticosa salita sul pendio e, quando quella arrivò in cima, si ritirò dietro i quadrati, abbandonando momentaneamente i cannoni.
I cavalli napoleonici, già sfiancati dalla lunga salita sul sentiero di fango e spaventati dalle lame, non si avvicinavano ai quadrati. Gli uomini all’interno dei quadrati, a loro volta, non si muovevano e non sparavano, per non fare imbizzarrire i cavalli. Alla fine, i cavalli camminavano accanto ai quadrati e ciascuno stava fermo in attesa di un errore dell’avversario.
Ovunque i quadrati si sfaldassero, però, i ripetuti attacchi della cavalleria provocavano danni immensi e, dopo alcune ore, le truppe di Wellington risultarono molto provate. Soprattutto i corazzieri impressionarono i britannici per la loro enorme combattività.
Tuttavia, poiché la carica della cavalleria fu improvvisata senza un ordine in tal senso di Napoleone, non fu coordinata con quella della fanteria e rimase, nel complesso, disorganizzata, non ottenne l’effetto sperato e i coalizzati, pur subendo molte perdite, non arretrarono.
 
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Belgio, Castello di Hougoumont, 18 giugno 1815
 
Presso il Castello di Hougoumont, i combattimenti continuavano a infuriare con feroce veemenza.
Girolamo Bonaparte, che aveva ricevuto il comando di una divisione del secondo Corpo d’Armata del Generale Reille, volendo fare bella figura col fratello maggiore, aveva intensificato gli attacchi, inviando sempre più battaglioni, provocando numerosissime perdite e costringendo il suo Comandante a spostare forze preziose da un altro settore per toglierlo dai guai. In tal modo, quello che sarebbe dovuto essere uno scontro secondario divenne la culla di una grande carneficina.
In questo susseguirsi di attacchi sanguinosi e sconsiderati, Oscar urlava i suoi ordini con piglio feroce e si esponeva anche in prima persona, se occorreva, sempre fedele al suo carattere indomito e al giuramento che, quando era poco più di una bambina, aveva fatto al suo Re e alla Francia.
Intorno alle tre e mezza del pomeriggio, Napoleone, stanco delle alzate di ingegno del fratello, intervenne di persona, ordinando un pesante bombardamento del castello.
Malgrado tanto infierire e le migliaia di morti da una parte e dall’altra, Hougoumont rimaneva in piedi e si rifiutava di cadere nelle mani dell’Imperatore.
Dopo un lasso di tempo della durata indefinita, un Aiutante di Campo di Napoleone si avvicinò al portone della fortezza con un panno bianco che sventolava legato a un’asta e intimò la resa ai difensori.
– Non avete speranza, siete asserragliati e presto morirete. Consegnate le armi!
Per tutta risposta, dalla sua postazione, Oscar, con l’uniforme lacera, i capelli scarmigliati e il viso annerito dalla polvere da sparo, gli urlò:
– Venite a prenderle!
– Arrendetevi! Consegnatevi!
– Venite a prenderci!
– Ve la siete voluta! Il castello sarà raso al suolo e voi sarete trucidati uno a uno! Non vi sarà usato alcun riguardo!
Pronunciate queste parole, fece dietrofront e se ne andò via, livido di rabbia.
Il bombardamento riprese con maggiore intensità e il cielo si riempì dei fischi delle granate e delle imprecazioni degli assediati.
   
 
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