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Autore: Angel_lilac    01/06/2023    0 recensioni
Avevamo messo piede in casa da pochi minuti e tu non avevi potuto gioire dei suoi profumi, gli stessi che io avevo sognato per tutto l’inverno. Non gioisci mai di niente. Piangi ricordando di quando eri leggera, così leggera che l’Ander avrebbe potuto portarti via, ma cosa è cambiato davvero?
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Era sempre stata una casa di cose non dette, in cui regnava il silenzio. Ogni parola fuori dall’ordinario tacere, riecheggiava tra quelle pareti per giorni e giorni, si insediava nelle nostre menti e ci turbava l’animo. Ma in una casa di silenzi cosa rimane da pensare, a cosa si aggrappa la memoria? Gesti, sguardi, l’odore di incenso che si propagava dallo studio di papà, altrettanto silenzioso e insidioso. Lui, sigillato in quella stanza, la porta serrata e tu che lo spiavi dalla serratura con fare innocente. Sogghignavi e poi sparivi di corsa verso il cortile ed io rimuginavo su quell’immagine che probabilmente le tue pupille ingenue avevano già rimosso: papà seduto sulla poltrona di cuoio che aveva accomodato di fronte allo scrivania, con gli occhi così fissi sui fogli da scordarsi delle promesse accumulate, delle illusioni perpetuate. Ma tu ridevi e non ti importava. Non eri superficiale, con il tempo hai dimostrato il contrario. Eppure ci sono troppe cose che non capisci e non vuoi capire. Perché mamma faceva sempre quell'espressione corrucciata ogni volta che ti vedeva far scivolare le tue infantili poesie sotto la porta di papà? Perché non rispondeva al tuo sguardo con un sorriso, come un invito, un’espressione di approvazione? Tu sai cosa volevano dire quelle rughe sulla fronte di mamma. Il tuo tormento ricade sul perché. Perché non poteva essere diversamente? E perché ti sei ostinata per così tanto tempo a conservare un ricordo ingannevole di loro, di noi?
L’unico momento in cui non percepivo il silenzio assordante che regnava nella casa erano le sere d’estate, quando i nostri pasti erano accompagnati dal canto delle cicale e dal tintinnare dei bicchieri e in cui avrei giurato che mamma e papà si fossero scambiati un sorriso. Ma eravamo tutti consapevoli che quell’atmosfera illusoria si sarebbe spenta negli ultimi giorni di settembre e il freddo avrebbe cominciato a regnare nei nostri sguardi per i prossimi mesi. Ma tu sputavi distratta i semi dell’anguria nel posacenere di papà e sorridevi divertita quando lui te lo faceva notare con uno sguardo severo. Io e te sedevamo così vicini da sfiorarci, sulla panchina di vimini che avevamo abbinato al tavolo da pranzo da quando le nostre sedie erano marcite al sole. La pelle s’incollava a causa del caldo e le frequenti gite al lago ci increspavano i capelli. Mamma era sempre costretta a tagliarceli almeno di tre centimetri alla fine di ogni estate e io mi ribellavo ogni volta perché mi piaceva quando i boccoli mi cadevano sotto le sopracciglia. Papà, invece, odiava andare al lago. Diceva che si sentiva inutile, disteso sulla roccia come un’ameba. 

L’inverno non è mai stato pietoso nei tuoi confronti: il gelo crea solchi tra le tue dita, le gambe si assottigliano e le labbra si fanno una superficie rugosa. Non saprei dire se sia ancora così: negli ultimi anni ho conosciuto solo le tue gote arrossate, le cosce piene e gli occhi luminosi. Agosto ti è gentile, si prende cura di te con un’attenzione materna. 
La terza giornata l’avevamo passata a farci scottare dal sole, sdraiati su un telo in mezzo al giardino. Tu mi leggevi De brevitae vitae ad alta voce, mentre io riposavo gli occhi. A fine lettura, avevi detto che Seneca sembrava conoscere nel profondo la tua paura di trascinarti nell’esistenza e che ora ti sentivi ancora più arida di prima. 

La quarta mattina ci alzammo prima dell’alba, per poterla ammirare dalla Spiaggia degli ulivi. Osservavo la superficie del lago incresparsi mentre sprofondavi al suo interno e il riflesso limpido delle montagne si dissolveva in macchie dai toni verdastri. Dopo ogni tuffo dal pontile dismesso, rimanevi sospesa per qualche secondo tra il fondale e la superficie, assaporando quel silenzio onirico che solo quella distesa d’acqua custodisce. Un silenzio che non è assenza, ma segretezza, un rituale sacro che non vuole esaurirsi. Se il lago volesse parlare, confesserebbe a te i suoi segreti, te li sussurrerebbe alle orecchie mentre ti dondoli leggera, con gli occhi puntati verso il cielo.

« Poi c’è a chi non piace l’odore del lago » te ne eri uscita una volta, mentre sedavamo a riva e le onde ci solleticavano le ginocchia.

« Non è che sia particolarmente piacevole » avevo risposto io, storcendo il naso.

« Ma perché si tende ad associarlo alla melma depositata sulla riva » replicasti indicando delle rocce ricoperte dal verde più intenso che avessi mai visto « Ma è quello stesso odore che percepisci quando stai nuotando e l’acqua ti accarezza la faccia, ti penetra la pelle, si infila nel naso, nella bocca. »

Negli ultimi anni, seppure l’acqua acre continua ad inzuppare i nostri ricci scuri ogni estate, mamma non li ha più accorciati. I miei capelli cadono ormai leggeri sulle spalle e tu li tieni spesso legati in una lunga treccia, il cui fiocco coincide con l’altezza della vita. 
 

« Quando l’hai scritta? » tra i fogli che avevi accumulato sul tavolo del giardino, uno solo aveva assecondato il ballo offerto dal vento, ma non feci in tempo a raccoglierlo che tu me lo strappasti dalle mani.

« Questa mattina » risposi secca.

« Di cosa parla? » Tu avevi reagito con uno sguardo quasi annoiato, poi ti eri assicurata i tuoi fogli sotto il peso di un melograno e il tuo tono si era fatto forzatamente teatrale: « di quando gli sguardi diventano freddi e i baci sempre più rari ».

Avevamo riso entrambi. «È una storia vera?» Avevo sempre sperato che mi raccontassi di più della tua vita in città.

« È la storia di tutti. » Improvvisamente eri tornata seria e capii che avresti voluto chiudere la conversazione, ma era da quando avevo finito di spazzare il viale di ingresso che cercavo disperatamente di distrarmi fino all’ora di pranzo. 

« Non tutti diventano freddi con il tempo » replicai allora.

« Ma qualcuno nella nostra vita lo farà. E allora non faremo altro che ricordare il tempo in cui eravamo così pieni…» Mi pentii di aver insistito, dal momento che il tuo tono drammatico cominciava a darmi sui nervi. 

« Pensi che mamma non ti voglia più bene? E nemmeno io?»

« È solo che forse ci abbiamo fatto l’abitudine e non gioiamo più del nostro amore reciproco »

« È inutile angosciarsi troppo per qualcosa che è andato e non tornerà » conclusi io. Tu non dissi nulla.   « Come l’hai intitolata? »

« Non l’ho ancora deciso. »

« Posso leggerla? »

« No, non è finita »

« Allora perché l’hai messa da parte? »

« Perché non voglio più pensarci. Non hai di meglio da fare? »
 

Il buio più totale invita alla confessione. Tutto ciò che ci tenevamo dentro durante la giornata, ce lo sussurravamo la notte e ci addormentavamo con le parole ancora sospese nella stanza. Ma non ne parliamo mai io e te, di papà. Almeno, non più. Eppure quella sera tu mormorasti qualcosa di inaspettato.

« Ti ricordi la lettera? » I tuoi occhi iniziarono a scorrere dal mio letto al muro dietro di me, fino allo scaffale su cui ora non si era accumulato altro che polvere.   

Quando ancora non superavamo il metro e venti di altezza, mamma e papà avevano l’abitudine di usare le mensole più alte della nostra camera per tenerci oggetti, fogli, fotografie. Ricordo che un giorno tu salisti a piedi nudi sul mio letto e prendesti la prima cosa che ti era capitata tra le mani. Era una lettera, scritta da papà è datata 24 giugno 1981. Sembrava la pagina strappata da un diario con entusiasmo frenetico e dimenticata con altrettanta velocità. 

Oggi ho incontrato la ragazza più bella del mondo, nel mio posto preferito: il vigneto dietro casa del nonno. All’inizio mi guardava spaesata e io ricambiavo: entrambi ci chiedevamo su chi avesse superato il confine del proprio terreno. I suoi genitori hanno il vigneto che accanto a quello del nonno, ma le foglie di vite si sfiorano o si intrecciano tra di loro, per cui è difficile determinare il confine tra i due. Ci abbiamo riso sopra e io ho ammesso di essere il colpevole (in realtà lei aveva superato di una fila il nostro vigneto). Abbiamo parlato tanto, finché la mamma non mi ha ha urlato “Francesco, la cena è pronta”. Mi sono vergognato tanto, soprattutto perché le avevo appena detto che il mio nome era Ettore. Non so perché l’ho fatto, ma Francesco è un nome che non fa per me, ne sono sicuro. Le ho detto che era solo uno scherzo di mia madre, ma se ci vedremo ancora dovrò dirglielo. Non vedo l’ora che sia domani! 

Sul retro del foglio era disegnato un cuore, con un tratto così leggero che non poteva appartenere alla stessa persona che aveva scritto la lettera, così avevamo immaginato che fosse stata mamma. Dovevano essersi accorti che avevamo toccato la scatola, perché il giorno seguente trovammo la mensola vuota e così è rimasta fino ad oggi. 


Il silenzio che durante il giorno soffocava ogni cosa, strisciava via dalle mura durante il sonno. Tu dormivi ed avevi l’aspetto di un angelo: c’era un breve momento della notte in cui il tuo letto nell’angolo della stanza catturava la luce della luna che, filtrata dalla grande vetrata, tramutava in un blu pallido e ti faceva apparire come sospesa. Quell’immagine è così chiara nella mia mente perché ogni notte, quando la luna faceva ingresso nella stanza, le piaceva svegliarmi. E mi costringeva all’ascolto di tutti quei gracili rumori che strisciano sul pavimento della casa o vi si arrampicano tra le mura. Suoni biascicati, insicuri, ritmici, stonati si infilavano nelle mie orecchie e mi rubavano il sonno, finché le tue lenzuola non restituivano quel pallore bluastro alla sorgente e venivano nuovamente inglobate nell'ombra. Tu eri ignara di questo momento onirico che la notte mi costringeva a vivere e sembravi persino sorridere in quel tuo sonno ininterrotto. Nonostante il buio fosse stato ripristinato, io faticavo ogni volta a riaddormentarmi, per cui avevo cominciato ad immaginare che il letto ondeggiasse a ritmo del mio cuore, come una zattera in un mare tranquillo. Col tempo, quel movimento si è fatto sempre più vero. Lo sentivo, tutto intorno a me. Avanti e indietro, al ritmo del mio cuore. Lo sento ancora, ogni sera e ormai non potrei evitarlo, neanche se volessi.

   
 
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